06/12/2022 free
I limiti di prova nella ipotesi di risarcimento da demansionamento
In ordine al demansionamento è stato affermato che il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.
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Pubblicato il 18/11/2022
N. 10161/2022REG.PROV.COLL.
N. 10054/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10054 del 2019, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati ....
contro
il Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro tempore, il Ministero della giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale Abruzzo e Molise e la Casa circondariale di -OMISSIS-, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per il Molise, n. -OMISSIS-, resa inter partes.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia, del Ministero della giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale Abruzzo e Molise e della Casa Circondariale di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 87, comma 4-bis, c.p.a.;
Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 5 ottobre 2022 il consigliere Giovanni Sabbato e uditi per le parti l’avvocato ..., in sostituzione dell’avvocato ... e l’avvocato dello Stato ...;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso (n. -OMISSIS-) al T.a.r. Molise la signora -OMISSIS-, dipendente del Ministero della giustizia ed in servizio presso la Casa circondariale di -OMISSIS-, chiedeva il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, anche quale danno biologico professionale esistenziale e morale, conseguenti agli atti e fatti illegittimi, mobbizzanti e comunque persecutori a suo dire subiti all'interno dell’ambiente di lavoro posti in essere dall’Amministrazione attraverso i suoi superiori gerarchici.
1.1. In fatto occorre precisare che secondo quanto esposto dalla ricorrente:
- ella aveva prestato servizio dal -OMISSIS- presso la Casa circondariale di -OMISSIS- come “Addetto alla -OMISSIS-” e dal -OMISSIS- era stata invece assegnata all’-OMISSIS-;
- sin -OMISSIS- era stata oggetto di una condotta vessatoria da parte dell’Amministrazione, principiata con l’ordine di rispettare il termine di preavviso in caso di richiesta di giorni di riposo previsti dalla legge n. 104/92, pur trovandosi nella materiale impossibilità di programmare con anticipo l’assistenza da prestare al proprio coniuge invalido al 100%;
- -OMISSIS-, per la prima volta nella sua carriera, aveva subito una contestazione di addebito disciplinare da parte del suo superiore gerarchico; era stata improvvisamente assegnata a turni notturni e comandata nella sezione dei semiliberi, tutti detenuti di sesso maschile e quindi, sempre più spesso era stata costretta a prestare da sola servizio di block house e portineria e, contemporaneamente, controlli e vigilanza dei detenuti in semilibertà;
- era stata in seguito definitivamente demansionata in quanto estromessa dall’area contabile a seguito della soppressione del settore “-OMISSIS-”, presso il quale espletava servizio;
- con nota n. -OMISSIS- era stata destinataria di una illegittima valutazione professionale, che le aveva attribuito il punteggio -OMISSIS- per una asserita diminuzione delle sue qualità morali, cosa che l’aveva costretta a presentare ricorso agli organi competenti, all’esito del quale aveva avuto un parziale riscontro positivo, ottenendo il punteggio finale di 29, comunque inferiore al punteggio di 30 sempre ottenuto negli anni precedenti;
- i suoi turni erano stati continuamente ed immotivatamente modificati e fatti quasi sempre coincidere con le principali festività; era stata assegnata ai posti di servizio, quali la portineria e il block house nei rientri festivi, allo scopo di isolarla e renderla inoperativa e le era stato anche impedito di portare il cellulare e quindi di potere ricevere eventuali chiamate di emergenza da parte dei familiari; tutte le sue richieste erano state sistematicamente ed immotivatamente ritardate o inevase;
- era stata infine respinta immotivatamente la sua richiesta di essere assegnata a turni fino alle 22 di sera per poter assistere il coniuge, presentata in data -OMISSIS- e successivamente ribadita il -OMISSIS-.
2. A sostegno del ricorso la ricorrente, precisando di avere un coniuge affetto da handicap grave e permanente, allegava una serie di episodi dai quali sarebbe emerso un comportamento vessatorio e discriminatorio da parte dell’Amministrazione di appartenenza, concretantesi in un vero e proprio c.d mobbing, tale da cagionarle una seria patologia consistente in un -OMISSIS-.
3. Costituitosi il Ministero della giustizia in resistenza, l’adito T.a.r. con la sentenza segnata in epigrafe ha respinto il ricorso e compensato le spese di lite.
4. In particolare il Tribunale ha ritenuto “di dover ragionevolmente escludere che gli stessi possano qualificarsi alla stregua di una condotta del datore di lavoro pubblico qualificabile come “mobbing” nei termini sopra descritti, non potendosi in essi ravvisare alcuna illegittimità né un intento ostile o vessatorio nei confronti della dipendente. Non è emerso, infatti, che la lavoratrice sia stata vittima di un qualche demansionamento essendo, al contrario, assegnata a mansioni coerenti con la propria qualifica professionale; la stessa, inoltre, ha sempre goduto dei permessi garantiti dalla legge n 104/92 ed è stata assegnata all’-OMISSIS- proprio per meglio far fronte alle proprie esigenze familiari”.
5. Avverso tale pronuncia la signora -OMISSIS- ha interposto appello, notificato il 29 novembre 2019 e depositato il 6 dicembre 2019, lamentando, attraverso un unico complesso motivo di gravame (pagine 15-29) che il T.a.r. erroneamente non avrebbe rilevato la sussistenza nel caso de quo della condotta di mobbing e non le avrebbe riconosciuto il risarcimento integrale dei danni per violazione dell’art. 2013 c.c., dell’art. 2014 c.c., dell’art. 2019 c.c., dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 2087 c.c. nonché delle norme stabilite dal CCNL applicabile; violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 3 L. 104/92 e lettera circolare GDAP-0127143-2011 del 29 marzo 2011; ha altresì dedotto illegittimità, invalidità e/o ingiustizia delle contestazione degli addebiti disciplinari prot. -OMISSIS- e di tutti gli atti presupposti, conseguenziali e/o comunque connessi anche per violazione dell’art. 97 Cost. e della L. 241/90; illegittimità, invalidità e/o ingiustizia dell’ordine di servizio n. -OMISSIS- e di tutti gli atti presupposti, conseguenziali e/o comunque connessi anche per violazione dell’art. 97 Cost. e della L. 241/90; illegittimità, invalidità e/o ingiustizia della nota prot. -OMISSIS- anche per violazione dell’art 44 d.lgs. 443/92, dell’art. 97 Cost. e della l. 241/90; illegittimità, invalidità e/o ingiustizia degli ordini verbali di servizio e dei fogli di servizi sezione semiliberi di tutti gli atti presupposti, conseguenziali e/o comunque connessi anche per violazione dell’art. 6 L. 395/1990, dell’art. 97 Cost e della l. 241/90; illegittimità, invalidità e/o ingiustizia dei fogli di servizio turno e/o orario notturno anche per violazione e falsa applicazione del d.P.R. 170/2007 anche in riferimento al d.lgs. 151/2001 nonché dell’art. 8 accordo nazionale quadro d’amministrazione per il personale appartenente al corpo di polizia penitenziaria stipulato ai sensi dell’art. 3, comma 7 d. lgs. 195/1995; violazione e falsa applicazione dei principi di buona fede e correttezza ex artt. 1375 e 1175 c.c.; travisamento dei fatti; falsità dei presupposti ed omessa e/o insufficiente istruttoria nonché illogicità ed irragionevolezza.
6.1. L’appellante ha in sostanza lamentato l’erronea valutazione da parte del giudice di prime cure della valutazione dei fatti di causa, sicuri sintomi di una condotta vessatoria in palese violazione delle norme a tutela del lavoratore, nonché l’omessa pronuncia circa la possibilità di valutare i comportamenti denunciati, ancorché non come mobbing, ma in ogni caso idonei ad essere ascritti a responsabilità del datore di lavoro. La sentenza impugnata si sarebbe limitata ad affermare apoditticamente la liceità degli atti compiuti dall’Amministrazione, adagiandosi sulla prospettazione di quest’ultima, senza tener conto della sua struttura fortemente militarizzata e gerarchica, e senza di considerare i vari comportamenti puntualmente denunciati (a cominciare dai comandi di servizio del Commissario Maiorano, “le pretestuose richieste” circa la prova della situazione di disabilità del coniuge, già nota all’Amministrazione, gli “avvertimenti” ricevuti (come di non portare il telefono in portineria, sebbene fosse già stato consentito, per evitare rimostranze di un superiore, “i vaghi e fuorvianti riscontri della Direttrice”) e che così l’Amministrazione sarebbe incorsa sia nella violazione dell’art. 2087 c.c., laddove impone alla parte datoriale la protezione della persona fisica e morale del lavoratore, sia dell’art. 2049 c.c. a mente del quale “I padroni ed i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.
7. L’appellante ha concluso chiedendo, in riforma dell’impugnata sentenza, eventualmente anche previa istruttoria, l’accoglimento del ricorso di primo grado con la condanna dell’Amministrazione al risarcimento di tutti i danni patiti e patendi.
8. In data 23 gennaio 2020 il Ministero della giustizia si è costituito in giudizio.
9. In data 29 agosto 2022 l’appellante ha depositato una memoria insistendo per l’accoglimento del gravame, ribadendo e avanzando, previa valutazione della relativa necessità da parte del Collegio, richiesta di ammissione di prova per testi.
10. La causa, chiamata per la discussione all’udienza telematica del 5 ottobre 2022, sentite le parti (tra l’altro il difensore di parte appellante ha dichiarato di non accettare il contraddittorio sulla memoria di replica di controparte), è stata trattenuta in decisione.
11. L’appello, con il quale – come accennato – l’interessato ha sostanzialmente riproposto le censure sollevate in primo grado, a suo avviso malamente apprezzate ed ingiustamente respinte, è infondato, essendo appena il caso di aggiungere che anche l’eventuale fondatezza della doglianza di omessa pronuncia su alcune delle censure sollevate in primo grado non determinerebbe l’annullamento della sentenza con rinvio della causa al giudice di prime cure, ai sensi dell’art. 105 c.p.a. (richiesta che peraltro l’appellante non ha neppure formalizzato espressamente), ma ne imporrebbe solo l’esame al giudice di appello.
11.1. Ciò posto, si osserva che la questione controversa concerne una pretesa fattispecie di mobbing, la cui configurabilità richiede il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso. Infatti “in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell’"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro (Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14; id., sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905)” (Cons. Stato, sez. II, 28 gennaio 2021, n. 862). Per consolidata giurisprudenza si tratta di elementi tutti che il lavoratore ha l’onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (ex ceteris, Cons. Stato, sez. II, n. 862 cit.; Cass. sez. lav. n. 29767/2020: “ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., n. 10992 del 2020)”) (cfr. Cons. Stato, sez. II, n. 4671 dell’8 giugno 2022).
E’ stato affermato che “l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall'intento persecutorio nei confronti della “vittima”” (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910).
11.2. Sulla base di tali coordinate giurisprudenziali la fattispecie in esame non è meritevole di favorevole apprezzamento.
Posto che la distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie neppure rileva, venendo in evidenza entrambe le componenti giacché l’interessata non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori diversi (per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio è tutt’altro che provata), si osserva che i fatti denunciati sono asseritamente consistiti: - nell’indebito ostacolo frapposto alla fruizione dei permessi ex lege n. 104/92 per assistere il marito disabile; - nella estromissione della sola -OMISSIS- dall’area contabile e dall’attività di “ufficio”; - nella “dequalificazione professionale” subìta; - nel conseguimento, nel complesso, di “risultati” comunque positivi; - in comandi di servizio incuranti delle esigenze rappresentate dalla lavoratrice; - nell’immotivato rigetto (per l’assenza di idonea certificazione medica nonostante un percorso operatorio e riabilitativo ben noto alla parte datoriale) della richiesta di esonero temporaneo dai tiri al poligono a seguito di un infortunio sul lavoro; - in un rapporto disciplinare negativo “del tutto pretestuoso”; - nella sottoposizione della -OMISSIS- a turni di servizio disagevoli; - nella svalutazione, da parte del Comandante di Reparto e dello stesso Direttore, della figura professionale della dipendente; - nelle pretestuose richieste inoltrate alla medesima come quella di dimostrare una situazione di disabilità (del coniuge) già nota al fine di godere delle agevolazioni di legge; - negli “avvertimenti” ricevuti, come quello di non portare il telefono in portineria.
Sennonché, come già rilevato in precedenza, affinché tali fatti possa dar luogo ad una fattispecie di mobbing è necessario che essi siano tutti sussumibili sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di un’unica strategia, ancorché posta in essere attraverso atti e comportamenti singolarmente rilevanti; infatti singoli atti e comportamenti riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale elemento psicologico unificante, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno.
La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).
11.3. Chiarito quanto sopra, può passarsi a vagliare la complessa vicenda sottesa alle deduzioni della ricorrente, avuto riguardo peraltro alla dualità delle richieste avanzate, in primo luogo, il danno da quello da mobbing; indi da mancata adozione delle misure a tutela della salute del lavoratore.
E’ noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della tematica, esclude che il giudice possa assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali. In altre parole non si può sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate.
Nel caso di specie effettivamente l’odierna appellante risulta essere stata assegnata a compiti d’istituto non incoerenti con la propria qualifica seppure oggettivamente più disagevoli rispetto a quelli precedentemente svolti; né tali mansioni possono essere ritenute tanto penalizzanti da innescare le patologie riscontrate. Invero occorre distinguere tra la oggettiva rilevanza dei comportamenti ascrivibili ai superiori del ricorrente (mobbing verticale) ovvero dei colleghi (mobbing orizzontale) e le conseguenze che questi avrebbero prodotti sullo stato di salute del dipendente, non potendosi dare rilevanza a questi ultimi in mancanza di una causa efficiente oggettivamente rilevante. Se è vero che l’appellante denuncia una situazione di stress assurta al rango di vera e propria patologia, è pur vero che non emerge una condotta oggettivamente lesiva, quanto piuttosto un regime di conflittualità che si è inasprito anche per effetto dell’intervento a sua difesa del sindacato di appartenenza della lavoratrice (-OMISSIS-) e che ha comportato quello che la stessa appellante definisce “una fitta corrispondenza” tra il sindacato e la Direzione della Casa Circondariale.
L’appellante valorizza una serie di episodi asseritamente idonei ad integrare una vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni, che tuttavia non risultano collegati fra di loro e avvinti da quel filo conduttore che consenta di riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato di recente dalla Sezione (sentenza 11 marzo 2020, n.1746), per costante e condivisa giurisprudenza (ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11 dicembre 2019, n. 32381) “il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”. E’ proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo riscontro negli atti di causa.
Per quanto riguarda poi l’asserito demansionamento è stato affermato (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371) che “il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ. sez. lav., 5 dicembre 2008, n. 28849)”. A fronte di ciò l’appellante si è limitata ad affermare il mancato rispetto dell’assetto mansionistico di riferimento che tuttavia, per le ragioni anzidette, non emerge dagli atti di causa, fermo restando che, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova incombe sull’istante secondo il principio generale previsto dall’art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24 dicembre 2019, n. 8813). Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non provato.
12. L’appellante insiste altresì per la domanda di risarcimento del danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c., implicitamente evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento del danno per mobbing.
Per vero l’art. 2087 c.c. – secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro – può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing. Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati — esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale — pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282). La domanda risarcitoria postula però una lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore causalmente riconducibile al comportamento datoriale, circostanza questa di cui non vi è traccia negli atti di causa.
Anche tale domanda va quindi respinta.
13. Per le medesime ragioni va disattesa ogni ulteriore domanda risarcitoria riproposta in questa sede dall’appellante per la dedotta violazione delle norme a tutela della salute del lavoratore.
14. Va infine disattesa l’istanza istruttoria, avanzata in calce al ricorso, già solo per il fatto che il giudice non può sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto, incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda risarcitoria.
15. In conclusione l’appello è infondato e pertanto deve essere respinto.
16. Sussistono nondimeno giusti motivi, stante la particolarità della vicenda sotto il profilo fattuale, per compensare le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (n.r.g. 10054/2019), lo respinge.
Spese del presente grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 5 ottobre 2022 svoltasi in collegamento da remoto ai sensi dell’art. 87, comma 4-bis, c.p.a., con l’intervento dei magistrati:
Carlo Saltelli, Presidente
Giovanni Sabbato, Consigliere, Estensore
Antonella Manzione, Consigliere
Fabrizio D'Alessandri, Consigliere
Ugo De Carlo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giovanni Sabbato Carlo Saltelli