12.09.2013 free
Consiglio di Stato – (esenzione dal contributo urbanistico per le strutture sanitarie private)
§ - Sul piano logico, ha chiarito il Consiglio di Stato, non ha senso sostenere che il gestore di una casa di cura privata non possa essere assimilato ad un imprenditore commerciale, in quanto l'attività del primo sarebbe finalizzata alla tutela della salute e sottoposta ad un regime di vincoli pubblicistici, mentre l'attività del secondo sarebbe finalizzata unicamente al profitto.
Diversamente, in entrambi i casi si tratta, senza distinzioni, di attività imprenditoriale con fini di lucro, nel rispetto delle norme etiche e di diritto rispettivamente previste.
È applicabile alle Case di Cura private la parziale esenzione dal contributo urbanistico prevista dall’art. 10 della L. 28 gennaio 1977, n. 10. E' infatti corretto affermare che l'attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente dovuto, presenta i caratteri oggettivi dell'industrialità e, quindi, deve essere assoggettata al relativo trattamento più favorevole.
Esito del giudizio
Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso proposto da un Comune che riteneva doversi escludere per le strutture sanitarie private il meccanismo di esenzione.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Consiglio di Stato – Sez. V; Sent. n. 4267 del 26.08.2013
omissis
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
La Società X s.r.l., in data 27.12.1986, chiedeva al Comune di P. una concessione edilizia in sanatoria per abusi commessi tra il 1967 ed il 10.1.1977 concernenti eccesso di volumetria e mutamento di destinazione d'uso da residenza alberghiera a casa di cura privata, relativamente ad un intervento edilizio oggetto della precedente concessione n. 270 bis del 12.7.1972.
In data 10.11.1989 veniva rilasciata la concessione in sanatoria richiesta e la medesima società effettuava pagamenti, a titolo di oneri concessori, per un importo complessivo di L. 111.017.000.
Con nota del sindaco n. 3177 del 16.7.1997, rettificata con la successiva nota n. 3308 del 28.7.1997, il Comune richiedeva il pagamento di L. 677.263.500, ritenendo ancora dovuta tale somma, a seguito del calcolo della stessa, effettuato rapportandolo al costo di costruzione, quantificato in L. 3.728.291.500.
La Società X s.r.l., considerando ingiustificata la richiesta del Comune, presentava ricorso (n. 12312/1997) al T.A.R. del Lazio, al fine di ottenere l'annullamento della nota sindacale n. 3177 e della successiva nota di rettifica n. 3308.
La ricorrente società lamentava violazione e mancata applicazione dell'art. 10, comma 1, della L. n. 10 del 1977, violazione e mancata applicazione degli artt. 37 della L. n. 47 del 1985e 9 della L.R. n. 76 del 1985 e avanzava, altresì, domanda di ripetizione delle somme ritenute indebitamente versate al Comune. In subordine chiedeva l'applicazione della delibera del Consiglio Regionale n. 698/1983, punto 4).
Con altro ricorso (n. 2044/1998), la medesima società evidenziava che nelle more del precedente giudizio le era stata notificata, ex art. 2 della L. n. 639 del 1910, l'ingiunzione n. 1 del 18.12.1997, con cui la somma di L. 728.291.500, che negli atti precedenti figurava dovuta in relazione al costo di costruzione, veniva invece riportata quale onere di urbanizzazione, mentre la somma di L. 59.989.000, che nei precedenti atti figurava quale onere di urbanizzazione, veniva indicata come costo di costruzione.
La Società X s.r.l., quindi, chiedeva al T.A.R. l'annullamento della richiamata ingiunzione, la declaratoria dell'inesistenza del credito e la condanna del Comune alla restituzione della somma di L. 51.028.000, corrisposta a titolo di costo di costruzione, oltre interessi e rivalutazione ed in subordine l'accertamento dell'ammontare dell'onere dovuto per il costo di costruzione secondo le modalità fissate dalla delibera del Consiglio regionale del Lazio n. 698/1983, con condanna dell'amministrazione comunale al pagamento di L. 19.299.962 a titolo di parziale indebito sul costo di costruzione già versato, oltre interessi e rivalutazione.
Con ulteriore ricorso (n. 1706/2001), la stessa società riproponeva le domande di accertamento e condanna già presentate con i precedenti ricorsi, lamentando violazione e mancata applicazione dell'art. 10 comma 1 della L. n. 10 del 1977, violazione e mancata applicazione dell'art. 9 della L. n. 10 del 1977, violazione e mancata applicazione degli artt. 37 della L. n. 47 del 1985 e 9 della L.R. n. 76 del 1985. Chiedeva, altresì, la ripetizione delle somme ritenute indebitamente versate al Comune ed in subordine l'applicazione della delibera del Consiglio Regionale del Lazio n. 698/1983 punto 4).
Il T.A.R., con sentenza n. 4832 del 26.4.2001, depositata l'1.6.2001, dichiarava improcedibili i ricorsi n. 12312/1997 e n. 2044/1998, per evidente carenza di interesse a coltivarli da parte della società X s.r.l. ed accoglieva il ricorso n. 1706/2001, dichiarando insussistente il credito vantato dal Comune a titolo di contributo concessorio, nella parte in cui era stato rapportato al costo di costruzione e imponeva l'obbligo, al Comune, di ricalcolare il contributo in base alle disposizioni di cui all'art. 10 comma 1 della L. n. 10 del 1977, nonchè di restituire alla società ricorrente quanto pagato in eccedenza.
Avverso la pronuncia ha proposto appello il Comune di P. .
Si è costituita in giudizio la società X s.r.l. che ha chiesto di respingere l'appello e la conferma della sentenza impugnata.
La causa è stata assunta in decisione all'udienza pubblica del 25 giugno 2013.
Con un primo motivo di censura l'appellante lamenta violazione dell'art. 19 della L. n. 1034 del 1971, dell'art. 39 del codice procedura civile e falsa applicazione dei principi in materia di litispendenza. L'appellante sostiene che la notifica di più ricorsi avverso provvedimenti analoghi determina l'insorgere della reciproca litispendenza ai sensi dell'art. 39 cod. proc. civ. e che, conseguentemente, il T.A.R. avrebbe dovuto dichiarare l'inammissibilità del ricorso n. 1706/2001 (unico deciso) a fronte della rinuncia ai due precedenti da parte della società X. s.r.l.
L'eccezione è infondata e va respinta.
E' giurisprudenza costante, infatti, che qualora vengano proposti più ricorsi analoghi, sia in relazione a provvedimenti impugnati che ai motivi dedotti, il Giudice deve procedere alla loro riunione, ex art. 273 c.p.c., perché la sostanziale identità costituisce il massimo caso di connessione possibile, e non già dichiarare inammissibile l'ultimo per litispendenza (Cons. Stato, sez. IV, 30.11.1992, n. 986).
Sempre in tema, si è ancora espresso questo Consiglio di Stato (sez. IV, 7.1.2013, n. 22) che ha ulteriormente evidenziato che "l'identità di due cause pendenti davanti allo stesso giudice non può determinare il rapporto di litispendenza governato dall'art. 39, comma primo, cod. proc. civ., che presuppone la contemporanea pendenza della "stessa causa" dinnanzi a "giudici diversi", ma solo una situazione riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 274 cod. proc. civ. che, nel caso di identità di cause pendenti dinnanzi allo stesso giudice, consente e prescrive la loro riunione".
Nel merito l'appellante lamenta, poi, violazione dell'art. 37 della L. n. 45 del 1987, in relazione agli artt. 3 e 10 della L. n. 10 del 1977.
L'appellante sostiene che il T.A.R., pur basando la propria decisione su conforme orientamento di questo Consiglio di Stato, avrebbe errato nel ritenere applicabile alle case di cura la parziale esenzione dal contributo urbanistico di cui all'art. 10 della L. n. 10 del 1977, prevista, invece, per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali.
L'assunto non è condivisibile, perché privo di supporto giuridico, fermo restando che sul piano logico non ha senso sostenere che il gestore di una casa di cura privata non possa essere assimilato ad un imprenditore commerciale, in quanto l'attività del primo sarebbe finalizzata alla tutela della salute e sottoposta ad un regime di vincoli pubblicistici, mentre l'attività del secondo sarebbe finalizzata unicamente al profitto.
Diversamente, in entrambi i casi si tratta, senza distinzioni, di attività imprenditoriale con fini di lucro, nel rispetto delle norme etiche e di diritto rispettivamente previste.
L'appellante lamenta, quindi, violazione dell'art. 37 della L. n. 45 del 1985, in relazione agli artt. 3 e 10 della L. n. 10 del 1977, laddove la norma prevede che "il versamento dell'oblazione non esime i soggetti di cui all'art. 31, primo e terzo comma, dalla corresponsione al Comune, ai fini del rilascio della concessione, del contributo previsto dall'art. 3 dellaL. n. 10 del 1977...".
L'appellante assume che, ai sensi della richiamata normativa, l'autore di un abuso edilizio sarebbe obbligato a versare il contributo di costruzione nella sua totalità e insiste nel sostenere che chiunque gestisca attività imprenditoriali in materia sanitaria o, comunque, in un settore in cui entri in campo, in modo diretto o indiretto, la salute del cittadino, solo per questo egli non debba essere ascritto alla categoria degli imprenditori, e assumerne i relativi diritti, oneri e doveri.
La tesi risulta non condivisibile e, come già evidenziato, alquanto originale nella ritenuta applicabilità per le case di cura private.
L'art. 10 della L. 28 gennaio 1977, n. 10 presenta, invero, un dettato chiaro e la sua applicabilità alle case di cura private non richiede esegesi particolari né interpretazioni analogiche, essendo sufficiente soffermarsi sul dettato letterale, nella considerazione che nessuna norma preclude all'imprenditore del settore sanitario di perseguire il profitto, né può influire al riguardo la presenza di incisivi controlli pubblici sull'attività esercitata.
E' corretto, pertanto, affermare che l'attività sanitaria, se svolta da soggetto non istituzionalmente dovuto, presenta i caratteri oggettivi dell'industrialità e, quindi, deve essere assoggettata al relativo trattamento più favorevole.
Al riguardo, è utile anche richiamare l'orientamento di questa Sezione, secondo cui alla concessione edilizia relativa ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista dall'articolo 10 della L. 28 gennaio 1977, n. 10, per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
Tanto dal momento che "l'attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un'attività industriale, giusta la definizione di attività industriale che si ricava dall'art. 2195 cod. civ." (Consiglio di Stato, Sez. V, 16 gennaio 1992, n. 46 e 12 giugno 2007, n. 6328).
Conclusivamente l'appello è infondato e va respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in misura di Euro. 3.000,00 (tremila/00) a carico del Comune di P. .
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese della presente fase di giudizio, che si liquidano in misura di E. 3000,00 (tremila/00), in favore della Società X s.r.l. appellata.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2013 con l'intervento dei magistrati:
Mario Luigi Torsello, Presidente
Antonio Amicuzzi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere, Estensore
Raffaele Prosperi, Consigliere