15.10.2010 free
Responsabilità del farmacista nella attività di consegna dei farmaci
Negli ultimi decenni il tema della responsabilità in campo sanitario è stato oggetto di una importante elaborazione soprattutto attraverso il contributo che la giurisprudenza ha fornito dinanzi alla accentuazione delle istanze di giustizia avanzate dagli utenti della sanità pubblica, privata e convenzionata.
Concentrando l’attenzione sulla responsabilità medica nei trattamenti diagnostico-terapeutici, la casistica si amplierebbe quasi a dismisura, ma le dinamiche in cui si esprime l’attività sanitaria sono molteplici ed investono figure professionali e momenti operativi diversi.
Nel 1938, con il Regio Decreto [R.D. 1706/1938] recante l’approvazione del regolamento per il servizio farmaceutico, si delineavano taluni principi cardine anche per il bilanciamento delle concorrenti ipotesi di responsabilità tra il medico prescrittore del medicinale e il farmacista richiesto per la consegna.
L’interesse per questo risalente provvedimento è di stretta attualità.
La Corte di Cassazione [sent. n. 15734/2010], lo scorso luglio, ha confermato la sussistenza di una responsabilità del titolare di una farmacia per aver consegnato ad un incaricato del cliente, anziché il farmaco prescritto, nel dosaggio indicato dal veterinario, altro medicinale con lo stesso principio attivo, ma destinato a curare animali di diversa e grossa taglia.
Ne conseguiva la morte di quattro cani di razza e di un cane meticcio trattati col prodotto.
La responsabilità del farmacista veniva qualificata come macroscopica perché, pure in presenza di una ricetta contenente la denominazione del farmaco, avrebbe consigliato l’acquisto di un altro prodotto con diversa concentrazione di principio attivo e senza nessuna avvertenza chiara e precisa circa le modalità di utilizzazione e somministrazione.
Benché il sanitario contestasse un reale difetto di informazione in ordine alle modalità di impiego del medicinale, i giudici della terza sezione civile della Corte di cassazione, leggendo la vicenda attraverso il dettato legislativo, hanno affermato che la responsabilità può essere esclusa laddove ci si attenga alle prescrizioni mediche contenute nella ricetta, cioè nel documento compilato dal professionista abilitato, contenente tutte le informazioni necessarie per la dispensa del medicinale.
Il farmacista, continuava la Suprema Corte, non ha il compito di verificare se la posologia del farmaco prescritto sia effettivamente corrispondente alle necessità terapeutiche della cura occorrente, in quanto egli, non abilitato all'esercizio della professione medica, non è tenuto né autorizzato a sindacare il trattamento terapeutico o farmacologico né a controllare l'eventuale dissonanza tra la cura occorrente e le indicazioni della ricetta, a questa avendo l'obbligo di attenersi scrupolosamente.
L’art. 40 del regolamento per il servizio farmaceutico emanato nel 1938 - nel caso in cui il farmacista individui nella ricetta la prescrizione di sostanze velenose, a dosi non medicamentose o pericolose - impone l'obbligo di esigere che il compilatore della ricetta dichiari per iscritto, previa indicazione dello scopo terapeutico perseguito, che la somministrazione avviene sotto la sua responsabilità.
Di conseguenza, la consegna di medicinali senza ricetta, quando questa è prescritta, comportando anche la responsabilità disciplinare con le conseguenti sanzioni amministrative, costituisce comportamento attuato in violazione di una specifica disciplina normativa e tale da concretare condotta illecita, sanzionabile sul piano risarcitorio in ordine agli eventi di danno che eventualmente venga a determinare.
Consegue che il farmacista non potrà invocare a sua giustificazione:
- la consapevole accettazione da parte del cliente del farmaco prescritto;
- l’avere indicato le modalità di uso o di somministrazione del medicinale;
- l’essersi affidato al fatto che del prodotto il cliente avrebbe saputo fare un uso conforme alle istruzioni contenute nella confezione.
Avv. Rodolfo Pacifico – www.dirittosanitario.net
Cassazione Civile - Sezione III, Sent. n. 15734 del 02.07.2010
omissis
Svolgimento del processo
Con la sentenza quivi denunciata la Corte d'appello di Roma ha confermato, rigettando il gravame degli eredi del farmacista B.G., la decisione di primo grado del tribunale della stessa città, che aveva ritenuto la responsabilità del titolare della farmacia professionista per avere lo stesso - consegnando ad un incaricato del cliente B.M., piuttosto che il prodotto medicinale prescritto nel dosaggio indicato dal veterinario, altro medicinale con lo stesso principio attivo, ma destinato a curare animali di diversa e grossa taglia - cagionato in tal modo la morte di quattro cani di razza e di un cane meticcio, ai quali il prodotto medicinale veniva fatto somministrare su incarico dell'allevatore B.M., senza che costui nè il suo incaricato neppure fossero stati informati del fatto che quello consegnatogli non dovesse essere usato per animali di taglia minore, quali cani e gatti.
Per la ritenuta suddetta responsabilità professionale il tribunale, premesso che l'evento dannoso si era verificato per la colpa concorrente in eguale misura dell'attore e del convenuto, aveva condannato il titolare della farmacia a risarcire a B.M. i danni a lui cagionati nella misura, così stimata sulla scorta della disposta consulenza tecnica, di L. 99.500.000, oltre rivalutazione, interessi e spese del giudizio.
Ai fini che ancora interessano, il giudice di secondo grado considerava che era da ritenere "macroscopica" la responsabilità del soggetto che all'interno della farmacia, pur in presenza di ricetta ove si precisava la denominazione del prodotto destinato a cani e gatti, consigliava l'acquisto di altro prodotto con diversa concentrazione del principio attivo e senza nessuna avvertenza, in termini chiari e precisi, circa le modalità di utilizzazione e somministrazione del prodotto.
Quanto alla entità del danno risarcibile la Corte dell'Urbe dichiarava di condividere la valutazione effettuata dal consulente tecnico, fondata su argomentazioni immuni da vizi logici e su criteri congrui, che avevano tenuto conto del valore di mercato degli animali, dei costi inerenti al vitto ed alle spese mediche, del mancato guadagno per le gravidanze e la vendita dei cuccioli quanto alle cagne ed alle monte quanto ai maschi, sicché le censure sul punto degli appellanti (nel giudizio di appello erano intervenuti gli eredi del defunto appellante B.G.) erano da ritenere del tutto generiche.
Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso B. L., B.A. e C.M.P., nella loro qualità di eredi di B.G., che hanno affidato l'impugnazione a due mezzi di doglianza.
Non ha svolto difese in questa sede l'intimato B.M..
Motivi della decisione
Con il primo motivo d'impugnazione - deducendo la violazione di norma di diritto e la contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e 5) circa la responsabilità del farmacista - i ricorrenti criticano la sentenza impugnata perché il giudice del merito avrebbe dovuto considerare che B.M., acquirente del farmaco, era a conoscenza non soltanto che il prodotto medicinale era il medesimo che il veterinario aveva prescritto in ricetta, ma che si trattava anche di una confezione concentrata , che andava diluita e che per tale motivo essa era anche economicamente più conveniente.
Assumono che la sentenza avrebbe affermato cosa non vera nel ritenere che l'acquirente non fosse stato avvertito in termini chiari e precisi circa le modalità di utilizzo e somministrazione del farmaco. Aggiungono che B.M., cui il prodotto diverso da quello prescritto era stato solo consigliato, già lo conosceva per averlo visto usare dal suo veterinario. Indicano, inoltre, che nella confezione consegnata erano anche contenute le istruzioni per l'uso.
Il motivo non può essere accolto.
La responsabilità del farmacista deve essere esclusa quando lo stesso si attiene alle prescrizioni mediche contenute nella ricetta, che è il documento, compilato dal professionista abilitato, contenente tutte le informazioni necessarie per la dispensa del medicinale.
Il farmacista, invero, non ha il compito di verificare se la posologia del farmaco prescritto sia effettivamente corrispondente alle necessità terapeutiche della cura occorrente, in quanto egli, non abilitato all'esercizio della professione medica, non è tenuto né autorizzato a sindacare il trattamento terapeutico o farmacologico né a controllare l'eventuale dissonanza tra la cura occorrente e le indicazioni della ricetta, a questa avendo l'obbligo di attenersi scrupolosamente.
La legge, piuttosto, impone al farmacista (art. 40 del regolamento per il servizio farmaceutico n. 1706 del 1938) l'obbligo, nell'ipotesi in cui egli abbia ad individuare nella ricetta la prescrizione di sostanze velenose, a dosi non medicamentose o pericolose, di esigere che il sanitario compilatore della ricetta dichiari per iscritto, previa indicazione dello scopo terapeutico perseguito, che la somministrazione avviene sotto la sua responsabilità.
Di conseguenza, la consegna di medicinali senza la ricetta, quando questa è prescritta, comportando anche a carico del farmacista la responsabilità disciplinare con le conseguenti sanzioni amministrative, costituisce certamente comportamento attuato in violazione di specifica disciplina normativa e tale da concretare condotta illecita, sanzionabile civilisticamente ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., in relazione agli eventi di danno, che eventualmente abbia a produrre.
Né, al riguardo, può il farmacista invocare quali scriminanti la consapevole accettazione da parte del cliente del farmaco non prescritto, l'avere egli indicato le modalità di uso o di somministrazione del medicinale ovvero l'essersi affidato al fatto che del prodotto il cliente avrebbe saputo fare un uso conforme alle istruzioni alle istruzioni contenute nella confezione.
Nel caso di specie, pertanto, non merita censura l'affermazione della sussistente colpa specifica del farmacista in violazione di precise norme, onde non occorre anche aggiungere come la Corte territoriale ha escluso, altresì, che B.M. fosse stata istruito circa l'uso del medicinale non prescritto, circostanza questa che i ricorrenti vorrebbero escludere invocando in questa sede un inammissibile apprezzamento delle fonti di prova diverso da quello, congruo e non illogico, cui pervenuto il giudice.
Con il secondo mezzo di doglianza i ricorrenti contestano la decisione del giudice di merito in ordine alla determinazione della entità del danno risarcibile quale effettuato dal consulente tecnico d'ufficio secondo i criteri che il giudice del merito ha pienamente condiviso.
La censura, che peraltro non riproduce le parti della consulenza pretesamene errate e che denuncia un preteso vizio di motivazione, non è fondata, perché il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione.
Situazioni, quelle di cui innanzi, nella specie non ravvisabili, posto che la sentenza della Corte di merito esaustivamente indica i criteri di stima, anche presuntivi, cui si è attenuta per la quantificazione del pregiudizio patrimoniale subito dall'allevatore sotto il profilo sia del danno emergente che del lucro cessante.
Il ricorso, quindi, è rigettato senza altra pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio di Cassazione, nel quale B.M. non ha svolto difese.
P.Q.M.