14.01.2011 free
TAR Lombardia – (illegittimità delle linee guida regionali in materia di IVG) - DIRITTO DI SCELTA DELLA DONNA IN MATERIA DI ABORTO
§ - Annullate le linee guida della Regione Lombardia in materia di interruzione volontaria della gravidanza.
Il contrasto fra la disposizione statale e quella contenuta nelle linee guida regionali che individuano un termine oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma, contravvengono alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori, i quali devono poter effettuare le proprie valutazioni esclusivamente sulla base delle risultanze degli accertamenti svolti caso per caso e sulle base del livello delle acquisizioni scientifiche e sperimentali raggiunto nel momento in cui vengono formulate le valutazioni stesse. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]
TAR Lombardia – Sez. III; Sent. n. 7735 del 29.12.2010
omissis
FATTO e DIRITTO
I ricorrenti espongono di essere medici che svolgono tutti, come operatori sanitari presso strutture pubbliche lombarde, attività inerenti alle procedure di interruzione della gravidanza.
Con il presente ricorso vengono impugnati gli atti in epigrafe indicati, con i quali la Regione Lombardia ha inteso dettare linee guida per l’attuazione della legge 22 maggio 1978 n. 194, recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
In particolare, costituiscono oggetto di impugnazione la deliberazione n. VIII/6454 del 22 gennaio 2008, con la quale la Giunta Regionale ha preso atto delle linea guida predisposte dal Presidente della Regione con l’ausilio di alcuni professionisti del settore, e il decreto del D.G. Sanità 22 gennaio 2008 n. 327 che ha disposto l’approvazione delle medesime.
Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia per opporsi all’accoglimento del gravame.
La Sezione, con ordinanza n. 707 dell’8 maggio 2008, ha accolto la domanda di sospensione cautelare degli effetti dei provvedimenti impugnati.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito del ricorso, le parti hanno depositato memorie insistendo nelle proprie conclusioni.
Tenutasi la pubblica udienza in data 4 novembre 2010, la causa è stata trattenuta in decisione.
Ritiene il Collego che il ricorso sia fondato essendo meritevole di accoglimento, per i motivi che verranno di seguito esposti, il quinto mezzo di gravame avente carattere assorbente.
Con tale motivo i ricorrenti evidenziano come le linee guida regionali contengano prescrizioni – relative a materie riservate alla competenza legislativa dello Stato - contrarie al contenuto della legge n. 194/78.
La prima disposizione contenuta nelle linee guida su cui si focalizza l’attenzione dei ricorrenti riguarda la previsione secondo la quale l’interruzione di gravidanza di cui all’art. 6, lett. b), della citata legge n. 194/78 (disciplinante l’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni in caso di grave pericolo per la salute della donna) non possa essere effettuata oltre la ventiduesima settimana più tre giorni.
A parere dei ricorrenti, la Regione - con la fissazione di un termine finale oltre il quale non è più possibile far ricorso alle tecniche di interruzione volontaria - avrebbe individuato un nuovo requisito essenziale, non previsto dalla legge, per poter accedere al servizio; in tal modo essa avrebbe inciso sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni espletate nell’ambito del servizio stesso; determinazione che richiederebbe invece disciplina unitaria a livello statale. Ne conseguirebbe la violazione dell’art. 117, comma secondo, lett. m) della Costituzione che, come noto, riserva allo competenza legislativa dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili o sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Aggiungono i ricorrenti che, anche a voler ritenere che l’individuazione del suddetto termine non possa essere ricondotta all’ambito applicativo dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione, andrebbe comunque osservato che la legge n. 194/78, nel disciplinare l’interruzione volontaria della gravidanza, ha innanzitutto di mira la tutela della salute della donna. Ne conseguirebbe che tale disciplina ricadrebbe nell’ambito delle materie di legislazione concorrente di cui all’art. 117, comma terzo, della Costituzione (che fa riferimento, fra l’altro, proprio alla materia “tutela della salute”), per le quali è riservata allo Stato la potestà di dettare norme di principio, mentre resta riservata alle Regioni la sola produzione delle norme di dettaglio.
Anche sotto tale profilo vi sarebbe dunque violazione della norma costituzionale, posto che la fissazione ex novo di un termine massimo oltre il quale non è più possibile accedere alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza non può che essere espressione di un principio generale; principio sancito in un atto emanato dagli organi della Regione che si sarebbero in tal modo indebitamente arrogati l’esercizio di una potestà attribuita dalla Costituzione al legislatore statale.
Si evidenzia ancora che la legge statale – come detto unica fonte deputata a disciplinare la materia di cui è causa -.ha intenzionalmente evitato di fissare un termine rigido oltre il quale impedire l’interruzione volontaria della gravidanza, preferendo stabilire, all’art. 7, ultimo comma, che l’interruzione non può più farsi quando il feto ha possibilità di vita autonoma. Questa scelta si giustificherebbe, secondo i ricorrenti, in quanto si è ritenuto non opportuno cristallizzare in una disposizione normativa un elemento suscettibile di differente apprezzamento a seconda dei diversi casi sottoposti all’esame del medico ed a seconda del livello raggiunto dalla scienza e dalla tecnica in dato momento storico. Pertanto, la disposizione emanata dagli organi regionali, che fissa invece un termine rigido, oltre ad essere contraria a Costituzione, sarebbe altresì contraria alla lettera e alla ratio delle disposizioni recate dalla legge n. 194/78.
In estremo subordine – e cioè anche qualora si dovesse ritenere che la norma che fissa il suddetto termine sia da considerare non già come norma di principio, ma disposizione tecnica di dettaglio – i ricorrenti evidenziano che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 35 del 1997, ha affermato che la legge n. 194/78, nel definire le procedure per l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza, detta una disciplina a contenuto costituzionalmente vincolato. Ne conseguirebbe che nessuna fonte potrebbe apportare modifiche alle procedure ivi delineate, neppure per fissare un termine massimo che la legge Statale non prevede.
Sotto quest’ultimo profilo, vengono poi censurate altre disposizioni contenute nelle linee guida che introducono ulteriori modifiche alle procedure stabilite dalla legge n. 194/78.
Ci si riferisce in particolare: alle disposizioni che impongo al ginecologo di avvalersi di specialisti di altre branche della medicina per diagnosticare la sussistenza di gravi pericoli per la salute della donna ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6, lett. b), della legge n. 194/78, laddove la legge statale lascia al ginecologo la scelta se avvalersi o meno della consulenza di altri specialisti; alle disposizioni che prevedono che tali specialisti debbano fornire consulenza (ai fini di offrire elementi utili per assumere una decisione consapevole) non solo alla donna, come previsto nella legge n. 194/78, ma alla coppia; alle disposizioni che impongono che il certificato medico che diagnostica la sussistenza di gravi pericoli per la salute della donna sia redatto da almeno due ginecologi, e che sia altresì firmato dal dirigente della struttura complessa di ostetricia e ginecologia per presa visione, laddove la legge statale prevede la sottoscrizione del certificato da parte di un solo ginecologo; alle disposizioni che impongono - nei casi di interruzione della gravidanza ai sensi dell’art. 6, lett. b) della legge n. 194/78 – l’effettuazione di un riscontro diagnostico e/o una verifica del cariotipo fetale; alle disposizioni che impongono l’istituzione di un registro regionale dove la diagnosi prenatale è confrontata con l’accertamento eseguito sul feto abortito; alle disposizioni che, con riferimento al procedimento riguardante gestanti minorenni, prevedono l’istituzione di un particolare percorso di aiuto non previsto dalla legge statale; ed infine alle disposizioni che prevedono che le strutture sanitarie seguano con maggior attenzione la donna che si presenta con la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza, prendendo in carico non solo la richiedente ma anche la coppia e la famiglia (in tal modo, secondo i ricorrenti, si farebbe intendere che nella scelta di interruzione della gravidanza possano venir coinvolti anche altri soggetti, laddove la legge statale riserva alla sola donna ogni decisione).
In proposito il Collegio osserva quanto segue.
La legge 22 maggio 1978 n. 194, nel disciplinare l’interruzione volontaria della gravidanza, ha di mira la tutela ed il contemperamento di due valori aventi rilevanza costituzionale, e segnatamente la tutela della vita umana sin dal suo inizio (cfr. art. 1, ultimo comma), bene giuridico presidiato dall’art. 2 della Costituzione, e la tutela del diritto alla salute della gestante, a sua volta presidiato dall’art. 32 della Costituzione.
Il legislatore, nel dettare la disciplina contenuta nella suddetta legge, era vincolato, in maniera piuttosto stringente, da una pronuncia della Corte Costituzionale (di qualche anno antecedente alla legge medesima) avente ad oggetto l’art. 546 c.p. che puniva il delitto di procurato aborto (Corte Costituzionale, sent. 18 febbraio 1975 n. 27).
In quella sentenza la Corte dichiarò l’illegittimità della norma del codice penale nella parte cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse danno o pericolo grave per la salute della madre.
La decisione si basava sulla constatazione che l’art. 2 della Costituzione riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi la situazione giuridica del concepito; ma che tuttavia, in base all’art. 32 della Costituzione (il quale impone di dare assoluta prevalenza al bene salute di una persona già nata), le esigenze di tutela del concepito divengono recessive e possono essere sacrificate qualora queste collidano con la necessità di evitare un grave pericolo per la salute della madre.
Sulla base di queste considerazioni la Corte affermò che era obbligo del legislatore dettare una legge che contemperasse, in un giusto equilibrio, i valori sopra enunciati.
La legge n. 194/78 (d’ora innanzi anche “legge”) costruisce proprio il mezzo con quale il legislatore nazionale ha adempiuto all’obbligo imposto dalla Corte Costituzionale.
Il punto di equilibrio individuato dal legislatore si sostanzia, da un lato, nella definizione delle condizioni puntuali al ricorrere delle quali è ammesso il ricorso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza e, da altro lato, nella definizione della procedure idonee ad attestare l’effettiva sussistenza di quelle condizioni.
L’importanza e la delicatezza della soluzione legislativa sono state sottolineate da un’altra decisione della Corte Costituzionale che, nella sentenza 10 febbraio 1997 n. 35, ha affermato che le disposizioni contenute nella legge n. 194/78 debbono considerarsi disposizioni “a contenuto costituzionalmente vincolato”. Con tale espressione la Corte ha voluto sottolineare che la disciplina contenuta nella suddetta legge, proprio in quanto volta a dare tutela a due valori di rango costituzionale attraverso l’individuazione di un punto di equilibrio che scaturisce da una delicata operazione di contemperamento, è una disciplina che non può venire meno pena il sacrificio di quei valori; sacrificio che, ovviamente, la Costituzione non tollererebbe (per questa ragione è stato dichiarato non ammissibile un referendum avente ad oggetto alcuni articoli di quella legge).
Ritiene il Collegio che questo sia il punto essenziale della questione.
Invero, la suddetta disciplina, proprio perché frutto del contemperamento fra due interessi contrapposti, segna necessariamente il limite di tutela di quei due medesimi interessi, giacché in tal modo si stabilisce a quali condizioni, fino a che punto e secondo quali modalità un interesse può prevalere sull’altro. Emblematici sono ad esempio gli articoli 6 e 7, ultimo comma, della legge i quali individuano le condizioni alle quali è subordinato l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza dopo che siano trascorsi novanta giorni dall’inizio della gestazione: queste norme (che verranno analiticamente esaminate nel prosieguo), da un lato, segnano il limite di tutela del diritto alla salute della madre; da altro lato, specularmente, indicano quando invece prevale il diritto alla vita del nascituro.
Ma l’individuazione del limite di tutela di un diritto non è altro che l’individuazione del contenuto del diritto stesso; e, mutando ancora prospettiva, l’individuazione del contenuto del diritto non è altro che l’individuazione delle prestazioni da garantire affinché che quel diritto possa essere soddisfatto.
Tornando all’esempio degli articoli 6 e 7, si può dire che il legislatore con essi indica non solo quando uno dei due interessi sopraindicati debba prevalere sull’altro segnando il limite del contenuto dei diritti che tali interessi hanno a fondamento; ma indica altresì quali sono le condizioni al ricorrere delle quali le prestazioni del servizio sanitario debbono essere rese affinché i diritti rispettivamente di madre e nascituro possano essere tutelati (ad esempio, in caso di pericolo di vita della madre, l’accesso alle tecniche di interruzione della gravidanza deve essere comunque sempre assicurato).
Alla stessa stregua vanno considerate le norme di natura procedurale contenute nella legge che individuano le modalità di accertamento delle suindicate condizioni.
Invero la definizione del modo di accertamento delle condizioni di accesso al servizio serve a determinare il grado di attendibilità che l’accertamento stesso deve raggiungere affinché le sue risultanze possano essere poste a fondamento della decisione circa la scelta dell’interesse che deve prevalere sull’altro. Tale determinazione contribuisce quindi a definire più compiutamente le condizioni alle quali è subordinata la tutela dell’uno piuttosto che dell’altro interesse.
Lo stabilire ad esempio chi debba certificare il pericolo di vita per la madre, e quali procedure debbano essere seguite per addivenire a tale accertamento, implica anche la determinazione del grado di attendibilità che il suddetto accertamento deve raggiungere e quindi una più compiuta definizione delle condizioni alle quali è subordinato l’accesso alle tecniche di interruzione della gravidanza.
Si deve pertanto concludere affermando che le norme contenute nella legge n. 194/78 (sia quelle che dettano le condizioni per accedere al servizio sia quelle che definiscono le modalità procedurali per addivenire a tale accertamento) definiscono concretamente il contenuto dei diritti che fanno capo rispettivamente a madre e a nascituro, e quindi, per le ragioni sopra illustrate, incidono, in base ad altra prospettiva, sulla determinazione del contenuto delle prestazioni da garantire affinché quei diritti possano essere tutelati.
Per comprendere appieno questa affermazione occorre ora esaminare l’art. 117, secondo comma lett. m) della Costituzione; norma che offre il parametro per verificare se la competenza legislativa nella materia di cui è causa spetti allo Stato oppure alle regioni.
La citata norma, come noto, riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
La Corte Costituzionale ha chiarito che questa disposizione non individua una materia in senso stretto, ma definisce una competenza trasversale del legislatore statale che può investire anche materie riservate alla competenza delle regioni, per le quali tuttavia lo stesso legislatore statale deve poter dettare le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni essenziali garantite che sostanziano il contenuto minimo di tali diritti (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 26 giugno 2002 n. 282).
Ritiene il Collegio che una corretta lettura della disposizione e delle statuizioni contenute nelle sentenze della Corte Costituzionale porti a ritenere che per determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni non debba intendersi esclusivamente l’individuazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni stesse, come pure ha affermato la Corte (cfr. Corte Costituzionale 4 dicembre 2009 n. 322), ma debba anche (e prima ancora) intendersi l’individuazione delle condizioni cui è subordinato l’accesso a quelle prestazioni, giacché sarebbe del tutto illogico ritenere il contrario, e cioè che la norma costituzionale, pur avvertendo l’esigenza di assicurare prestazioni di contenuto minimo uniforme su tutto il territorio nazionale, lasci poi che ciascuna regione possa stabilire quando quelle prestazioni debbano essere assicurate ai cittadini.
Si deve quindi affermare che le disposizioni contenute nella legge n. 194/78, che individuano le condizioni per l’accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza e che disciplinano le procedure per l’accertamento di quelle condizioni, sono disposizioni riconducibili all’art. 117 lett. m) della Costituzione, e quindi riconducibili a materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
La conclusione risulta avvalorata dal rilievo che sarebbe del tutto illogico permettere che una materia tanto sensibile qual è quella afferente all’interruzione volontaria della gravidanza – che involge scelte di fondo riguardanti valori essenziali quali “vita” e “salute” - possa essere disciplinata differentemente sul territorio nazionale, lasciando che le regioni individuino, ciascuna per il proprio territorio, le condizioni per l’accesso alle tecniche abortive e, attraverso la definizione delle procedure, il grado di attendibilità degli accertamenti di quelle medesime condizioni.
Ciò detto occorre ora esaminare le disposizioni contente nella legge n. 194/78 e confrontarle con le disposizioni dettate dalle linea guida regionali, onde verificare se queste siano conformi o in contrasto con la disciplina recata dalla normativa statale, come visto, unica fonte deputata a disciplinare la materia.
Occorre dunque esaminare innanzitutto l’art. 6 della legge il quale, come anticipato, si riferisce ai casi di interruzione della gravidanza dopo che siano trascorsi novanta giorni dall’inizio della gestazione.
Stabilisce questa norma che “l'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
La disposizione prevede quindi due ipotesi: la prima riguarda il caso in cui la madre possa versare addirittura in pericolo di vita; la seconda il caso in cui ad essere minacciato è il bene salute.
Con specifico riferimento a questa seconda ipotesi, la giurisprudenza ha chiarito che, affinché l’aborto possa essere legittimamente praticato, è necessario che la gravidanza inneschi un processo patologico suscettibile di accertamento medico; e che la prosecuzione della gravidanza sia idonea a determinare l’aggravamento della patologia di modo che possa derivarne grave pericolo per la salute della gestante (cfr. Cassazione civile, sez. III, 1 dicembre 1998 n. 12195).
Si tratta dunque di una disciplina di particolare rigore giacché, a differenza di ciò che è previsto dall’art. 4 della legge per il caso di interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, non è sufficiente la sussistenza di un pericolo futuro, per quanto grave, per la salute della donna (con riferimento all’aborto entro i primi novanta giorni, parte della dottrina ritiene sufficiente il rischio di un perturbamento del benessere psichico), ma è altresì necessaria la sussistenza di una patologia già in atto al momento dell’accesso alle tecniche abortive.
L’art. 6 della legge prevede quindi due condizioni: la prima è la presenza di una situazione patologica già in atto durante la gestazione; la seconda è il rischio che tale situazione patologica possa tradursi, in caso di prosecuzione della gravidanza, in un grave pericolo per la salute psico-fisica della madre.
L’art. 7, ultimo comma, della legge prevede poi che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 ….”.
Quest’ultima disposizione detta quindi una condizione negativa, che va ad aggiungersi alle due condizioni positive sopra illustrate: se non vi è pericolo di vita per la madre, e non si ricade dunque nell’ipotesi di cui alla lett. a), l’interruzione della gravidanza può farsi solo se vi è impossibilità di vita autonoma del feto, e cioè se questo non ha raggiunto un grado di maturità tale da consentirgli, una volta estratto dal grembo materno, di completare il suo processo di formazione (cfr. Cassazione civile, sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13).
Come si vede la legge non ha fissato un termine preciso oltre il quale presumere che il feto sia in grado di condurre vita autonoma, ma consente che tale elemento venga accertato caso per caso dagli operatori.
Ritiene il Collegio che questa omissione non sia frutto di una svista, né che essa sia sintomo di incapacità del legislatore nazionale (che avrebbe, in tal modo, determinato una lacuna nella disciplina da colmare non appena possibile, magari grazie all’efficiente intervento delle regioni).
Al contrario si tratta di una scelta precisa, consapevole e ponderata.
Invero, come spesso l’esperienza insegna, in taluni casi non è opportuno imbrigliare in una disposizione legislativa parametri che possono variare a seconda delle condizioni che si presentano nelle innumerevoli, sempre diverse, fattispecie concrete e che, soprattutto, possono variare a seconda del livello raggiunto dalle acquisizioni scientifiche e sperimentali in dato momento storico. E’ proprio per questa ragione che si è preferito lasciare che l’accertamento circa la possibilità di vita autonoma del feto sia condotto caso per caso dal medico che segue la gestante.
Risulta pertanto chiaro il contrasto fra la disposizione statale e quella contenuta nelle linee guida regionali le quali, individuando un termine oltre il quale si deve presumere, salvo prova contraria, che il feto possa avere vita autonoma, contravvengono alla chiara decisione del legislatore nazionale di non interferire in un giudizio volutamente riservato agli operatori, i quali, come detto, debbono poter effettuare le proprie valutazioni esclusivamente sulla base delle risultanze degli accertamenti svolti caso per caso e sulle base del livello delle acquisizioni scientifiche e sperimentali raggiunto nel momento in cui vengono formulate le valutazioni stesse.
La disposizione in esame dettata dalle linea guida è quindi illegittima.
Ciò detto occorre ora passare all’esame delle procedure individuate dal legislatore nazionale per addivenire all’attestazione di sussistenza delle condizioni di accesso alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza.
In proposito va richiamato l’art. 7, comma 1, della legge il quale stabilisce che i processi patologici che configurino i casi che consentono l’accesso alle tecniche abortive “…vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza. Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente”.
Come si vede questa disposizione non impone al medico del servizio ostetrico-ginecologico di affidarsi alla consulenza di specialisti di altre branche della medicina, ma attribuisce al primo la facoltà di scelta se avvalersi o meno di tale ausilio al fine di certificare la sussistenza di una patologia che possa arrecare, in caso di mancata interruzione della gravidanza, grave pericolo per la salute della madre.
Il legislatore nazionale ha riposto quindi piena fiducia nella capacità di valutazione del medico del servizio ostetrico-ginecologico, anche con riferimento alla capacità di valutare i propri limiti conoscitivi, lasciando che sia tale specialista a dover decidere se avvalersi o meno dell’ausilio di altri medici.
Secondo il legislatore statale, dunque, la valutazione formulata dal suddetto medico (come visto anche con riferimento ai propri limiti conoscitivi) offre di per sé un grado di sufficiente attendibilità.
La Regione, nelle proprie linee guida, ha invece previsto che l’accertamento dei gravi motivi psichici (quando non siano determinati da gravi malformazioni del nascituro) debba avvenire con la consulenza dello psicologo/psichiatra; ed ha previsto altresì che nella consulenza da fornire alla donna, una volta che sia stato accertato il grave pericolo per la sua salute, il medico del servizio di ostetricia e ginecologia si debba avvalere dell’ausilio di altri specialisti .
Si tratta quindi una palese violazione della disposizione contenuta nella legge statale che determina l’illegittimità delle previsioni contenute nelle linee guida regionali.
Parimenti illegittime sono le previsioni delle linee guida che impongono la redazione congiunta da parte di due medici ginecologi (oltre alla firma per presa visione da parte del dirigente di struttura complessa di ostetricia e ginecologia) del certificato che attesta la sussistenza delle condizioni necessarie per poter accedere alle tecniche abortive giacché, come visto, la legge statale non richiede affatto tale redazione congiunta, ritenendo sufficiente l’apporto di un solo medico.
Ritiene il Collegio che l’illegittimità delle disposizioni suesposte determini l’illegittimità di tutta la disciplina impartita dalla Regione; disciplina avente carattere inscindibile ed unitario, per tale ragione non suscettibile di essere annullata solo parzialmente.
In accoglimento del quinto motivo, avente carattere assorbente, il ricorso deve essere pertanto accolto, mentre restano assorbiti gli altri motivi.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione terza, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il decreto D.G. Sanità 22 gennaio 2008 n. 327 e la deliberazione di Giunta Regionale n. VIII/006454 del 22 gennaio 2008.
Condanna la Regione a rifondere ai ricorrenti le spese di causa che vengono quantificate in euro 4.000,00 oltre IVA e c.p.a., fermo l’onere di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del decreto-legge n. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006, a carico della parte soccombente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 4 novembre 2010 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Stefano Celeste Cozzi, Referendario, Estensore
Dario Simeoli, Referendario
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/12/2010
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)