03.07.03 free
TAR SALERNO - (sulla legittimta' del cosiddetto lab service - consistente nella effettuazione di prestazioni su campioni biologici di pazienti che non si sono rivolti direttamente al centro accreditato, ma ad altri laboratori di analisi - nel caso di perdurante mancanza di regolamentazione di rango regionale)
sent. 299/03
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania
Sezione di Salerno
Sezione Prima
composto dai Magistrati:
Dr. Alessandro Fedullo - Presidente
Dr. Filippo Portoghese - Consigliere
Dr. Giovanni Grasso - Referendario rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 3134/1997, proposto dal Laboratorio di analisi cliniche Ultrabios di Tortora Antonio & C. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Florimonte, con il quale è elettivamente domiciliato in Salerno alla via S. Benedetto, n. 26
contro
l'Azienda sanitaria locale Salerno 2, in persona del legale rappresentante in carica pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Rosa Russo, unitamente al quale è ex lege domiciliata presso la Segreteria del Tribunale
e nei confronti
1) della Azienda sanitaria locale Salerno 1, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio
2) della Regione Campania, in persona del Presidente in carica pro tempore, non costituita in giudizio
per l’annullamento
del provvedimento del direttore generale della ASL SA 1 n. 2006 del 4 novembre 1997, una a tutti gli atti presupposti e consequenziali.
* * *
Visto il ricorso con gli atti e documenti allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 21 novembre 2002 il dott. Giovanni Grasso e uditi altresì, per le parti, gli avvocati difensori presenti come da processo verbale di udienza;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
Fatto
1.- Con ricorso notificato in data 5 dicembre 1997 e depositato il 6 dicembre successivo, il laboratorio di analisi Ultrabios s.a.s., come in atti rappresentato e difeso, già titolare di convenzione con il servizio sanitario nazionale per la branca di patologia clinica e R.I.A. ed in atto operante in regime di accreditamento provvisorio, esponeva: a) che, con provvedimento dell’ 8 agosto 1997, prot. n. 1580, il Direttore generale della Asl SA 1, già fatto oggetto di apposito gravame (R. G. n. 2335/1997), adottato all’esito di verifiche e controlli che avevano accertato il ricorso, asseritamente illegittimo, alla pratica del c.d. lab service, consistente nella effettuazione di analisi a pazienti di altre AASSLL mediante prelievo da parte di altri laboratori, aveva disposto la sospensione a tempo indeterminato del rapporto di accreditamento; b) che, con ordinanza n. 1645 del 22 ottobre 1997, resa dall’intestato giudicante, era stata disposta la sospensione del ridetto provvedimento; c) che, in dichiarata esecuzione del ridetto provvedimento cautelare, la resistente Amministrazione si era indotta alla integrazione della delibera n. 1580/97, fissando il periodo di sospensione del rapporto di convenzione in atto per il periodo compreso tra l’8 agosto 1997, data di adozione del precedente deliberato, ed il 31 dicembre 1997.
Avverso tale ultima determinazione, una agli atti presupposti e consequenziali, insorgeva, prospettando plurimi motivi di doglianza, sia in via diretta che derivata.
2.- Radicatosi il contraddittorio, alla pubblica udienza del 21 novembre 2002, sulle reiterate conclusioni delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.
Diritto
1.- È opportuno puntualizzare che l’oggetto del presente giudizio è rappresentato dal provvedimento adottato dal direttore generale della ASL Salerno 2 in data 4 novembre 1997, prot. n. 2006, con il quale si provvedeva ad “integrare” la precedente delibera n. 1580/97, con la quale era stata disposta in danno del centro ricorrente la sospensione sine die del rapporto di accreditamento provvisorio, nella (sola) parte relativa alla ritenuta necessità di una delimitazione temporale della irrogata sanzione (già sul punto stigmatizzata, ancorché in sede cautelare, dall’intestato giudicante).
Per tal via – nella preliminare prospettiva della delimitazione della portata del provvedimento gravato – non par dubbio che esso si atteggi, quanto alle parti non “integrate”, in termini propriamente confermativi della delibera n. 1580/97: né conta stabilire, in verità – una volta acclarato che parte ricorrente si sia preoccupata di impugnare separatamente e distintamente entrambi i provvedimenti, reiterando nella presente sede le censure già articolate nel primo contenzioso – se si debba parlare (limitatamente alle determinazioni non modificate) di mero effetto confermativo o di rinnovata determinazione volitiva. Nel primo caso, l’originario ricorso (rubricato al R.G. n. 2335/97) andrebbe deciso congiuntamente al presente, stanti le evidenti ragioni di connessione; nel secondo, esso sarebbe divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto superato dal successivo ed assorbente provvedimento.
Il Collegio opina che sia preferibile la seconda opzione ricostruttiva, in quanto il secondo provvedimento risulta adottato all’esito di una complessiva riapertura del procedimento, concretando, per tal via, una rideterminazione volitiva, in parte confermativa ed in parte integrativa della precedente, la quale ne risulta totalmente assorbita.
2.- Ciò posto, nell’ordine delle questioni proposte pare necessario esaminare per prima la censura di incompetenza, articolata da parte ricorrente sul presupposto che non spetti alla resistente azienda sanitaria (ma semmai alla Regione) l’adozione di misure, ancorché temporalmente limitate, di sospensione dell’accreditamento.
2.1.- La doglianza è fondata.
Vale premettere che, nell’attuale assetto normativo del sistema sanitario nazionale, quale delineato dal d. lgs n. 502/92 e dal successivo d. lgs. n. 229/99, risulta scolpita la centralità della Regione.
Del resto, l’art. 114 del d. lgs. n. 112/1998 – di attuazione del conferimento di cui alla l. n. 59/97 – assegna proprio alle Regioni, per trasferimento (salva la delega relativamente alla sola materia dei prodotti cosmetici) la generalità delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di “salute umana”, fatto salvo quanto espressamente e tassativamente riservato alla competenza statale.
A sua volta, l’art. 1 del citato d. lgs. n. 502/92 (quale risultante dalla modifica introdotta con la seconda riforma del 1999) coerentemente puntualizza che “la tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale, nell'ambito dei conferimenti previsti dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, nonché delle funzioni conservate allo Stato dal medesimo decreto".
In tale contesto ordinamentale, la Regione è attributaria della titolarità e responsabilità complessiva della gestione del servizio sanitario, spettandole anche l’”erogazione delle prestazioni” [cfr. art. 115, 2° comma lettera b) del d. lgs. n. 112/98], che essa esercita attraverso le unità sanitarie locali e le altre strutture erogative (cfr. art.8 bis d. lgs. n. 502 cit.).
A loro volta, le unità sanitarie locali rappresentano enti pubblici (sub)regionali ad istituzione necessaria, dei quali la regione si avvale (unitamente ai soggetti privati accreditati ex art. 8 quater d. lgs. cit.) per la gestione del servizio sanitario: ad essa spetta, altresì – per quanto di interesse nella presente controversia – un importante ruolo in relazione alla doverosa attività di “monitoraggio e controllo sulla definizione e sul rispetto degli accordi contrattuali da parte di tutti i soggetti interessati nonché sulla qualità della assistenza e sulla appropriatezza delle prestazioni rese" (art. 8 quinquies d. lgs. cit.), fermo restando, peraltro, che ogni determinazione inerente il regime di accreditamento – anche in ordine alla sua revoca o temporanea sospensione – non può che spettare al soggetto che ne è titolare, vale a dire la Regione.
Con più lungo discorso: se il rapporto di accreditamento si instaura – nei termini concessori in cui l’odierno assetto normativo lo prefigura, a dispetto delle originarie aperture per un diverso e concorrenziale sistema autorizzatorio, di fatto abbandonato – tra imprenditori privati e la Regione, quale intestataria del servizio sanitario, non è dubbio che – nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi – solo la Regione possa incidervi vuoi in senso ampliativi – mercé la sua estensione ad ulteriori branche e/o tipologie pretastazionali – sia in senso compressivo o addirittura ablatorio (laddove alla azienda sanitaria spettano incidenti poteri di controllo, come tali rilevanti, in prospettiva meramente istruttoria, quale presupposto per l’attivazione dei poteri regionali).
Le considerazioni che precedono sono avvalorate dall’art. 2, 6° comma del D.P.R. 14/01/1997, recante “approvazione dell'atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l'esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private" (e recepito dalla Regione Campania con propria delibera n. 6181/97), a tenore del quale spetta per l’appunto alla Regione la disciplina delle "modalità per la richiesta di accreditamento da parte delle strutture autorizzate, la concessione e l'eventuale revoca dello stesso, nonché la verifica triennale circa la permanenza dei requisiti ulteriori richiesti per l'accreditamento medesimo".
E vale altresì il richiamo a Corte Cost. n. 416/1995, la quale ha argomentato la piena legittimità costituzionale del sistema basato sull’accreditamento, proprio muovendo – tra l’altro – dal riscontro, nel sistema positivo, di “poteri di autotutela e di verifica regionale" in subiecta materia.
2.2.- Nel caso di specie, il direttore generale della azienda sanitaria ha deliberato, con provvedimento di immediata esecutività, di “sospendere, in via cautelare […] il rapporto fondato sul regime di accreditamento provvisorio” con il centro ricorrente, di “sospendere i pagamenti relativi alle prestazioni contestate”: mentre – sulla scorta delle esposte premesse – avrebbe potuto solo formulare, all’indirizzo dei competenti organi regionali – una motivata proposta di sospensione.
Per tal via, si potrebbe esser persino indotti a ritenere che, in realtà, il provvedimento impugnato si atteggi – per la sua effettiva portata e non per come l’Amministrazione ha mostrato di intenderlo – quale atto meramente endoprocedimentale, a tutt’oggi non recepito in una determinazione regionale, lesivamente conclusiva dell’iter procedimentale: di tal che se ne dovrebbe indurre l’inammissibilità del presente gravame per carenza di interesse ad agire connotato in termini di attualità.
Gli è, però – fuor di ogni suggestione – che il provvedimento impugnato è concretamente lesivo per il centro ricorrente, se non altro perché esso dispone effettivamente (e non già prefigura prospetticamente) la sospensione del rapporto di accreditamento, dichiaratamente implicando – del resto – la sospensione dei pagamenti relativi alle prestazioni contestate.
Ne discende, conclusivamente, che la azienda sanitaria ha esercitato un potere che non rientra nelle sue legali attribuzioni: donde l’illegittimità per incompetenza.
3.- Alla conclusione che precede – che formalmente si atteggia, invero, in termini assorbenti, pare opportuno aggiungere, per completezza di analisi ed in chiave conformativa, qualche considerazione in merito all’oggetto della controversia, inerente la legittimità del cosiddetto lab service, cioè a dire della pratica – severamente censurata dalla azienda sanitaria – consistente nella effettuazione di prestazioni su campioni biologici di pazienti che non si sono rivolti direttamente al centro accreditato, ma ad altri laboratori di analisi (nella specie, collocati nell’ambito territoriale di una diversa azienda sanitaria).
In dettaglio, la asl ritiene che tale pratica sia illegittima in quanto: a) contrastante con l’art. 12, ultimo comma del D.P.C.M. 10.02.1984, nella parte in cui prescrive che “il laboratorio privato non può accettare campioni provenienti da altri laboratori o da altri operatori sanitari, salvo i casi previsti dal comma terzo”, i quali ultimi si riferiscono alla ricorrenza di “motivi documentati di urgenza clinica ed impossibilità di movimento da parte dell'utente, sempreché non esistano possibili interferenze negative sui risultati, a causa del trasporto del materiale e della sua conservazione"; b) contraria al contenuto della circolare del Ministero della Sanità n. 100/SCPS/3.13476 del 7.8.92 avente ad oggetto “linee guida per l’applicazione del D.M. 7.11.91”, nella parte in cui – al punto 3.2.3. – vieta “la liquidazione dell’impegnativa a presidio diverso da quello cui l’assistito si è rivolto”; c) al più ammissibile – secondo le citate linee guida – “limitatamente all’erogazione di prestazioni di diagnostica di laboratorio ad elevata tecnologia e/o impegno professionale, rientranti nella rispettiva convenzione, di presidi specializzati e/o di riferimento convenzionati”.
3.1.- Sul punto, il Collegio non può esimersi dal rilevare che disposizioni richiamate non sembrano sufficienti al fine di fulminare di illegittimità la pratica in questione.
Il punto è particolarmente delicato (né ignora il Collegio che il Consiglio di Stato si è espresso nel senso che il divieto ex art. 12 D.P.C.M. 10.02.1984 per il laboratori privati di accettare campioni provenienti da altri laboratori o da altri operatori sanitari, salvo il prelievo domiciliare, sia perfettamente legittimo in quanto ispirato all'esigenza di una corretta organizzazione, funzionalità ed efficienza dei laboratori: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1° luglio 1991, n. 528): onde pare opportuno premettere, ai fini di una adeguata e corretta impostazione del problema, che tale pratica non può essere ritenuta in sé ed in quanto tale illegittima (tant’è che in taluni contesti regionali risulta positivamente prevista in termini assai ampi: cfr., per la regione Sicilia, il decreto assessorile 23 novembre 1996, art. 4, né, del resto, la normativa statale richiamata supra sembra da intendersi quale radicalmente preclusiva, ma al più limitativa), ma solo in quanto contrastante con previsioni normative di rango regionale.
Con più ampio discorso, sembra necessario affermare che spetti alle (singole) Regioni – quali titolari ed intestatarie del servizio sanitario, giusta le premesse esposte supra - la scelta (non condizionata se non ai consueti canoni di razionalità previsionale tipici delle disposizioni normative) dei modi e dei termini entro i quali consentire il trasporto dei prelievi organici per l’effettuazione degli esami.
Tale premessa sembra discendere necessariamente da quanto ritenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza del 19 maggio 1988, n. 560, con la quale era stata chiamata a giudicare del conflitto di attribuzione sollevato da alcune Regioni proprio in relazione all’atto di indirizzo e di coordinamento di cui al D.P.C.M. 10.02.1984 per cui è causa.
In particolare, secondo le Regioni ricorrenti, l'atto in parola avrebbe esorbitato dal potere di coordinamento (come all’epoca conferito con l'art. 25 della legge n. 833 del 1978), in quanto, anziché limitarsi a individuare mediante uno schema-tipo i requisiti strutturali minimi dei presidi di laboratorio, avrebbe regolato l'intera organizzazione dei presidi, vale a dire una materia più ampia e un oggetto diverso da quelli previsti dalla norma attributiva, per tal via invadendo la competenza regionale in tema di organizzazione dei servizi sanitari.
In tale occasione la Consulta – affermando importanti principi, su cui non mette conto evidentemente indugiare, in ordine alla portata del potere statale di indirizzo e coordinamento, con particolare riguardo al suo fondamento legale ed alla sua portata, nonché ai limiti entro i cui si può ammettere che esso sia in concreto esercitato mediante atti normativi di rango secondario – ebbe a statuire che fosse "evidentemente […] fuori dell'oggetto della legge e della delega la previsione dell'art. 12, che concerne la disciplina del prelievo e le sue modalità; tale disciplina attiene, infatti, alla metodologia delle prestazioni di analisi e quindi al funzionamento e non alle strutture", onde non spetta allo Stato (e rientrando nelle competenze regionali) “determinare, ai sensi dell'art. 12 del detto decreto, i procedimenti da seguire nelle operazioni di prelievo, di trasporto e di conservazione dei campioni e reperti biologici".
Non sembra che da tale conclusione l’indagine possa discostarsi (laddove non sembra se ne sia fatta carico Cons. Stato, n. 528/91, richiamata supra), di guisa che solo dalle previsioni in subiecta materia delle singole Regioni deve trarsi ogni conclusione in ordine alla legittimità del lab service, inteso quale modalità di effettuazione dei prelievi.
Per tal via, analogamente inconferente deve ritenersi il richiamo al D.M. del 7 novembre 1991 e delle linee guida ad esso collegate, che consentono, peraltro, un ricorso limitato al lab service: di nuovo perché occorre che la Regione disponga in tale materia, che attiene al funzionamento del servizio, piuttosto che al regime delle strutture.
Su tali premesse, non pare che in Regione Campania sussistano disposizioni di fonte regionale intese a disciplinare tale pratica, né in senso preclusivo, né in senso permissivo.
In tale contesto normativo – muovendo dal presupposto che l’eventuale divieto del lab service si atteggerebbe a norma limitativa dell’azione dei soggetti accreditati, onde dovrebbe, per potere operare, essere oggetto di espressa previsione - potrebbe già indursene una generica ammissibilità.
In realtà, concorre a corroborare la soluzione più liberale la circostanza che – all’esito della decisione assunta dal T.A.R. Lazio, 27 gennaio 1985, n. 1459, con la quale si dispose l’annullamento dell’art. 12 del D.P.C.M. del 1984 più volte richiamato – la Regione (con propria deliberazione giuntale n. 2377 del 26 maggio 1987, seguita da circolare n. 17078/1987) ebbe a formalizzare l’intendimento di adeguarsi in senso recettivo alle conclusioni olim espresse dal giudice amministrativo: la circostanza ha indubbio valore (almeno) indiziario, sul piano ricostruttivo, in quanto è l’unica (di fonte propriamente regionale) alla quale par lecito riferirsi per ricomporre, per quanto di interesse, l’operante sistema di limitazione ai prelievi.
Alle considerazioni che precedono vale aggiungere che – beninteso – non possono aver pregio le osservazioni della azienda sanitaria, in merito alla alterazione del sistema delle liquidazione e dei pagamenti, indotti dalla ritenuta legittimità del descritto meccanismo di prelievo: resta, infatti, fermo che – dovendo evidentemente la singola prestazione resa restare per una sola volta a carico del servizio sanitario nazionale (pena ben più gravi sanzioni operanti sul piano della responsabilità penale) – il problema si risolve sul piano, meramente organizzativo, della compensazione tra diverse aziende sanitarie operanti sul piano regionale (cfr., infatti, la circolare regionale n. 5152 del 4 giugno 1997).
Né conta il principio della libera scelta in capo agli assistiti: i quali, evidentemente, devono essere resi edotti – per regola operante prima di tutto sul piano civilistico della responsabilità contrattuale e, prima ancora, della deontologia professionale in subiecta materia – della circostanza che ad effettuare in concreto le analisi sui prelievi effettuati sia un centro diverso (peraltro parimenti accreditato con il servizio sanitario nazionale). Che ciò in concreto possa non accadere non implica l’inammissibilità del sistema, ma, al più, la responsabilità dei singoli: onde l’argomento si risolve, sul piano giuridico, in un mero adducere inconveniens.
Non par dubbio, in altri e conclusivi termini, che – come evidenziato dalla resistente azienda sanitaria locale – il sistema del lab service possa, in teoria, rivelarsi per più rispetti non opportuno, in quanto disfunzionale: ma è importante ripetere che, nella perdurante mancanza di regolamentazione di rango regionale (che opti per la sua radicale inammissibilità, per la sua generalizzata configurabilità ovvero, in tesi, per la sua limitazione a prestazioni di rango specialistico e di particolare difficoltà tecnica), ogni valutazione sul punto non concreta, in atto, sufficiente base legale per l’irrogazione delle censurate determinazioni sanzionatorie. Il che pare sufficiente ai fini dell’accoglimento del gravame.
4.- In ordine al regime delle spese processuali, la particolare complessità delle questioni trattate e le riscontrate incertezze interpretative inducono ad una integrale compensazione tra le parti costituite.
p.q.m.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione di Salerno, sezione I, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto dal laboratorio di analisi Ultrabios s.a.s., come in epigrafe individuato, accoglie e, per l’effetto, annulla i provvedimenti impugnati.
Compensa tra le parti spese e competenze di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Salerno nella Camera di Consiglio del 21 novembre 2002, con l’intervento dei Magistrati
Dr. Alessandro Fedullo Presidente
Dr. Giovanni Grasso Referendario Est.