29.05.2015 free
Corte di Cassazione – Penale (esercizio abusivo della professione medica e conseguente amputazione di una gamba)
Confermata la sentenza con la quale un imputato era stato ritenuto responsabile dei reati di esercizio abusivo della professione medica, di falsa dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie e di lesioni personali. L’uomo era accusato di aver esercitato abusivamente la professione di medico chirurgo in mancanza della relativa abilitazione professionale, visitando e medicando un paziente affetto da una vescica al piede destro omettendo di prescrivergli la necessaria terapia antibiotica, i dovuti accertamenti diagnostici ed il ricovero ospedaliero. Derivava che il processo cangrenoso esitasse nell’amputazione della gamba destra. L’imputato dichiarava inoltre alla Polizia giudiziaria di essere in possesso della laurea in medicina e di svolgere la professione medica.
L’imputato veniva condannato alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione oltre al risarcimento del danno.
La Suprema corte ha anche evidenziato che Il successo di interventi realizzati nei confronti di altri pazienti non contrasta con la consapevolezza dell'imputato di potersi trovare nell'impossibilità di gestire situazioni diverse, in mancanza di adeguata preparazione professionale, e con la conseguente accettazione del realizzarsi di tali condizioni.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
Cassazione Penale - Sez. V; Sent. n. 19554 del 12.05.2015
Omissis
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata veniva confermata la sentenza del Tribunale di Como del 25/10/2012, con la quale T.M. era ritenuto responsabile del reato continuato di cui agli artt. 348, 582 e 495 c.p., commesso nel X. esercitando abusivamente in X. la professione di medico chirurgo in mancanza della relativa abilitazione professionale, visitando e medicando nel corso di detta attività L.S., affetto da una vescica al piede destro, omettendo di prescrivergli la necessaria terapia antibiotica, i dovuti accertamenti diagnostici ed il ricovero ospedaliero in conseguenza dell'evoluzione della malattia e cagionando un processo gangrenoso che esitava nell'amputazione della gamba destra, ed il X. dichiarando falsamente alla polizia giudiziaria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como di essere in possesso della laurea in medicina e di svolgere la professione di medico; e condannato alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile.
L'imputato ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione sulla qualificazione del reato di lesioni come doloso anzichè colposo; la ravvisabilità del dolo sarebbe stata succintamente motivata in base all'assimilabilitè del caso di specie a quello dell'intervento medico nel quale il consenso informato del paziente sia stato ottenuto con l'inganno, nella specie perpetrato tacendo la mancanza del titolo abilitativo, ma l'assenza di un valido consenso informato non comporterebbe una necessaria conclusione in termini di sussistenza del dolo; e nella situazione esaminata non sarebbero state valutate a questi fini le circostanze per le quali nella querela il L. riferiva di essersi rivolto al T. in quanto fiducioso nelle sue cure, già prestate con esito positivo in una precedente occasione, numerosi interventi venivano effettuati con successo su altri pazienti, nessuno dei quali sporgeva querela nei confronti dell'imputato, il perito accertava che l'intervento del T. nella sua fase iniziale era stato corretto e non era individuabile un interesse personale che avrebbe spinto l'imputato ad agire a scapito dell'integrità fisica del L..
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Le censure del ricorrente sono essenzialmente articolate con riguardo al tema dell'esistenza o meno di un valido consenso informato della persona offesa, che nel complesso motivazionale della sentenza impugnata assumeva un rilievo secondario. La Corte territoriale, riproponendo sinteticamente un'argomentazione più estesamente sviluppata nella sentenza di primo grado, giungeva infatti a confermare quest'ultima principalmente in base alla ravvisabilità, nei confronti dell'imputato, del dolo eventuale con riguardo alla causazione delle lesioni. Ed osservava in questi termini come il T. avesse agito accettando il rischio dell'evento lesivo;
segnatamente intraprendendo l'intervento curativo senza la necessaria preparazione, con ciò prefigurandosi la possibilità, senza essere in grado di escluderla in base alle cognizioni delle quali disponeva, che la semplice medicazione della vescica fosse insufficiente in assenza di più approfonditi accertamenti e di un'adeguata terapia farmacologica, e che la malattia evolvesse fino a rendere necessario il ricovero ospedaliero.
Gli elementi segnalati dal ricorrente, per quanto detto precipuamente riferiti alla tematica del consenso informato, risultano privi di decisività nella diversa prospettiva della sussistenza di un dolo eventuale nei termini appena indicati, e pertanto coerentemente non considerati nella sentenza impugnata. E' invero irrilevante in questa prospettiva l'affidamento dichiarato dal L. nelle capacità dell'imputato; ed altrettanto lo è la mancanza di un interesse dell'imputato ad agire in spregio dell'integrità fisica del L..
Il successo di interventi realizzati nei confronti di altri pazienti non contrasta con la consapevolezza dell'imputato di potersi trovare nell'impossibilità di gestire situazioni diverse, in mancanza di adeguata preparazione professionale, e con la conseguente accettazione del realizzarsi di tali condizioni; e nessuna contraddittorietà è altresì ravvisabile rispetto all'iniziale correttezza delle cure effettuate dal T. nel caso in esame, nel momento in cui il ravvisato dolo eventuale ha ad oggetto l'accettazione della possibilità di uno sviluppo infettivo quale quello effettivamente verificatosi, che avrebbe richiesto interventi che l'imputato sapeva essere al di sopra delle proprie possibilità.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che avuto riguardo alla dimensione dell'impegno processuale si liquidano in Euro 3.500 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al rimborso delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 3.000, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2015.
Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2015