01/11/2016 free
In tema di danno da perdita del rapporto parentale l'assenza della convivenza, non esclude il risarcimento.
Non è possibile ritenere che solo in caso di convivenza il rapporto assumarilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunità familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianità della vita, si esplica la personalità di ciascuno, atteso che in tal modo si esclude a priori il diritto del nipote non convivente al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale sulla base di un elemento estrinseco, transitorio e del tutto casuale quale è quello della convivenza, di per sé poco significativo, ben potendo ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE - SENTENZA 20 ottobre 2016, sentenza n.21230 - Pres. Spirito - est. Scrima
omissis
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si lamenta 'violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 e 2059 c.c. e degli artt. 2, 29, 31 e 32 Cost., sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3 c.p.c.'.
Le ricorrenti censurano la sentenza della Corte di merito nella parte in cui ha ritenuto, in applicazione del principio di diritto affermato da Cass. 16/03/2012, n. 4253, e, quindi, successivamente all’introduzione sia del giudizio di primo grado sia di secondo grado, secondo cui il risarcimento da fatto illecito a soggetti estranei al ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza.
Sostengono le ricorrenti, richiamando al riguardo un diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità (e, tra le altre, in particolare la sentenza di questa Corte del 15/07/2005, n. 15019) che 'la morte di un congiunto, conseguente a fatto illecito, configura per i superstiti del nucleo familiare un danno non patrimoniale diretto ed ingiusto, costituito dalla lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili, quali la perdita di affetti e di solidarietà inerenti alla famiglia come società naturale' e che tale danno, 'incidendo esclusivamente sulla psicologia, sugli affetti e sul legame parentale esistente tra la vittima dell’atto illecito e i superstiti, non è riconoscibile se non attraverso elementi indiziari e presuntivi che, opportunamente valutati, con il ricorso ad un criterio di normalità, possano determinare il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di un bene ledo) e da tutelare (quello derivante del vincolo familiare), senza che un requisito in via esclusiva o condizionante a coabitazione), ne determini la sussistenza o meno', 'dovendosi... considerare come il legame familiare - tutelato a livello costituzionale - non possa.., legarsi necessariamente alla convivenza, quasi che in assenza di questa se ne possa negare il valore', e che 'anzi, proprio la sussistenza di frequentazione e di normali rapporti, anche in assenza di coabitazione, lascia intendere come sia rimasto intatto, e come si sia rafforzato nel tempo, il legame affettivo e parentale tra i prossimi congiunti'. Assumono peraltro le ricorrenti che le tabelle applicate dai vari Tribunali, tra cui quello di Roma, considerano la convivenza quale 'requisito per ottenere un punteggio maggiore' ai fini della quantificazione dei danni e non 'una condizione necessaria al ristoro'.
1.1. Il motivo è fondato.
La Corte di merito ha ritenuto infondato l’appello proposto in relazione al mancato risarcimento del danno iure proprio subito dalle nipoti della vittima per un duplice ordine di ragioni. Da una parte, richiamandosi al principio affermato da Cass. 4253/2012, ha evidenziato che, nella specie, le nipoti non erano conviventi con la vittima; dall’altra, ha pure condiviso il rilievo del primo giudice, secondo cui 'se è pur vero che la cerchia dei soggetti legittimati a rivendicare la qualifica di vittime secondarie non è limitabile in astratto e aprimi, pur tuttavia occorre sottolineare come nella suddetta cerchia devono necessariamente rientrare esclusivamente quei soggetti che provino di aver subito un effettivo danno dalla perdita del proprio congiunto, dovendosi verificare in ciascun caso concreto se ricorrano i presupposti per il risarcimento, vale a dire l’effettivo verificarsi di un danno in capo ai suddetti soggetti', che a tale riguardo 'gli elementi fattuali da prendere in considerazione sono gli stessi validi per le altre categorie di congiunti, vale a dire la effettività e la consistenza della relazione, la intensità della stessa desunta dalle modalità di frequentazione e da ogni altro significativo indice del rapporto e della incidenza della perdita', e che, nel caso di specie, dalla documentazione, in atti non è emerso alcun elemento volto a far ritenere l’effettiva sussistenza di una frequentazione assidua con la defunta nonna, né tanto meno che tra le stesse (attuali ricorrenti) e quest’ultima esistesse una relazione nell’ambito del contesto familiare o, quanto meno un concreto valido e reale supporto morale, non convivendo, peraltro, le ricorrenti con il proprio congiunto', ha affermato che le appellanti non hanno dimostrato di aver effettivamente subito un danno dalla perdita della nonna, sulla base degli elementi fattuali evidenziati dal Tribunale, e ha considerato inammissibili le prove costituende di cui le appellanti avevano chiesto l’ammissione in grado di appello, perché non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, specificando che né nelle note conclusive antecedenti l’udienza di discussione né in sede di udienza di discussione erano state riproposte le istanze istruttorie che il primo giudice non aveva ammesso con l’ordinanza in data 31 marzo 2010.
Per quanto attiene alla prima ratio decidendi cui si riferisce il motivo all’esame, osserva il Collegio che non può essere condiviso l’orientamento restrittivo della giurisprudenza di legittimità da ultimo ribadito con la sentenza richiamata dalla stessa decisione impugnata e secondo cui il fatto illecito, costituito dall’uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare; perché, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Cost. (Cass. 16 marzo 2012, n. 4253).
Se è infatti innegabile che - come pure si evince dalla sentenza del 2012 - occorre conciliare il diritto del superstite alla tutela del rapporto parentale 'con l’esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari', tuttavia non ritiene il Collegio che 'il dato esterno ed oggettivo della convivenza' possa, come invece affermato nella già richiamata pronuncia, essere elemento idoneo 'a bilanciare' le evidenziate contrapposte esigenze e che, quindi, nell’ambito del danno non patrimoniale per la morte di un congiunto, il rapporto nonni-nipoti debba essere ancorato alla convivenza per essere giuridicamente qualificato e rilevante, con esclusione nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto. Al riguardo va evidenziato che le sentenze n. 8827 e a 8828 del 31/05/2003 hanno ridefinito, rispetto alle opinioni tradizionali, presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale e la lettura, costituzionalmente orientata, data da dette sentenze all’art. 2059 c.c. è stata condivisa e fatta propria da Cass., sez. un., 11/1172008, n. 26972 che tale lettura ha pure espressamente 'completato' nei termini specificati in quella pronuncia. In particolare nella sentenza del 2008 le Sezioni Unite di questa Corte, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, hanno esteso la tutela ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione e, per effetto di tale estensione, hanno ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 cc., anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) con la precisazione che il danno non patrimoniale da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto consiste nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell’interesse protetto (v. in particolare sentenze n. 8827 e n. 8828/2003). Le Sezioni Unite di questa Corte, con tutte le sentenze sopra richiamate, hanno precisato che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza che deve essere allegato e provato, neppure potendo condividersi la tesi che trattasi di danno in re ipsa, sicché dovrà al riguardo farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.
In tale contesto risulta non condivisibile limitare la 'società naturale' della famiglia cui fa riferimento l’art. 29 della Costituzione all’ambito ristretto della sola cd. 'famiglia nucleare', incentrata su coniuge, genitori e figli, e non può ritenersi - dissentendo sul punto da Cass. n. 4253/14 - che le disposizioni civilistiche che specificamente concernono i nonni non siano tali 'da poter fondare un rapporto diretto, giuridicamente rilevante, tra nonni e nipoti ' ma piuttosto individuino 'un rapporto mediato dai genitori-figli o di supplenza dei figli', evidenziandosi, a tale riguardo, che il nostro ordinamento non solo include i discendenti in linea retta tra i parenti (art. 75 c.c.) e riconosce tra nonni e nipoti uno stretto vincolo di parentela (v. art. 76 c.c., quanto al computo dei gradi) ma prevede nei confronti dei discendenti e viceversa una serie di diritti, doveri e facoltà - il cui elenco non è il caso di riprodurre in questa sede, salvo a richiamare, per la sua emblematicità ai fini che qui interessano, l’art. 317 bis c.c., secondo cui gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, con la possibilità per i predetti di ricorrere al giudice nel caso in cui l’esercizio di tale diritto sia impedito - da cui risulta l’innegabile rilevanza anche giuridica, oltre che affettiva e morale, di tale rapporto.
Neppure risulta condivisibile l’affermazione contenuta nella sentenza n. 4253 del 2014 di questa Corte, alla quale si è espressamente richiamata la decisione impugnata e secondo cui, affinché possa ritenersi leso il rapporto parentale di so etti al di fuori della famiglia nucleare (nonni, nipoti, genero, nuora), è necessaria la convivenza, 'quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico', in quanto non ritiene il Collegio che solo in caso di convivenza 'il rapporto assum(a) rilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunità familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianità della vita, si esplica la personalità di ciascuno', atteso che in tal modo si esclude a priori il diritto del nipote non convivente al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale sulla base di un elemento estrinseco, transitorio e del tutto casuale quale è quello della convivenza, di per sé poco significativo, ben potendo ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro e non convivenze determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà.
Peraltro, con sentenze successive alla n. 4253 del 16/03/2012, questa Corte ha riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale in favore del coniuge ancorché separato legalmente, purché si accerti che l’altrui fatto illecito abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara, pur essendo necessario a tal fine dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso (Cass. 17/01/2013, n. 1025), e ha pure precisato che lo status di separato - connettendosi alla sua non definitività e alla possibile ripresa della comunione familiare, oltre che, comunque, alla pregressa esistenza di un rapporto di coniugio nei suoi aspetti spirituali e materiali, e alla eventuale esistenza di figli - non è in astratto incompatibile con la posizione di danneggiato secondario (Cass. 12/11/2013, n. 25415), così ponendo l’accento sulla lesione alla sfera affettiva familiare a prescindere dalla convivenza, in relazione a soggetto ormai di fatto in posizione eccentrica rispetto alla famiglia nucleare. Inoltre, va pure rimarcato che ancorare il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale alla convivenza tra il congiunto non ricompreso nella cd. famiglia nucleare e la vittima potrebbe essere fodero di un automatismo risarcitorio sicuramente da bandire.
Se dunque la convivenza non può assurgere a connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali ovvero a presupposto dell’esistenza del diritto in parola, la stessa costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l’ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare anche il quantum debeatur.
Va da sé che ad evitare quanto già paventato da questa Corte (dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari e possibilità di prove compiacenti) è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l’entità dei danni (v. Cass. 22/10/2013, n. 23917; Cass. 21/01/2011, n. 1410) e che tale prova sia correttamente valutata dal giudice.
2. Con il secondo motivo si lamenta 'violazione e/o falsa applicazione dell’art. 420 (e) c.p.c., sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.'. Le ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto inammissibili in appello le richieste istruttorie da loro formulate in quanto non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado né nelle note conclusive antecedenti l’udienza di discussione né in sede di udienza di discussione, istanze che il primo giudice non aveva ammesso con l’ordinanza in data 31 marzo 2010. Evidenziano le ricorrenti che trattasi di causa introdotta e trattata con il rito del lavoro, nel quale non è prevista un’udienza di precisazione delle conclusioni ma un’udienza di discussione e che, pertanto, non sarebbe applicabile la ('A giurisprudenza di legittimità richiamata dalla Corte di merito a fondamento della sua statuizione sul punto e che comunque il Tribunale, con la già richiamata ordinanza, aveva disatteso le istanze istruttorie in parola sul rilievo che non fosse in contestazione l’an ma esclusivamente la quantificazione dei danni di cui era stato chiesto il risarcimento.
2.1. Il motivo, che avrebbe dovuto essere correttamente veicolato con l’art. 360, primo comma, n 4, c.p.c., è comunque ammissibile (Cass., ord., 20/02/2014, n. 4036; Cass. 29708/2013, n. 19882) ed è pure fondato, dovendosi al riguardo ribadire il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, nelle controversie soggette al rito del lavoro, la parte, la cui prova non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata ammissione attraverso un apposito motivo di gravame, senza che possa attribuirsi significato di rinuncia o di acquiescenza al fatto di non aver ripetuto l’istanza di ammissione nelle conclusioni di primo grado, in quanto non essendo previste, in detto rito, udienze di mero rinvio o di precisazione delle conclusioni, ogni udienza è destinata alla decisione e, pertanto, qualora le parti abbiano tempestivamente articolati mezzi di prova nei rispettivi atti introduttivi, il giudice non può desumere l’abbandono delle istanze istruttorie dalla mancanza di un’ulteriore richiesta di ammissione nelle udienze successive alla prima (Cass. 27/02/2014, n. 4717; v. pure Cass. 26/02/2008, n. 5026, Cass. 18/06/2003, n. 9791, Cass. 12/12/1980, n. 6422).
3. Con il terzo motivo, lamentando 'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 115 cpc', le ricorrenti deducono che 'le circostanze relative all’intensità della frequentazione' tra esse e la nonna, 'al supporto morale esistente tra le stesse, alla convivenza parziale, all’affetto reciproco, al tempo passato insieme, alle attività svolte in comune', già indicate nel ricorso introduttivo del primo grado e riportate nel ricorso e in parte documentalmente provate, non sarebbero mai state contestate dalla controparte e malgrado ciò la Corte di merito avrebbe omesso di porre a fondamento della decisione tali fatti non contestati.
3.1. Il motivo è infondato, avendo le ricorrenti dedotto genericamente tale non contestazione ed avendo invece la controricorrente fondatamente rappresentato di aver contestato il difetto di prova in relazione alla voce di danno di cui si discute.
4. L’esame dei motivi quarto e quinto, con cui si contesta la statuita inammissibilità delle istanze istruttorie reiterate in appello dalle attuali ricorrenti, resta assorbito dall’accoglimento del secondo motivo.
4. Con il sesto motivo e il settimo motivo si lamenta la 'nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.', rispettivamente in relazione ai nn. 3 e 4 dell’art. 360, primo comma, c.p.c., per non aver né il Tribunale né la Corte di merito pronunciato sulla domanda volta all’accertamento della responsabilità esclusiva nel sinistro di cui si discute in causa in capo a M.P.A. .
5.1. I motivi sesto e settimo vanno disattesi.
Ed invero, non è configurabile il vizio di omessa pronuncia nel caso all’esame in base al principio secondo cui una domanda sulla quale il giudice non abbia espressamente provveduto può considerarsi accolta con pronuncia implicita ove costituisca il presupposto di fatto e l’antecedente logico - giuridico necessario di altra istanza, legata alla prima da un indissolubile rapporto di dipendenza, sulla quale invece egli abbia deciso (Cass. 5/04/2005, n. 7086). Si evidenzia che, nella specie, la Corte di merito ha rigettato l’appello ritenendo infondato il motivo di gravame relativo al mancato risarcimento iure proprio subito dalle nipoti della vittima per le ragioni già sopra espresse e inammissibile l’impugnazione inerente il mancato riconoscimento del danno iure hereditatio (questione quest’ultima non oggetto del ricorso per cassazione all’esame) per genericità e non per difetto di responsabilità del conducente dell’auto, M.P.A. , nella causazione del sinistro di cui si discute in causa, responsabilità, peraltro, espressamente ammessa anche in controricorso dalla società assicuratrice, la quale ha pure spontaneamente risarcito M.P. , figlia della trasportata deceduta, S.C. .
6. L’esame dell’ottavo motivo di ricorso, con cui si impugna la statuizione della Corte di merito in relazione alle spese di lite, resta assorbito.
7. In conclusione, il ricorso deve essere, pertanto, accolto per quanto di ragione e, specificamente, vanno accolti il primo e il secondo motivo del ricorso, vanno rigettati i motivi terzo, sesto e settimo e dichiarati assorbiti i motivi quarto, quinto e ottavo; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà ai principi di diritto sopra espressi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, rigetta i motivi terzo, sesto e settimo e dichiara assorbiti i motivi quarto, quinto e ottavo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.