18.12.2008 free
Caso Englaro: effetti dell’atto ministeriale sulla esecuzione del provvedimento giudiziario. [avv. E. Grassini - avv. R. Pacifico]
Caso Englaro: effetti dell’atto ministeriale sulla esecuzione del provvedimento giudiziario.
Che la vicenda di Eluana Englaro avrebbe continuato a dividere le opinioni e le coscienze era già certo allorquando abbiamo appreso le motivazioni con cui la Corte di Cassazione, nell’ottobre scorso, dichiarava inammissibile il ricorso promosso dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano avverso il decreto con cui quest’ultima aveva accolto l'istanza volta ad ottenere l'autorizzazione all'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione con sondino nasogastrico.
È anche certo che, indipendentemente dagli esiti giudiziari, la vicenda sia di indiscutibile delicatezza e complessità.
La novità introdotta dall’improvviso atto di indirizzo generale del Ministro della Salute ed del Lavoro, appare ancorata alle previsioni contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 2006, firmata dall’Italia il 30 marzo 2007 e in fase di ratifica sulla scorta del disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 30 novembre.
In particolare il riferimento sensibile è all’art. 25 intitolato <<Salute>>, nella parte in cui si afferma che gli Stati Parti riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità.
Il provvedimento ministeriale impedirebbe la realizzazione del processo interruttivo del trattamento di sostegno vitale della paziente non per avere introdotto un principio giuridico che non è idoneo ad introdurre, trattandosi di atto meramente amministrativo e non legislativo, ma nella misura in cui impone agli organi della Pubblica Amministrazione, cui è destinato, una regola di comportamento alla quale è complesso sottrarsi se non entro limiti rigorosi.
La Convenzione non risulta ancora ratificata dal nostro paese e la individuazione dell’articolo 25 quale base di sostegno per la costruzione dell’Atto di indirizzo nella parte che qui interessa, è frutto di interpretazione di un principio di ampia portata.
Il provvedimento della Corte d’Appello di Milano, non intaccato minimamente dalla sentenza della Cassazione che, è giusto chiarire, non è entrata nel “merito”, avendo pronunciato esclusivamente la inammissibilità della impugnazione, resta il linea di principio eseguibile anche alla luce dell’atto ministeriale, nel rispetto di quegli accorgimenti che i giudici di milanesi hanno ritenuto di dover sottolineare a titolo di disposizione <<pratica e cautelativa>> affermando, tra l’altro, che il processo di interruzione dei trattamenti dovesse avvenire in hospice o altro luogo di ricovero confacente.
In ultima analisi, considerando la portata di tale ultimo assunto e l’impatto che il provvedimento ministeriale avrà sulle Regioni destinatarie, strutture fondamentali del Servizio Sanitario Nazionale, può ipotizzarsi che il percorso diretto alla realizzazione del diritto come affermato in sede giudiziaria, sarà caratterizzato da ulteriori profili di criticità.
Avv. Ennio Grassini
Avv. Rodolfo Pacifico
Corte d’Appello di Milano - Sezione I, Dec. del 09.07.2008
omissis
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Cenni sugli antecedenti di fatto e processuali e sul contenuto della sentenza di cassazione con rinvio da cui ha tratto causa l'attuale fase decisoria.
Il 18 gennaio 1992 si verificò un incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato ad E. E., che vi era rimasta coinvolta, e che era allora appena ventunenne (essendo nata il 25 novembre 1970), un gravissimo trauma cranio - encefalico con lesione di alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò prima una condizione di coma profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente Stato Vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni funzione percettiva e cognitiva e della capacità di avere contatti con l'ambiente esterno.
Dopo circa quattro anni dall'incidente, E. E. - essendo stata accertata la mancanza di qualunque modificazione del suo stato - fu dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del Tribunale di Lecco in data 19 dicembre 1996. Fu nominato tutore il padre, B. E..
Dopo altri tre anni circa prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre principali procedimenti consecutivi, nei quali il tutore, deducendo l'impossibilità per E. di riprendere coscienza, nonché l'inguaribilità/irreversibilità della sua patologia e l'inconciliabilità di tale stato e del trattamento di sostegno forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere (alimentazione/idratazione con sondino naso - gastrico) con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale, e più in generale con la sua personalità, ha ripetutamente chiesto, nell'interesse e in vece della rappresentata, l'emanazione di un provvedimento che disponesse l'interruzione della terapia di sostegno vitale.
Nel primo procedimento, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio 1999, l'istanza del tutore fu dichiarata inammissibile dal Tribunale di Lecco (perché ritenuta incompatibile con l'art. 2 della Costituzione, letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta e inderogabile del diritto alla vita) con decreto depositato il 2 marzo 1999, poi confermato in sede di reclamo dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" della Corte d'Appello di Milano con decreto del 31 dicembre 1999 (da questo Giudice reputandosi invece sussistente una situazione d'incertezza normativa tale da non consentire l'adozione di una precisa decisione in merito all'istanza d'interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata).
Nel secondo procedimento, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima istanza fu disattesa dal Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 (con cui si ribadiva il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche innanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato), ancora una volta poi confermato dalla predetta Sezione della Corte d'Appello di Milano, in sede di reclamo, con decreto del 17 ottobre 2003 (ivi reputandosi comunque inopportuna un'interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della persona umana in caso di "paziente in SVP").
Quest'ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per cassazione (ex art. 111 Costituzione), dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte con ordinanza n. 8291 del 20 aprile 2005 per difetto di partecipazione al procedimento di un contraddittore ritenuto necessario, e da individuarsi nella persona di un curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c..
Nel terzo procedimento, avviato, a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data 30 settembre 2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti nominato nella persona dell'avv. F. A. (da indicare dunque, più esattamente, come "curatrice" speciale), la quale prestò adesione all'istanza del tutore.
Tale istanza fu non dimeno dichiarata ancora inammissibile dall'adito Tribunale con decreto depositato il 2 febbraio 2006 (questa volta reputandosi che il tutore non fosse legittimato, neppure con l'assenso della curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o nell'interesse dell'incapace in materia di diritti e "atti personalissimi").
Il decreto fu però riformato dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" della Corte d'Appello di Milano, in sede di reclamo, con provvedimento in data 15 novembre/16 dicembre 2006.
In tal caso, infatti, la Corte, andando di contrario avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell'incapace ex artt. 357 e 424 c.c..
Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l'istanza del tutore, la Corte la giudicò insuscettibile di accoglimento, sul rilievo secondo cui l'attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle idee espresse da E. all'epoca in cui era ancora pienamente cosciente un'efficacia tale da renderle idonee anche nell'attualità a valere come "volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Proposto dal Sig. B. E. ricorso per cassazione (notificato il 6 marzo 2007) anche avverso tale decisione, peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con un ricorso incidentale sostanzialmente adesivo a quello principale, la Suprema Corte si è infine pronunciata con sentenza n. 21748 in data 16 ottobre 2007 disponendo la cassazione dell'impugnato provvedimento e il rinvio della "causa" per una nuova decisione, relativamente alle parti cassate (secondo la disciplina di cui agli artt. 384, 392 e 394 c.p.c.), ad altra Sezione della medesima Corte d'Appello di Milano.
La Suprema Corte, in particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice speciale di E. E., nei limiti meglio specificati in motivazione, reputando, in estrema sintesi, che:
- in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in particolare gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica;
- pertanto è la prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario;
- il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza, al posto dell'incapace à ~ autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l'interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il rappresentato;
- tuttavia questo potere - dovere che fa capo al rappresentante legale dell'incapace non è incondizionato, ma soffre di limiti ("connaturati" al fatto che la salute è un diritto "personalissimo" di chiunque, anche dell'incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto - malato, anche se incapace;
- un primo limite, coessenziale alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella necessità che tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella concretezza del caso, al rispetto del migliore interesse ('best interest') del rappresentato;
- due ulteriori ed indefettibili condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto, cui deve conformarsi il Giudice di rinvio:
"Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle suo precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, in dipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa";
- alla luce del suddetto principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d'Appello di Milano nella pregressa fase del procedimento, non si sottrae alle censure articolate dal tutore e dal curatore speciale di E. E., poiché, pur risultando "pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova E. E., la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico - encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento", la Corte di merito ha comunque omesso di indagare adeguatamente sulla sussistenza dell'altra imprescindibile condizione idonea a legittimare la scelta del rappresentante intesa al rifiuto dell'alimentazione artificiale, ossia non ha ricostruito la "presunta volontà" di E. dando rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, o più in generale alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti; accertamento che dovrà quindi essere effettuato dal Giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall'istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale).
A seguito di tale pronuncia, il pregresso procedimento di reclamo è stato riassunto dal tutore, originario reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato - secondo predeterminato criterio tabellare previsto per il caso di cassazione di provvedimenti emessi dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" - a questa Prima Sezione Civile.
Nel procedimento si è costituita con propria memoria la curatrice speciale, non opponendosi, ma aderendo nuovamente all'istanza del tutore.
Ha formulato le sue conclusioni anche l'Ufficio del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale designato, chiedendo il rigetto del reclamo o, in subordine, un supplemento istruttorio.
Sentite le parti all'odierna udienza, e disposta ed esperita in tale frangente un'integrazione probatoria con l'audizione del Sig. B. E., che ha riferito profusamente in relazione alle concezioni di vita che aveva avuto modo di esprimere E. prima di cadere in stato di permanente incapacità, e più in generale sulla sua personalità, questa Corte ha assunto la riserva di decidere che provvede ora a sciogliere.
2. Delimitazione dell'accertamento demandato al Giudice di rinvio. L'intervenuto giudicato interno sul carattere "irreversibile" dello Stato Vegetativo: esclusione della possibilità di svolgere un nuovo accertamento su tale aspetto.
In concreto, dev'essere ancora verificata da questo Collegio giudicante solo la seconda delle due condizioni che - secondo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte - possono legittimare la scelta del tutore orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale; ossia quella riguardante la corrispondenza di tale scelta alla "volontà presunta" di E., e non invece la prima, concernente il carattere irreversibile del suo Stato Vegetativo.
Su tale aspetto, infatti, risulta già espresso nella precorsa fase di reclamo un giudizio accertativo che, essendo ormai coperto da giudicato interno o comunque da un'equivalente preclusione endoprocessuale, ha assunto in questo procedimento efficacia definitiva.
La gravità, importanza e delicatezza della decisione da assumere impone però di dar conto di tale conclusione - come pure delle altre di cui si darà giustificazione successivamente - con una motivazione non sintetica, ma analiticamente estesa ad ogni punto che presenti rilevanza ai fini del decidere.
Si rileva dunque che, in ragione degli accertamenti di diagnostica strumentale e clinica effettuati su E. E. sin dal primo ricovero che fece seguito all'incidente stradale del gennaio 1992, e poi dei successivi controlli periodicamente posti in essere, il fatto che lei si trovasse in uno Stato Vegetativo Permanente, e come tale "irreversibile", è sempre stato considerato comprovato e "pacifico" nelle diverse fasi processuali pregresse.
È stato evidentemente ritenuto di preminente rilievo, in primo luogo, il fatto che, ai fini della dichiarazione di interdizione, fosse stato svolto già nel 1996 un accertamento molto accurato, di carattere diagnostico e prognostico, sulle condizioni di E., sfociato nella certificata persistenza della sua condizione vegetativa.
Ma rilievo conclusivo è stato poi certamente dato alla circostanza che, nel successivo sviluppo delle fasi processuali attivate dal tutore, è stata acquisita ulteriore ed aggiornata documentazione finalizzata a dimostrare sia sul piano clinico la sussistenza e l'irreversibilità di tale stato, sia a dar conto dei parametri che, sul piano dei più accreditati studi medici di carattere internazionale in questa materia, potevano giustificare scientificamente tale diagnosi - prognosi.
Quanto a quest'ultimo tipo di documentazione, in particolare, risulta essere stata prodotta in causa dal tutore - proprio a giustificazione della reiterata presentazione dell'istanza finalizzata all'interruzione del trattamento di sostegno vitale dopo i primi provvedimenti reiettivi - copia della Relazione tecnica, di riconosciuto valore scientifico, redatta da un Gruppo di lavoro interdisciplinare formato da esperti, in relazione agli obiettivi conoscitivi di cui ai Decreti del Ministero della Sanità 20.10.2000 prot. SSD/I/4.223.1 e 4 maggio 2001.
L'importanza di tale studio è risultata in effetti talmente significativa che la stessa elaborazione della sentenza n. 21748/2007 della S. Corte di Cassazione sembra confermare anche letteralmente alcuni suggerimenti e conclusioni in essa contenuti (come ad esempio in riferimento alla necessità, che rileva giustappunto sotto il profilo qui in esame, di valutare la sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente proprio "sulla base" - come si esprime la Relazione prima, e la Suprema Corte poi - "di un'osservazione prolungata, per il tempo necessario secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale").
Nella Relazione risulta svolta un'ampia disamina delle differenze tra Stato Vegetativo Permanente ed altre contigue e talora controverse patologie (stati comatosi, sindrome di deafferentazione, mutismo acinetico, morte del tronco encefalico, morte dell'encefalo).
Quanto, in particolare, allo Stato Vegetativo Persistente e Permanente, la Relazione precisa che in esso:
"Il paziente ventila, gli occhi possono restare aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all'ambiente, e le uniche risposte motorie riflesse consistono in una ridistribuzione del tono muscolare. Consegue alla totale distruzione della corteccia o delle connessioni cortico - diencefaliche, mentre il tronco encefalico sopravvive e resta funzionante. I principali referti neuropatologici sono necrosi laminare della corteccia cerebrale, il danno diffuso delle vie sottocorticali o la necrosi bilaterale del talamo, ove originano le proiezioni reticolari per la corteccia. L'essenza dello Stato vegetativo, come descritto da Jennett e Plum (avvertenza dell'estensore: nel testo della Relazione risulta una nota con citazioni a pie" di pagina) è "la mancanza di ogni risposta adattativa all'ambiente esterno, l'assenza di ogni segno di una mente che riceve e proietta informazioni, in un paziente che mostra prolungati periodi di veglia" Questi pazienti sono in grado di respirare spontaneamente, e le foro funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali sono conservate (di solito non le funzioni sfinteriche, e i pazienti sono incontinenti). A volte sembrano dormire, con gli occhi chiusi, altre volte sembrano svegli, con gli occhi aperti. Gli stimoli sensoriali intensi possono provocare accelerazione del respiro, apertura degli occhi, smorfie mimiche o movimenti degli arti. Talora sono presenti, senza alcuno stimolo, movimenti spontanei automatici (masticazione, deglutizione ma anche sorrisi o smorfie di pianto). L'EEG può mostrare una residua attività elettrica corticale. Escludono lo stato vegetativo la presenza di segni anche minimi di percezione cosciente o di motilità volontaria, come una risposta riproducibile e un comando verbale o gestuale, anche limitata al semplice battito degli occhi. I concetti di persistenza e di permanenza vanno distinti. Mentre l'aggettivo persistente si riferisce solo a una condizione di passata e perdurante disabilità con un incerto futuro, l'aggettivo permanente implica l'irreversibilità. Può dirsi quindi che quella di Stato vegetativo persistente sia una diagnosi, mentre quella di Stato Vegetativo Permanente sia una Prognosi. Tale distinzione, elaborata dalla MultiSociety Task Force on PVS nel lavoro pubbIicato sul New England Journal of Medicine, vol. 330, n. 21 e 22, è condivisa da questo gruppo di lavoro, che considera quell'elaborato la migliore sintesi scientifica e clinica oggi disponibile (avvertenza dell'estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a pie" di pagina). La Task Force ha raggiunto un accordo su alcuni punti. Uno di essi è che prima di dichiarare permanente, cioè irreversibile, lo stato vegetativo di origine traumatica di un soggetto adulto è necessario attendere almeno dodici mesi (avvertenza dell'estensore: nel testo risulta una nota con citazioni a pie" di pagina, ove in particolare si precisa che "è sufficiente un lasso di tre mesi per gli adulti e i bambini che siano in Stato Vegetativo Persistente a seguito di danni di origine non traumatica"). Trascorso tale lasso di tempo, la probabilità di una ripresa di funzioni superiori è insignificante (...). Lo Stato Vegetativo Permanente indica una situazione sia clinica sia giuridica del tutto diversa da quella che, secondo la legislazione attuale italiana (e di tutti gli altri paesi), può portare alla certificazione di morte cerebrale. È fuori discussione, dunque, che gli individui in SVP non rispondono ai criteri per l'accertamento della morte cerebrale. Resta il fatto, però, che per essi non sarà mai più possibile un'attività psichica e che in essi è andata perduta definitivamente la funzione che più di ogni altra identifica l'essenza umana. Essi sono esseri puramente vegetativi (...)" (N.B.: - le enfasi grafiche sono state aggiunte qui ed ora).
Come dunque emerge dai riportati passaggi della Relazione del citato Gruppo di studio (costituente organo tecnico di primario livello, la cui opinione in ordine alla stato della scienza medica in materia di Stato Vegetativo Permanente poteva essere evidentemente quanto meno equiparata a quella di un C.T.U. esperto nella materia), deve considerarsi "Permanente", ossia Irreversibile" (giacché i due aggettivi sono da accepire come equivalenti), in caso di adulti (come appunto è, e già era, E. al momento della perdita di coscienza), lo Stato Vegetativo - nei termini specificamente enunciati in premessa sempre dalla Relazione - di origine traumatica protrattosi oltre i dodici mesi, periodo di durata che, evidentemente, ha valore non assoluto, ma statistico.
La Relazione si preoccupa dunque di fornire sia gli elementi per definire sul piano clinico - diagnostico lo Stato Vegetativo, sia gli elementi per connotarlo, ai fini della formulazione di un giudizio prognostico, nella sua evoluzione temporale/funzionale, trascorrendo da Stato Persistente a Stato Permanente/Irreversibile.
Sul primo aspetto, la Relazione prende atto degli studi che, in ambito internazionale, sono pervenuti a definire gli standards per la definizione di SVP, avvalendosi in particolare dei dati elaborati dalla MultiSociety Task Force on PVS nel lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine, vol. 330, n. 21 e 22, considerato "la migliore sintesi scientifica e clinica oggi disponibile".
Quando dunque il medesimo Gruppo di studio, nel concludere la sua Relazione, fa un richiamo alla necessità che l'accertamento in ordine alla sussistenza dello Stato Vegetativo Permanente venga poi effettuato dai medici, nei diversi casi concreti, "sulla base di un'osservazione prolungata, per il tempo necessario secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale", in realtà sembra riferirsi a null'altro che a quegli standards di cui esso stesso ha dato atto al fine di illustrare, sotto il profilo diagnostico, i caratteri definitori dello Stato Vegetativo (sussistenza di lesioni della corteccia o delle connessioni cortico - diencefaliche determinanti sul piano funzionale la conseguente mancanza di ogni risposta adattativa all'ambiente esterno e l'assenza di ogni segno di una mente che riceva e proietti informazioni), e, sotto il profilo prognostico, il tempo di durata senza variazioni di tale condizione, e quindi, in modo concomitante, il necessario "tempo di osservazione" della stessa, per poterla definire "Permanente" (ossia "Irreversibile"), tempo di durata pari ad almeno dodici mesi in caso di SVP da etiologia traumatica relativa ad un adulto.
In presenza della diagnosi di tale condizione, precisa la Relazione, e trascorso il lasso di tempo - limite, la prognosi è definitivamente infausta quanto ad un possibile recupero delle funzioni percettive e cognitive, poiché "la probabilità di una ripresa di funzioni superiori è insignificante" e "non sarà mai più possibile un'attività psichica" (conclusione, questa, peraltro avallata anche da altri studi autorevoli; si deve poi precisare che, nella specifica patologia in oggetto, la sua irreversibilità va correlata anche al concetto di inguaribilità sotto il profilo terapeutico, nel senso che qualunque terapia farmacologica, chirurgica, radioterapica o qualunque altro tipo d'intervento non è più in grado di modificare lo stato della patologia stessa).
Dal che non avrebbe potuto che derivare anche l'ininfluenza di eventuali opinioni minoritarie, più o meno scettiche sulla possibilità di effettuare attendibili valutazioni prognostiche di irreversibilità.
Trascorrendo dal piano generale a quello particolare, la documentazione che la Corte d'Appello ha avuto modo di compulsare nella pregressa fase processuale in relazione alla concreta diagnosi/prognosi effettuata sulle condizioni di E. E., si è sostanziata in una relazione medica redatta dal prof. C. D., neurologo di chiara fama e primario del reparto di Neurologia dell'Ospedale Niguarda Ca" Granda di Milano.
Non risulta che la correttezza ed attendibilità scientifica di tale Relazione sia mai stata posta in dubbio da alcun contraddittore processuale del tutore (né dal Pubblico Ministero, né dalla curatrice speciale, la quale ultima ha anzi confermato anche ora, per quanto a sua conoscenza, l'effettiva mancanza di variazioni nello stato di E. rispetto alle risultanze cliniche di cui si dava atto nella Relazione del prof. D.).
Deve aggiungersi che a tale documento non avrebbe fatto difetto neppure alcun ipotetico requisito di forma, tenuto conto che la Suprema Corte non ha stabilito affatto di quali mezzi di prova o di valutazione della prova debba avvalersi il Giudice di merito, che, nella specie, già nella precedente fase avrebbe potuto dunque certamente basare il suo apprezzamento su tutti quelli ritenuti in concreto più confacenti, tanto più mancando una disciplina legislativa di carattere prescrittivo in ordine all'eventuale necessità od opportunità di consultare istituzionali organi tecnici o specifiche commissioni mediche.
Da tale relazione emerge anzitutto una ricostruzione delle modalità di insorgenza della patologia in base all'esistente documentazione clinica.
Emerge in particolare che, a seguito dell'incidente stradale del 18 gennaio 1992, derivò ad E. il già detto gravissimo trauma cranio - encefalico con frattura frontale, frattura dell'epistrofeo e lussazione anteriore di detta vertebra; che E. fu ricoverata in rianimazione presso l'Ospedale di Lecco, ove giunse con un punteggio di 3-4 alla "Glasgow Coma Scale"; che la TC dimostrava raccolte ematiche intraparenchimali in sede frontotemporale sinistra e iperdensità, espressione di sofferenza, a livello talamico bilaterale; che la paziente veniva intubata e ventilata artificialmente; che nei giorni seguenti si manifestavano i segni di un impegno transtentoriale con atteggiamento in decerebrazione e crisi vegetative; che parallelamente una TC dimostrava la comparsa di un'emorragia a livello mesencefalico; che poi gradualmente la situazione si stabilizzava e, circa un mese dopo il trauma, la paziente ricominciava ad aprire gli occhi entrando da quel momento in Stato Vegetativo Persistente; che nel 1996 veniva ricoverata presso l'U.O. Neurologia degli Ospedali Riuniti di Bergamo, ove veniva confermata la valutazione diagnostica e prognostica di Stato Vegetativo Postraumatico; che l'evoluzione successiva confermava la diagnosi - prognosi allora formulata, non essendosi avuta negli anni successivi, e neanche in occasione del successivo accertamento svolto nel 2002 previo apposito ricovero all'Ospedale Niguarda di Milano, alcuna modificazione significativa dello stato clinico e nessuna ripresa di contatto con l'ambiente; che, pertanto, "malgrado un'osservazione estremamente accurata e protratta nel tempo, non è mai stato possibile rilevare indizi di contatto della paziente con l'ambiente circostante".
Quanto all'obiettività neurologica di cui ha dato atto il prof. D., vi è anzitutto una descrizione delle condizioni di E. riassumibile come segue: giovane donna in buone condizioni generali e di nutrizione, con gli occhi per lo più aperti, deviazione sghemba dei globi oculari, anisocoria per midriasi fissa in OD; mioclonia ritmica interessante le labbra, la lingua, la mandibola e in minor misura le palpebre e i globi oculari stessi (con scosse di tipo nistagmico); tetraparesi spastica con atteggiamento in flessione delle dita delle mani e atteggiamento equino dei piedi; respiro spontaneo e valido, senza ingombro tracheobronchiale; nutrizione indotta tramite sondino nasogastrico; alvo regolare con minzione autonoma e incontinenza.
Il prof. D. ha poi dato atto dei vari esami strumentali eseguiti anche nel 2002 (esami di laboratorio di routine, ECG, RX al torace) e, in particolare, dell'esito:
- di un EEG: "tracciato caratterizzato da un'attività monotona in banda alfa e 10 Hz, con sovrimposti artefatti di origine muscolare e oculare, insopprimibili. Nessuna reattività allo stimolo algico. Il tracciato è compatibile con un "alfa coma"";
- nonché di una RM all'encefalo particolarmente eloquente: "esame eseguito in sedazione farmacologica. In fossa posteriore vi è un marcato ampliamento del quarto ventricolo e delle cisterne dell'angolo pontocerebellare e degli spazi corticali con importante atrofia delle strutture della fossa Posteriore. In particolare estremamente atrofico si presenta il mesencefalo, che è caratterizzato da una netta alterazione di segnale ipointensa in FFE T2 da residui emosiderinici di pregressa emorragia (tipo Duret). Marcata alterazione di segnale iperintensa in entrambi gli echi interessante la sostanza bianca periventricolare attorno alle celle medie ed estesa ad interessare la corona rappiata di entrambi i lati sino alla giunzione corticale - sotto corticale da danno assonale diffuso cronico. Massiva atrofia del corno calloso con alterazione di segnale da danno assonale. Piccoli segnali di alterato segnale sono riconoscibili nella capsula interna di ambo i lati con residui emosiderinici; altri piccoli focolai consimili da esiti di focolai contusivi appaiono localizzati in sede nucleocapsulare bilaterale, temporale sinistra, nel ginocchio del corpo calloso, in sede parasagittale e frontale sinistra posteriore cortico - sottocorticale".
Traendo dunque le somme dalle indagini strumentali e sintomatologiche compiute, il prof. D. ha confermato la conclusione, diagnostica e prognostica, già risalente al 1996, secondo cui: "la paziente si trova in uno stato vegetativo permanente, cioè irreversibile. Nessun recupero della vita cognitiva è ormai possibile.. Le indagini ora effettuate, e in particolare la Risonanza Magnetica, corroborano l'ipotesi del danno assonale diffuso come meccanismo fisiopatologico del danno cerebrale che ha portato al tragico sbocco attuale" (N.B.: enfasi grafiche qui ed ora aggiunte).
Tale conclusione, di carattere clinico, rispondeva e risponde dunque pienamente, nella sua elaborazione inferenziale - scientifica, proprio a quei criteri - distillati alla luce degli studi e degli standards internazionali - cui ha fatto riferimento sia la Relazione redatta dal citato Gruppo di lavoro, che la Suprema Corte nella sentenza di cassazione con rinvio, ponendo in evidenza come lo Stato Vegetativo di E., da reputarsi tale in ragione della obiettivamente accertata irreparabile lesione cerebrale (per consolidata alterazione/atrofia di alcuni tessuti corticali e subcorticali, del mesencefalo e degli assoni, ossia della sostanza bianca che interessa l'encefalo e il tronco cerebrale con conseguente disconnessione anche tra queste due parti, senza più evidenza di una coscienza di sé e dell'ambiente, di risposte comportamentali intenzionali o volontarie a stimoli esterni, di comprensione o espressione del linguaggio, pur in presenza di riflessi del tronco cerebrale conservati), abbia certamente assunto carattere irreversibile per la sua straordinaria durata, cui corrisponde, peraltro, quel parallelo e necessario prolungarsi del periodo di osservazione medica (che va ben oltre il limite dei dodici mesi necessario e sufficiente, come s'è visto, per un'attendibile prognosi di Stato Vegetativo Permanente/Irreversibile nei casi da etiologia traumatica) che integra uno dei parametri - insieme alla natura delle lesioni cerebrali e alla perdita di funzionalità di tipo percettivo, cognitivo ed emotivo - cui riferirsi per valutare la rispondenza della diagnosi - prognosi (svolta in concreto) a "standard scientifici riconosciuti a livello internazionale".
La lunghissima ed invariata durata del predetto stato, peraltro, sembra in effetti superare di molto quella già considerata in altri noti precedenti giudiziari come idonea a suggellare l'irreversibilità della patologia in oggetto (solo a titolo esemplificativo può ricordarsi, fra i vari casi che hanno assunto rilievo internazionale e di cui si ha traccia negli atti del procedimento, che in Francia, nel caso H. P., vicenda di SVP tra le più lunghe, è stata disposta l'interruzione dell'alimentazione con sondino naso - gastrico che teneva in vita una donna in Stato Vegetatìvo Permanente da otto anni, mentre in Gran Bretagna, nel caso T. B., lo Stato Vegetativo Permanente durava da soli tre anni).
Ad ogni modo, di tutti i sopra illustrati elementi conoscitivi ha già preso atto la Corte d'Appello nella pregressa fase del procedimento, e in particolare ha preso atto della conclusione prognostica testè riferita, secondo cui "Nessun recupero della vita cognitiva è ormai possibile", pervenendo alla duplice conclusione che tali elementi fossero idonei ad attestare sia il fatto che E. versasse in Stato Vegetativo, sia che tale condizione fosse irreversibile.
La motivazione addotta al riguardo è inequivocabile.
Già nel decreto pronunciato in data 17 ottobre/10 dicembre 2003, non impugnato sul punto con il primo ricorso innanzi alla Suprema Corte, la Corte d'Appello aveva osservato che, pur avendo avvertito nel corso della trattazione del procedimento l'esigenza di acquisire uno specifico profilo clinico della patologia di E., doveva considerarsi del tutto "superflua la consulenza tecnica, in quanto alla stregua delle risultanze processuali non sussistono dubbi sulla diagnosi, la prognosi e la condizione clinica attuale di E., quale paziente in stato vegetativo permanente con il quadro prognostico di irreversibilità descritto nella letteratura scientifica".
Si trattò, tuttavia, di un accertamento svolto, in apparenza, in via meramente incidentale, nel contesto di un provvedimento che si limitò a confermare il decreto reiettivo emanato dal Tribunale di Lecco.
Diversa la situazione, invece, in occasione della pronuncia del successivo decreto in data 15 novembre/16 dicembre 2006.
In tal caso la Corte d'Appello non ha confermato affatto la declaratoria d'inammissibilità dell'istanza del tutore resa dal Tribunale di Lecco sulla base dell'opinione secondo cui il legale rappresentante dell'incapace non sarebbe stato legittimato (neppure con l'assenso della curatrice speciale) a esprimere scelte al posto o nell'interesse del rappresentato; ha al contrario ritenuto che l'istanza fosse ammissibile in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell'incapace ex artt. 357 e 424 c.c..
Proprio per tale ragione la Corte ha riformato il decreto reclamato e ha dovuto esaminare e giudicare la fondatezza dell'istanza del tutore nel merito, a tal fine affrontando proprio il problema circa il se sussistessero in concreto entrambe quelle due condizioni di legittimità della scelta del tutore cui proprio la Suprema Corte ha fatto poi riferimento.
Quanto alla prima, quella dell'irreversibilità dello Stato Vegetativo, la Corte d'Appello ha dovuto esaminarla per prima, poiché di carattere logicamente prioritario, atteso che, senza di essa, sarebbe stato in effetti incongruo procedere ad accertare l'ulteriore condizione riguardante la ricostruibilità di una precedente o presunta volontà di E. orientata verso un rifiuto del trattamento di sostegno vitale.
Dopo aver risolto positivamente tale prima questione, ha quindi affrontato la seconda, in tal caso risolvendola negativamente sul rilievo secondo cui l'attività istruttoria espletata non avrebbe consentito di attribuire alle idee espresse da E. all'epoca in cui era ancora pienamente cosciente un'efficacia tale da renderle idonee anche nell'attualità a valere come "volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Solo tale secondo punto della decisione è stato poi impugnato per cassazione, e solo in ordine ad esso la S. Corte ha pronunciato la sentenza di annullamento, imponendo la rinnovazione dell'accertamento di merito in sede di rinvio.
Il tema del decidere si ripresenta dunque in questa sede esattamente in tale stato e con il suddetto contenuto: da un lato l'accertamento sul carattere dell'irreversibilità è stato già effettuato e, non essendo stato impugnato, è divenuto definitivo e immodificabile in questo procedimento; dall'altro, occorre rinnovare invece l'accertamento riguardante la ricostruzione della "volontà presunta" di E., in quanto impugnato innanzi alla Suprema Corte e da questa annullato perché non correttamente svolto dalla Corte di merito.
Che l'accertamento sullo stato d'irreversibilità sia stato già effettuato, e con esame svolto pure in via principale, si evince con estrema chiarezza dalla motivazione del decreto in data 15 novembre/16 dicembre 2006.
Preso atto della documentazione anche di natura clinica acquisita, la Corte ha ritenuto al riguardo provato, appunto, che E. effettivamente si trovasse "in Stato Vegetativo Permanente condizione clinica che, secondo la scienza medica, è caratteristica di un soggetto che "ventila, in cui gli occhi possono rimanere aperti, le pupille reagiscono, i riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è alcun segno di attività psichica e di partecipazione all'ambiente e le uniche risposte motorie riflesse consistono in una redistribuzione del tono muscolare". Questo stato (...) è caratterizzato da un "quadro prognostico di irreversibilità" (...). È accertato che lo stato vegetativo di E. è immodificato dal 1992, è irreversibile e che la cessazione della alimentazione a mezzo del sondino naso - gastrico, richiesta dal tutore e dal curatore speciale, la condurrebbe a sicura morte nel giro di pochissimi giorni" (N.B.: enfasi grafiche aggiunte qui ed ora).
In definitiva, l'accertamento sulla sussistenza di uno Stato Vegetativo Permanente/Irreversibile è stato effettuato già nella precorsa fase del procedimento, in via principale e non meramente incidentale, e appare ormai coperto da giudicato interno, o in ogni caso da un effetto preclusivo endoprocessuale di stabilità/immodificabilità del tutto equiparabile al giudicato (dovendo solo ricordarsi a questo proposito che il concetto di giudicato interno è più ampio di quello di giudicato esterno, perché non attiene solo ai diritti, o ai fatti - diritti, che per di più siano oggetto solo di statuizioni di accoglimento della domanda, ma anche a tutti i fatti semplici e a tutte le possibili questioni sostanziali e processuali che possono insorgere nel processo ed essere oggetto di esame da parte del Giudicante con esito accertativo positivo o negativo).
Effetto, questo del giudicato o di una preclusione ad esso equivalente, nemmeno incompatibile (forse è il caso di precisarlo, per quanto possa apparire superfluo) con la struttura formale del presente procedimento, ancorché basata sul modello cd. camerale, considerata la natura della pronuncia terminativa cui il procedimento tende: essa implica, infatti, all'evidenza, una decisione su diritti soggettivi (perdippiù costituzionalmente garantiti, come il diritto alla vita, all'autodeterminazione terapeutica, alla libertà personale), idonea ad assumere efficacia definitiva (sia per difetto di ulteriore impugnabilità nel merito, ma anche - come effetto correlato all'oggettiva natura della materia trattata - a causa dell'efficacia definitiva che sulla residua aspettativa di vita di E. non potrebbe non avere un provvedimento di autorizzazione all'interruzione del sostegno vitale di cui è stata chiesta la pronuncia; oltre che in ragione del fatto stesso che il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. sia stato ritenuto ammissibile dalla Suprema Corte, tale ammissibilità potendo predicarsi solo in caso di impugnativa riguardante diritti, avverso una decisione atta a divenire definitiva), sì da essere equiparabile a una sentenza in senso sostanziale.
Ciò esclude che tale accertamento, già divenuto definitivo e immodificabile, possa essere sottoposto ad una rinnovata verifica, la quale sarebbe, prima ancora che ultronea, processualmente inammissibile.
È forse opportuno rimarcare che la sussistenza del giudicato interno è poi tanto più indiscutibile in quanto, alla luce della motivazione contenuta nella sentenza n. 21748/2007, la medesima Suprema Corte sembra aver dato atto, in sostanza, del prodursi di tale effetto, ed è principio giurisprudenziale ormai ricevuto che, quando l'interpretazione del giudicato interno possa considerarsi in tutto o in parte compiuta dalla stessa Corte di Cassazione (nella sentenza di cassazione con rinvio), essa vincoli e condizioni, in modo irreversibile, i poteri del Giudice di rinvio (Cass. Sez. Un. 23 aprile 1971, n. 1175; Cass. 11 luglio 1968, n. 2433).
La Suprema Corte, infatti, ha apertamente riconosciuto come sia emerso "pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova E. E., la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico - encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne)" (NB: enfasi grafiche aggiunte qui ed ora).
La Suprema Corte ha anche descritto la condizione di E. come un dato di fatto obiettivo, evidenziando i caratteri del suo Stato Vegetativo Permanente: "In ragione del suo stato, E., pur essendo in grado di respirare spontaneamente, e pur conservando le funzioni cardiovascolari, gastrointestinali e renali, è radicalmente incapace di vivere esperienze cognitive ed emotive, e quindi di avere alcun contatto con l'ambiente esterno: i suoi riflessi del tronco e spinali persistono, ma non vi è in lei alcun segno di attività psichica e di partecipazione all'ambiente, né vi è alcuna capacità di risposta comportamentale volontaria agli stimoli sensoriali esterni (visivi, uditivi, tattili, dolorifici), le sue uniche attività motorie riflesse consistendo in una redistribuzione del tono muscolare".
Si tratta evidentemente della presa d'atto dell'accertamento già contenuto nel predetto decreto della Corte d'Appello, accertamento che, non essendo stato impugnato (come invece quello relativo all'impossibilità di ricostruire la volontà di E.), non poteva che essere considerato definitivo anche dalla Suprema Corte.
Non a caso essa, per indicare in presenza di quali presupposti il Giudice possa autorizzare una scelta del rappresentante legale dell'incapace orientata alla disattivazione del trattamento di sostegno artificiale, è partita esplicitamente proprio dalla constatazione effettuale basata su quanto emerso in concreto dalle risultanze processuali del presente giudizio - che, di fatto, E. giaceva già "da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno".
Ora è del tutto evidente che, nel rilevare che nel caso di specie il malato - ossia E. E. - versava concretamente in Stato Vegetativo Permanente da oltre quindici anni (al momento in cui la Cassazione ha redatto la sua sentenza, ma ora gli anni sono già divenuti sedici e passa), la Suprema Corte ha necessariamente riconosciuto che tale stato, prolungatosi per un lasso di tempo straordinario (comunque ben oltre il termine di dodici mesi riconosciuto idoneo, statisticamente e scientifica mente, per formulare una prognosi di irreversibilità secondo le indicazioni e gli studi internazionali di cui s'è detto), nel caso di E. è diventato, appunto, definitivo e come tale non più soggetto a regressione o a guarigione, anche solo parziali, l'aggettivo "Permanente" - certamente utilizzato dalla Suprema Corte con piena consapevolezza del dato scientifico - equivalendo, come si è visto, all'aggettivo "Irreversibile" (che a sua volta, per definizione, esprime un significato di immodificabilità/irrecuperabilità/inguaribilità di carattere assoluto, escludendo, per ciò stesso, "la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno", che, se fossero possibili, contraddirebbero in re ipsa la nozione di irreversibilità).
Sarebbe dunque anche logicamente contraddittorio, in via consequenziale, oltre che contrario all'intervenuto effetto sostanziale e processuale di giudicato (o a quello analogo di stabilità/preclusione comunque prodottosi), ipotizzare ora che un tale presupposto - l'irreversibilità - possa non più sussistere.
Sul che sembra peraltro aver concordato lo stesso Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale intervenuto in causa, visto che, pur concludendo per il rigetto del reclamo - com'era ovviamente suo pieno diritto in virtù della personale valutazione delle risultanze processuali che era chiamato ad esprimere -, ha comunque riconosciuto nel suo parere conclusivo che "in base alle conoscenze mediche E. si trova in condizione di Stato Vegetativo Permanente, non essendosi evoluto lo stato di coma derivato dalle lesioni riportate nel sinistro automobilistico da lei subito nel gennaio 1992" (N.B.: enfasi grafica aggiunta qui ed ora), conclusione sulla quale questo Collegio giudicante non avrebbe potuto comunque che concordare, alla luce degli elementi conoscitivi acquisiti, anche nel caso in cui, se il giudicato non avesse avuto modo di formarsi, fosse stato chiamato ad esprimere ex novo il giudizio già anteriormente espresso dalla medesima Corte d'Appello, in quanto meritevole senza dubbio, in fatto, di essere condiviso.
Infine, non può non rimarcarsi ancora che la Suprema Corte, una volta ricostruito il principio di diritto da applicare al caso, ha espressamente cassato il decreto emesso dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte solo con riferimento al mancato accertamento circa la sussistenza della seconda condizione, quella di carattere soggettivo, riguardante la ricostruzione della "volontà presunta" di E., attribuendo ad altra designanda Sezione della medesima Corte territoriale il compito di svolgere appunto (soltanto) tale residuo accertamento.
La Suprema Corte, infatti, alla stregua del limitativo e specifico contenuto delle impugnative proposte da tutore e curatrice speciale, ha esclusivamente sanzionato il fatto che i Giudici della Corte di merito, pur preso atto delle convinzioni e dichiarazioni a suo tempo espresse da E., così come emerse in istruttoria, non abbiano "affatto verificato se tali dichiarazioni - della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato -, ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze dell'istruttoria, la personalità di E. e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona".
Ha quindi concluso, la Suprema Corte, che (proprio) "tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio".
Tutto ciò autorizza pertanto, senza altri residui dubbi, a procedere con carattere di novità alla sola indagine riguardante l'unico punto di fatto relativamente al quale la sentenza rescindente della Suprema Corte ha mostrato di voler disporre il rinvio all'attuale giudizio rescissorio: quello riguardante la ricostruzione della "volontà presunta" di E..
3. Opportunità e doverosità di un'indagine incidentale e preliminare sull'eventuale sussistenza di plausibili dubbi di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte.
Reputa peraltro questa Corte di non potersi considerare esentata, prima di concentrarsi su tale aspetto, dallo svolgere ancora un'ulteriore indagine di carattere preliminare ed incidentale.
Tale esigenza trae causa dal fatto che, poco tempo dopo l'emanazione della sentenza n. 21748/2007, la Suprema Corte, con un'altra pronuncia ampiamente motivata (Cass. 21 dicembre 2007, n. 27082), abbandonando un suo precedente indirizzo propugnato in apparente contrasto con quello della Corte Costituzionale, ha compiuto un deciso revirement riguardo alla questione circa il se, il Giudice di rinvio, possa rilevare profili di sospetta incostituzionalità del principio di diritto che, a seguito di sentenze di cassazione con rinvio, egli sia tenuto ad applicare.
Ha in particolare ritenuto che il principio di diritto, almeno nei casi e nei limiti in cui la Corte di Cassazione sia pervenuta ad affermarlo senza esaminare esplicitamente specifici profili della sua conformità alla Costituzione, dovrebbe ritenersi pur esso ancora soggetto ad un autonomo controllo di costituzionalità da parte del Giudice di rinvio.
Questa, appunto, è sempre stata l'interpretazione della Corte costituzionale, secondo la quale la contraria interpretazione si porrebbe in contrasto "con il chiaro disposto della Legge Cost. n. 1 del 1948, art. 1 e L. n. 87 del 1953, art. 23, secondo cui tali questioni possono essere sollevate nel corso del giudizio, senza alcuna specifica limitazione (...) altrimenti, la Corte costituzionale non potrebbe pronunciarsi sulle questioni di legittimità costituzionale relative a norme che devono ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio, con conseguente violazione della disposizione costituzionale sopra indicata" (Corte cost. nn. 138/1977, 11/1981, 21/1982, 2/1987, 345/1987, 30/1990, 138/1993, 257/1994, 321/1995, 58/1995, 78/2007).
Il contrastante indirizzo della Suprema Corte sul punto (secondo cui invece non sarebbe stato possibile effettuare tale accertamento nel giudizio rescissorio di rinvio, benché il principio di diritto altro non sia che il sostanziarsi di una norma di legge ordinaria, come tale soggetta a valutazione incidentale di legittimità costituzionale da parte del Giudice chiamato a farne applicazione) risulta dunque ora - e almeno per il momento - superato in forza della sopra citata pronuncia n. 27082 del dicembre 2007, con la conseguenza che anche questa Corte d'Appello, nella presente sede, non solo ha la possibilità/facoltà, ma ancor prima il dovere, di valutare, anche ex officio (tanto più in ragione dei molti commenti, anche critici sul piano della legittimità costituzionale, che si sono registrati dopo la pronuncia di cassazione con rinvio in oggetto, della grande delicatezza del tema trattato e dell'enorme importanza degli interessi e dei valori coinvolti), se il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte - in mancanza peraltro, fino ad oggi, di uno jus superveniens di segno contrario rispetto ad esso - non si ponga in eventuale contrasto con norme di rango costituzionale, non risultando svolta da essa alcuna indagine in tal senso, o, comunque, nella parte in cui non ha svolto esplicitamente una siffatta indagine.
La quale può proporsi, virtualmente, con riferimento ad entrambi i punti problematici principali del ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte: quello del fondamento del diritto di scelta terapeutica che viene esercitato dall'incapace, attraverso il proprio tutore, rifiutando il trattamento di sostegno alimentare forzato; e quello dei limiti - ritenuti coessenziali ("connaturati") - all'espressione di tale opzione volitiva da parte del tutore.
L'indagine il cui esito, tuttavia, sembra non poter essere che negativo.
Quanto, infatti, al primo punto del ragionamento giuridico sviluppato dalla Suprema Corte, è davvero poco plausibile ipotizzare un qualunque tipo di eventuale contrasto con principi costituzionali, se non altro perché la premessa maggiore da cui muove il suo argomentare a sostegno del pieno diritto di autodeterminazione terapeutica del malato, anche se incapace, si racchiude nella - in effetti ineccepibile - valorizzazione, sul piano giuridico, della preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica, che hanno un diretto fondamento normativo proprio in norme di rango costituzionale (artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione).
Il valore - uomo (nel suo essere "dato" e nel suo essere "presupposto" come "valore etico in sé") non viene disgiunto dalla Suprema Corte, nella sua lettura delle norme costituzionali (ma com'è del resto congruente anche in senso logico nel rapporto tra soggetto e suoi predicati giuridici), dagli stessi diritti che l'ordinamento costituzionale repubblicano gli riconosce.
Tale correlazione si esprime anche rispetto al diritto alla salute e alla vita; chiarimento, questo, certo non nuovo, per quanto di copernicana importanza nell'interpretazione dell'art. 2 della Costituzione, che è norma fondazionale - nel nostro ordinamento - del riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo, e chiarissima nel riferire tali diritti, appunto, all'uomo, quali predicati del soggetto - titolare cui essi appartengono.
La Suprema Corte ha voluto dunque eliminare ogni possibile fraintendimento, respingendo la contraria concezione che considera il diritto alla salute o alla vita, in certo senso, come un'entità esterna all'uomo, che possa imporsi, in questa sua oggettivata, ipostatizzata autonomia, anche contro e a dispetto della volontà dell'uomo.
Laddove, in particolare, la Suprema Corte ha posto in evidenza che la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli, nemmeno quando il malato versi in stato di assoluta incapacità, ha prospettato un'interpretazione che appare in effetti in grado di attuare, più che di contrastare, il prìncipio di uguaglianza nei diritti di cui all'art. 3 della Costituzione, che evidentemente non va riguardato solo nella finalità di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori.
E tale diritto non può che - necessariamente - esprimersi attraverso la mediazione di "qualcun altro", nella specie non irragionevolmente individuato in un legale rappresentante (peraltro Istituzionale"), ossia il tutore o l'amministratore di sostegno, giacché, se non vi fosse nessun "mediatore" abilitato ad esprimere la "voce" del malato - incapace, non potrebbe neppure attuarsi, per definizione, quel diritto "personalissimo" all'autodeterminazione terapeutica che pure non può non essergli riconosciuto.
Risulta altresì ben chiaro come l'orientamento della Suprema Corte non avalli comunque l'esistenza di un diritto assoluto di morire (inteso come negazione o contraddizione del diritto di vivere), ma si limiti a riconoscere l'esistenza di un diritto, di matrice costituzionale - ma che prima ancora incarna la necessità di assecondare un inevitabile destino biologico - a lasciare che la vita segua il suo corso "naturale" fino alla morte senza interventi "artificiali" esterni quando essi siano più dannosi che utili per il malato, o non proporzionati, né da lui tollerabili; senza potersi confondere tale diritto, dunque, con quello, certamente fino ad oggi non riconosciuto dal nostro ordinamento, di eutanasia.
Ma da ciò la conseguenza che, paradossalmente, eventuali profili di disformità costituzionale potrebbero tutt'al più ipotizzarsi, sia pure solo in astratto, non già in rapporto al riconoscimento del diritto di autodeterminazione terapeutica anche in favore del malato incapace, ma semmai, piuttosto, con riferimento alle condizioni limitative poste dalla Suprema Corte all'esercizio del diritto stesso da parte del tutore per conto di lui, in quanto potenzialmente idonee a far emergere, appunto, un disparitario trattamento in danno del malato incapace (rispetto a quello pienamente capace e cosciente), in violazione dell'art. 3 della Costituzione appena citato.
Sennonché, nemmeno in tal caso un dubbio di costituzionalità ha motivo di porsi plausibilmente in concreto, almeno a giudizio di questo Collegio giudicante, e nei limiti consentiti da una mera delibazione incidentale e sommaria, potendo al più ravvisarsi, nel pronunciamento della Suprema Corte, un semplice parziale difetto di enunciazione dei fondamenti logici atti a giustificare l'operare delle condizioni limitative da essa dettate (fondamenti logici che però, come ora si dirà, appaiono comunque enucleabili proprio in quanto le dette condizioni limitative sono state considerate dalla Suprema Corte come "connaturate" alla necessità di far capo alla volontà dell'incapace), e non un difetto di conformità a parametri costituzionali.
Così, dove la Suprema Corte ha ritenuto che l'opzione del tutore orientata al rifiuto del trattamento medico non sia del tutto libera, ma debba comunque essere espressione del reale sentire e della "voce" dell'incapace da ricostruire in via presuntiva, essa ha si posto una condizione limitativa, senza peraltro aver modo di esplicitarne in modo più esteso il fondamento logico di carattere generale (e nemmeno normativo, questo non apparendo del tutto surrogabile, forse, con il richiamo, apparentemente analogico, all'art. 5 del D.Lgs. n. 211 del 2003, a tenore del quale il consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica - dunque rispetto ad una ipotesi del tutto speciale - deve corrispondere alla "presunta volontà" dell'adulto incapace), ma pur sempre una condizione che si muove all'interno della sfera logica del principio di libera autodeterminazione terapeutica del malato, poiché mira in effetti solo a ricostruire compiutamente proprio quella volontà del soggetto incapace senza la quale non potrebbe per definizione realizzarsi il suo diritto di autodeterminazione.
Si tratta quindi, in effetti, di un limite di natura logica coessenziale all'espressione del diritto "personalissimo" (come precisa la Suprema Corte, ponendolo in connessione con i limiti nascenti dalla "funzionalizzazione del potere di rappresentanza") di autodeterminazione volitiva orientata al rifiuto del trattamento, e dunque all'interno di quella tutela di tale diritto basata sulle norme costituzionali sopra citate. In tal senso, il suddetto limite non sembra dunque porsi specificamente in contrasto con il principio di uguaglianza, ma piuttosto realizzarlo.
Parimenti, ove si è ritenuto che solo il carattere irreversibile dello stato vegetativo del malato possa in via di principio conferire legittimità al rifiuto del tutore al trattamento, anche in tal caso la condizione limitativa sembra muoversi sempre all'interno della sfera logica dell'autodeterminazione.
La Suprema Corte non ha avuto modo di motivare con ampiezza neppure il fondamento logico di tale condizione limitativa, ma è ragionevole ritenere che essa si sia mossa partendo dall'implicito, ma evidente presupposto che, se il tutore potesse esprimere una volontà orientata al rifiuto anche in caso di patologia reversibile, come si è ritenuto che possa fare motu proprio un malato non incapace (dal che l'eventuale dubbio di trattamento diseguale), finirebbe per privare il malato, nella prospettiva di un recupero delle sue facoltà psichiche (reso possibile appunto dal carattere reversibile della patologia), della potestà di esprimersi un domani lui stesso, direttamente e personalmente, in merito a tale scelta; privazione, questa, che finirebbe per contraddire logicamente proprio quel diritto di autodeterminazione terapeutica del malato che trae fondamento dagli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione (e proprio per questo motivo tale diritto potrebbe tradursi invece, senza indegradati residui, in una valida espressione di volontà del tutore in caso di un'incapacità patologica del malato che, in quanto irreversibile, escluda in re ipsa la possibilità di un futuro ripristino della sua possibilità di determinazione volitiva).
In tal caso, perciò, l'estrapolazione della condizione di irreversibilità della patologia che determina il diverso modo di operare della volontà a seconda che il malato sia o meno capace di esprimerla validamente e direttamente al fine dell'interruzione delle cure mediche, non sembra tradursi affatto in un'ipotesi di discriminazione ingiustificata; la quale, peraltro, nemmeno avrebbe rilevanza nel presente giudizio ai fini del decidere, considerato che, come si è visto, nel caso di specie effettivamente sussiste, in base ad un già effettuato e definitivo apprezzamento di fatto, secondo l'accertamento compiuto nella pregressa fase del procedimento, appunto quel carattere della permanenza/irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa l'incapace, che la Suprema Corte ha considerato imprescindibile.
Resta infine da rilevare che un plausibile dubbio di eventuale disformità costituzionale per disparità di trattamento non ha modo di porsi nemmeno con riferimento all'ultimo e più generale profilo, enucleabiie - allo stato attuale del dibattito giuridico - ai fini di tale indagine: quello attinente, cioè, al ribaltamento di prospettiva cui sembra dar luogo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte laddove essa ha prospettato che, mentre per il malato capace di esprimersi, sempre e soltanto la prestazione di un valido consenso informato al trattamento medico possa legittimare quest'ultimo; al contrario, per il malato incapace, il trattamento sia da considerare di per sé legittimo, salvo motivato e valido rifiuto del tutore alla sua erogazione (e sempre che risulti espresso conformemente alle richiamate condizioni limitative).
Tale distinzione risponde, infatti, proprio all'evidente diversità di situazione oggettiva che accompagna chi cada non già in una qualunque situazione di incapacità, più o meno totale e più o meno transitoria, ma solo chi cada in quella del tutto speciale condizione - limite definibile Stato Vegetativo Permanente.
Ove sopravvenga tale stato, il trattamento di sostegno alimentare forzato non può che autolegittimarsi sempre, nell'immediatezza, anche in mancanza di esplicito consenso, e non solo per un elementare principio di precauzione, ma ancor prima per il suo carattere di cura medica doverosa sin dall'inizio, in quanto finalizzata al rispetto del diritto alla vita del malato incapace.
Ma, proprio per questo, la legittimità del trattamento non può venir meno sic et simpliciter successivamente, almeno fino al momento in cui non sopravvenga una valida espressione di volontà contraria del tutore (nei termini e secondo i requisiti già detti) o altra giusta causa legalmente riconosciuta come idonea a determinare la cessazione della terapia.
La possibilità di considerare legittima una richiesta del tutore volta all'interruzione del trattamento di sostegno vitale non può essere poi esclusa (nemmeno ora che una disciplina legislativa specifica non è stata ancora emanata su tale problematica) neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta dell'incapace orientata al rifiuto del trattamento (ipotesi di impossibilità - di esperire un substituted judgment di carattere soggettivo/volontaristico - rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato incapace, da un lato non potendosi affermare, ma neppure escludere, che egli sarebbe stato contrario al trattamento, e dall'altro correndo egli il rischio di restare indefinitivamente esposto a trattamenti che potrebbero anche essere - prima ancora che per soggettiva opinione - obiettivamente degradanti), anche se tale soluzione potrebbe sembrare a prima vista incoerente con l'opinione della Suprema Corte, laddove questa, ad oggettiva confutazione della contraria prospettazione del tutore, ha ritenuto che non sia ravvisabile nel trattamento alimentare forzato con sondino naso - gastrico una forma di accanimento terapeutico in sé, dando così adito alla possibilità di inferirne che l'interruzione del trattamento stesso non potrebbe mai considerarsi come il "best interest" del malato incapace.
Il convincimento espresso dal S. Collegio circa la non configurabilità oggettiva di un'ipotesi di accanimento terapeutico sembra infatti prospettato e riguardare solo, nella concreta situazione esaminata (e dunque sulla base, in apparenza, di un apprezzamento più di fatto, che di natura nomofilattica), la specifica terapia costituita dall'alimentazione con sondino naso - gastrico erogata ad una malata in condizioni di riceverla senza particolare difficoltà o intolleranza fisica, e non qualunque altro genere di trattamento medico di sostegno vitale che risultasse pure in concreto praticato con carattere intollerabilmente invasivo e secondo le mutevoli prassi operative della scienza medica (peraltro soggette ad evolversi anche in tale ambito).
Vero è che tale convincimento sembra poi essersi riflesso in senso restrittivo nell'enunciazione del principio di diritto (poiché questo risulta perentoriamente formulato come se non vi fosse mai spazio per un giudizio di sproporzionalità oggettiva della cura quando non fosse possibile ricostruire la volontà presunta del malato incapace); tuttavia, siccome il principio enunciato può vincolare solo questo Giudice nel presente giudizio e solo in relazione alla ritenuta non sproporzionalità della specifica terapia di alimentazione forzata che le parti ricorrenti in cassazione avevano considerato e chiesto di considerare come accanimento terapeutico (appunto l'alimentazione/idratazione forzata con sondino naso - gastrico erogata ad E.), è lecito inferirne che la forma espressiva utilizzata dalla Suprema Corte per formulare il detto principio vada al di là delle sue stesse intenzioni, e che nulla comunque impedisca di ritenere che il tutore possa adire l'Autorità Giudiziaria quando, pur non essendo in grado di ricostruire il pregresso quadro personologico del rappresentato incapace che si trovi in Stato Vegetativo Permanente, comunque ritenga, e riesca a dimostrare che, il (diverso) trattamento medico in concreto erogato sia oggettivamente contrario alla dignità di qualunque uomo e quindi anche di qualunque malato incapace, o che sia aliunde non proporzionato, e come tale una forma di non consentito accanimento terapeutico, e quindi un trattamento in ogni caso contrario al "best interest" del rappresentato, quale criterio, quest'ultimo, da utilizzare come dirimente fattore diacritico in via surrogatoria per una decisione di interruzione del trattamento.
Da un lato, infatti, se si esamina l'intera motivazione, emerge come la Suprema Corte abbia comunque fatto salvo il ricorso al criterio generale del "best interest", il quale, è appena il caso di notarlo, avendo sempre come referente l'utilità del malato, non può restare confinato in senso meramente soggettivistico solo nell'area di un'indagine riguardante la volontà/personalità.
Dall'altro, poi, il riferimento alla specifica tipologia del trattamento di sostegno alimentare sembra assumere, nell'enunciato principio di diritto, ed alla stregua del valore attribuito all'indagine sulla volontà presunta dell'incapace, un rilievo logicamente secondario: la Suprema Corte, infatti, si preoccupa si di chiarire che l'alimentazione forzata non è una forma di accanimento terapeutico, ma richiede al Giudice di rinvio, prima ancora di accertare se E. avrebbe o meno accettato tale trattamento in particolare, di valutare piuttosto se, in ragione delle sue concezioni di vita e in ispecie di dignità della vita, lei avrebbe comunque accettato o meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio - psichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive.
Pertanto, con il principio di diritto in esame, la Suprema Corte sembra essersi peritata più di rimarcare questo rapporto logico, che di escludere in via di principio, e con riferimento ad ogni altra ipotesi, il rilievo che potrebbe assumere il carattere oggettivamente degradante o sproporzionato di un singolo trattamento di sostegno vitale (non a caso, del resto, la stessa Suprema Corte ha evidenziato che, finanche quando tale trattamento ancora consista nell'alimentazione indotta con sondino naso - gastrico, la quale, di norma, non dovrebbe considerarsi, secondo la sua opinione, una forma di accanimento terapeutico, essa può non dimeno assumere tale connotazione in alcune particolari situazioni, a loro volta indicate dalla Suprema Corte, ma chiaramente soltanto a titolo esemplificativo, con riferimento ai due casi in cui, nell'imminenza della morte: a) l'organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite; b) oppure sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione; si tratta peraltro di casi - per quanto controversi - riportati anche nella sopra citata Relazione redatta dal Gruppo di esperti del Ministero della Sanità, e si suppone che, ove tali casi ricorrano, possa farsi luogo ad un provvedimento di autorizzazione all'interruzione del trattamento anche se manchi la possibilità di ricostruire la volontà presunta dell'incapace).
Ne consegue il superamento del rischio di ravvisare un vuoto di tutela ingiustificato del malato incapace (potenzialmente tale da concretare una lesione al paradigma di cui all'art. 3 della Costituzione) nei casi in cui sia impossibile ricostruire una sua volontà presunta chiaramente rivolta al rifiuto del trattamento, almeno se, ed in quanto, l'opinione della Suprema Corte venga recepita, come sembra più corretto, nei termini appena indicati, e dunque con interpretazione coerente rispetto al suo dictum e anche costituzionalmente orientata.
Nessun particolare dubbio sul piano della disformità costituzionale sembra porre, infine, l'enunciazione del principio di diritto laddove, in forza del ragionamento della Suprema Corte, deve ritenersi ormai accertato - sulla base di un'interpretazione che, se non propriamente di natura nomofilattica, comunque rende non più controversa la questione nel presente giudizio ai fini del decidere - che l'alimentazione/idratazione artificiale con sondino naso - gastrico sia un trattamento di natura medica, giusta la specificazione con cui la Suprema Corte ha ritenuto di dover confutare la contraria opinione espressa in proposito dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte d'Appello nel decreto emesso all'esito della precedente fase processuale.
Su tale aspetto, si tratta solo di prendere francamente atto che l'accertamento della Suprema Corte fa stato in questa sede, e non può quindi essere revisionato.
Per il che, non potendo ormai più individuarsi alcun ostacolo atto ad impedirlo, deve infine procedersi a trattare del profilo tematico riguardante la corrispondenza alla presunta volontà di E. della richiesta di autorizzazione del tutore orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale.
4. Il residuo accertamento demandato al Giudice di rinvio: valutazione in ordine all'attendibilità della ricostruzione effettuata dal tutore sulla "volontà presunta" di E. orientata al rifiuto del trattamento di sostegno vitale. Parametri di riferimento cui attenersi ai fini dell'apprezzamento di fatto.
Al riguardo, peraltro, tre elementi di giudizio contenuti nella motivazione della sentenza n. 21748/2007 ed un altro contenuto nel decreto di questa Corte in data 15 novembre/16 dicembre 2006 rendono almeno in parte già compiuta tale indagine, il che allevia non poco la responsabilità del decidere che compete a questo Collegio giudicante.
La Suprema Corte, infatti, proprio nello specificare la condizione consistente nella necessità di ricostruire la volontà presunta, ha puntualizzato (v. paragrafo 9 della sentenza):
a) che nell'indagine istruttoria già svolta nella pregressa fase del procedimento è stato "appurato, per testi, che E., esprimendosi su una situazione prossima a quella in cui ella stessa sarebbe venuta, poi, a trovarsi, aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma";
b) che in tal modo sono stati acquisiti convincimenti e dichiarazioni di E. "della cui attendibilità (leggasi: "i Giudici della Corte d'Appello) non hanno peraltro dubitato";
c) che l'accertamento demandato ai Giudici del rinvio va da essi effettuato tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall'istruttoria, compresa la "convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza".
Alla luce di tale triplice puntualizzazione, costituente presupposto - e quindi per ciò stesso parte connotativa e costitutiva - del principio di diritto posto a base della pronuncia di cassazione con rinvio, deve ritenersi dunque già "appurato, per testi, che E. (...) aveva manifestato l'opinione che sarebbe stato per lei preferibile morire piuttosto che vivere artificialmente in una situazione di coma"; che comunque sulle idee e sulle dichiarazioni espresse da E. a tale riguardo è stato già espresso un giudizio orientato a considerarle indubitabilmente attendibili; e che ai fini della conclusiva valutazione circa la conformità dell'interpretazione data dal tutore in ordine alla presunta volontà di E. assume rilievo anche la circostanza che la curatrice speciale abbia in effetti completamente confermato e avallato tale interpretazione, aderendo in tutto e per tutto alle allegazioni e alle istanze del tutore.
Quanto al decreto di questa Corte in data 15 novembre/16 dicembre 2006, ivi risulta affermato, con riferimento alle testimonianze rese dalle amiche di E., che il relativo contenuto, "benché sia indicativo della personalità di E., caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni, non può essere tuttavia utilizzato al fine di evincere una volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Come si è detto, la Suprema Corte ha considerato erronea la conclusione di tale ragionamento, ma non la sua premessa valutativa, che pertanto assume anch'essa in questa fase del procedimento il significato di un apprezzamento di fatto non più controverso, nel senso che le prove testimoniali assunte sono state già considerate "indicative della personalità di E., caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni".
Può allora ritenersi che, anche in tal caso, anche all'interno dello specifico accertamento riguardante la "volontà presunta", il giudizio di fatto demandato a questa Corte sia alquanto più ristretto di quanto non appaia ad una prima sommaria lettura del principio di diritto enunciato dal Supremo Collegio.
Ad ogni modo può essere utile ricordare che tale giudizio, secondo il principio enunciato dal Supremo Collegio, deve intendersi finalizzato in generale ad accertare complessivamente (comprese cioè le predette circostanze già appurate):
1) quale sia - nei suoi aspetti essenziali - la ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla presunta volontà di E.;
2) se tale ricostruzione, laddove suppone che la decisione ipotetica che E. avrebbe assunto ove fosse stata capace sarebbe stata quella del rifiuto del trattamento di sostegno vitale, possa considerarsi attendibile e non quindi espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, né in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione;
3) se la ricostruzione della volontà ipotetica abbia riscontro nei vari elementi conoscitivi emersi dal l'istruttoria, che devono connotarsi come elementi di prova chiari, univoci e convincenti;
4) se e in che misura la curatrice speciale abbia assunto una posizione convergente con quella del tutore;
5) se la ricostruzione effettuata dal tutore e riscontrata con gli elementi di prova sopra indicati tenga conto, con riferimento al passato di E.:
5a) della sua personalità;
5b) della sua identità complessiva;
5c) del suo stile di vita e del carattere della sua vita;
5d) del suo senso dell'integrità;
5e) dei suoi interessi critici e di esperienza;
5f) dei suoi desideri;
5g) delle sue precedenti dichiarazioni;
5h) del suo modo di concepire l'idea di dignità della persona (alla luce del suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive).
4.1. Aspetti salienti della ricostruzione effettuata dal tutore in ordine alla "volontà presunta" di E.; convergente posizione della curatrice speciale.
Cominciando dal primo aspetto, quello riguardante il contenuto della ricostruzione della volontà di E. effettuata dal tutore, ne costituiscono fonte sia i molteplici scritti difensivi, sia alcune specifiche dichiarazioni rese in alcuni documenti, sia le dichiarazioni raccolte a verbale in sede di interrogatorio.
Questa Corte ha infatti ritenuto opportuno interrogare direttamente e nuovamente il Sig. E. nel corso dell'udienza camerale odierna, ponendogli molteplici domande e richieste di chiarimento, nella convinzione non solo che l'istruttoria, in questa fase rescissoria del procedimento, per la parte ancora oggetto di giudizio, dovesse estendersi - per quanto possibile - a recepire ogni ulteriore ed utile elemento informativo oltre alle prove già acquisite, ma anche che parte della valutazione di credibilità della ricostruzione offerta dal tutore dipendesse anche dal modo in cui egli fosse riuscito oralmente ad esporre di persona, e convincentemente, le esperienze e le convinzioni di vita di E. ed esposto di persona le ragioni della sua istanza di autorizzazione all'interruzione del trattamento.
In questa occasione il Sig. E. ha fornito una rappresentazione globale della personalità di E., che, a questo Collegio giudicante, è parsa lucida e precisa, pienamente in linea con il quadro personologico tratteggiato già nei precedenti scritti difensivi.
Egli ha in particolare raffigurato - anche con l'ausilio del riferimento a specifici episodi - una ragazza dalla precoce ed acuta intelligenza e dalla vibrante sensibilità, responsabile, indipendente, estranea a qualunque compromesso o ipocrisia, piena di voglia di vivere con intensità la sua vita, franca ed aperta alle esperienze con gli altri, con la voglia di viaggiare e vedere il mondo, un autentico "purosangue della libertà" (questa la definizione datane dai genitori anche in una congiunta dichiarazione scritta recante la data del 15.12.2005).
Ha ricordato - tra gli episodi più sintomatici della precocità di E. - che, già quando non aveva ancora compiuto dieci anni, era riuscita a colpire e carpire, durante una lunga passeggiata, l'attenzione del suo anziano nonno (imprenditore e insegnante in una scuola tecnica, e certamente in grado di dare un giudizio culturalmente adeguato) per come aveva dialogato con lui su argomenti riguardanti in generale la vita e la morte, lasciando sorpreso il nonno di tanta già acquisita maturità di pensiero e del suo manifestarsi come "spirito libero".
Ha detto di essere stato sempre impressionato proprio dall'intensità della voglia di libertà di E., che mostrava "di voler essere a tal punto libera e responsabile da reagire con forza in qualunque occasione lo stesso sembrando che gli altri la forzassero a fare o a dire qualcosa" contro la sua volontà.
A questo riguardo ha anche menzionato - tra gli altri - un ulteriore episodio particolarmente significativo, accaduto quando E. aveva circa tredici anni, allorché, trovandosi in vacanza al mare ("lei adorava il mare"), reagì in maniera "sorprendentemente intensa" alla proibizione impostale dal padre di non uscire di casa oltre una certa ora: cominciò a sudare tanto profusamente che la nonna, presente alla scena, preoccupata di questo tipo di reazione, "fulminò il padre con lo sguardo" affinché recedesse dalla sua imposizione.
Nel riferire di tali ed altri particolari episodi, peraltro, è bene sottolineare che il Sig. E. non ha mostrato di voler trarre da essi alcuna conclusione generale sul piano della correttezza comportamentale di E., né di voler farsi vanto del modo di agire "ribelle" di E., ma ha mostrato solo di voler dare un quadro quanto più verace possibile della personalità "indipendente" della figlia e delle sue convinzioni di vita, che egli si sente, in sostanza, "vincolato" a rispettare e far rispettare in una situazione in cui E. non è più in grado di farlo da sola.
In quest'ordine di idee il Sig. E. ha posto in luce anche lo stato di disagio e di sofferenza che ha accompagnato una parte dell'esperienza scolastica di E., quella riguardante i cinque anni trascorsi, dopo aver frequentato la scuola pubblica fino alla terza media, presso un liceo linguistico privato gestito da suore nella sua città di residenza (liceo che - a suo dire - si era trovata "costretta" a frequentare, perché non vi era in loco altro liceo linguistico pubblico, e non per particolari motivazioni religiose, in quanto E. non era una cattolica praticante, ma anzi piuttosto ribelle alle regole che una qualunque istituzione pretendesse di imporle dall'alto), essendosi dovuta adattare ad un contesto ambientale e ad un corpo docente che, nel giudizio di E., sarebbero stati del tutto refrattari al confronto e al dialogo, mentre lei considerava questi ultimi di essenziale importanza.
Tale esperienza le avrebbe creato una così forte crisi di rigetto e di insofferenza da indurla a cercare, dopo i primi tre anni di frequenza, di transitare ancora alla scuola pubblica, ma trovandosi ancora impedita a farlo perché il liceo linguistico pubblico nel frattempo istituito non prevedeva ancora i corsi per la quarta e la quinta classe.
Ha evidenziato il Sig. E. che nemmeno la successiva iscrizione di E. al corso di laurea in Giurisprudenza presso l'Università Statale di Milano, pur fatta per sua libera scelta, riuscì ad appagarne l'inquieto spirito, tanto che, desiderosa di intraprendere poi una carriera che le potesse permettere di viaggiare il più possibile e di valorizzare al massimo le sue abilità linguistiche in modo da moltiplicare le sue possibilità di avere scambi e contatti con gli altri, mutò successivamente indirizzo di studi passando a frequentare una facoltà linguistica di tipo turistico - manageriale; segno anche questo, a detta del padre, della sua "irrefrenabile esplosività", che non le consentiva di "appagarsi se non attraverso un continuo confronto, libero e profondo, con tutte le esperienze della vita".
Questo modo di intendere la vita è stato ritenuto dal Sig. E. del tutto inconciliabile con l'attuale condizione di E. e con le scelte che lei avrebbe verosimilmente fatto se avesse potuto decidere.
A conferma di tale convincimento sono stati fatti anche altri riferimenti, che risultano poi ancor più profusi negli scritti difensivi, in ordine alle reazioni manifestate da E. con specifico riferimento ad eventi tragici che avevano determinato il coma, o comunque condizioni di assoluta incapacità di locomozione o di percezione, di amici suoi o di personaggi noti (come lo sciatore L. D. della Nazionale azzurra, la cui analoga tragedia, sfociata, dopo vari anni dì "coma" - come si affermava genericamente all'epoca - nella morte avvenuta nel 1985, secondo quanto à ~ stato riferito dal Sig. E. in udienza anche con memoria del riferimento temporale, sarebbe stata pure molto commentata da E., anche perché il noto sciatore pare abbia passato un certo tempo proprio in Lecco, città di residenza della ragazza).
In vari frangenti E. avrebbe manifestato la ferma convinzione che restare in quelle condizioni non sarebbe stato, per lei, un vero vivere, perché solo una vita piena, o comunque in condizioni di capacità dì muoversi, di pensare, di comunicare e di rapportarsi con gli altri avrebbe meritato di essere vissuta, mentre non lo sarebbe stato una vita meramente biologica.
Più volte il tutore ha ripetuto il concetto che, in ogni caso, E. non avrebbe sopportato di sopravvivere in condizioni tali da dover dipendere dall'altrui costante assistenza o tali da renderla un semplice oggetto sottoposto all'altrui volontà, e ha sostenuto che lei stessa avrebbe in varie occasioni manifestato tale idea.
Il Sig. E. ha in conclusione evidenziato che "sarebbe stato per lei inconcepibile che qualcun altro potesse disporre della sua vita contro la sua volontà e le sue scelte" (...) e ha indicato proprio nel rispetto di tale sentire l'iniziativa processuale da lui intrapresa: "tutta la vicenda che ancora conduce al presente procedimento nasce proprio anche dalla convinzione paterna e materna che E. avesse diritto all'affermazione di questo suo modo di essere e di pensare".
Ciò premesso, deve segnalarsi che le dichiarazioni rese nell'odierna udienza dal Sig. E. appaiono credibili anzitutto, come già rilevato poc'anzi, per le modalità con cui sono state espresse, avendo potuto notare questa Corte il suo atteggiamento pacato, ma fermo e preciso nel delineare la figura di E..
Non è trapelata, in particolare, ad onta delle molteplici sollecitazioni con cui si è cercato di approfondire le sue dichiarazioni, alcuna tendenza a "mettere in bocca" ad E. parole del tutore, che invece ha più volte voluto precisare che determinate frasi ed espressioni da lui utilizzate per descrivere la personalità di E. erano proprio quelle che aveva pronunciato quest'ultima.
Un ulteriore e significativo elemento di conforto in ordine alla credibilità di quanto dichiarato dal Sig. E. deriva dalla già ricordata convergente posizione" assunta dalla curatrice speciale.
Merita rimarcare, a tal proposito, che, secondo il senso apparente della direttiva interpretativa della Suprema Corte, tale convergenza di posizione gioca un ruolo rilevante non solo sul piano probatorio, ma, ancor prima, sul piano della stessa intrinseca credibilità della ricostruzione della volontà presunta dell'incapace offerta dal tutore, tale effetto derivando appunto dal fatto che a quella sorta di "interpretazione autentica" della volontà, dei desideri e della personalità di E. che si richiedeva fornisse, e che ha in concreto fornito, il tutore, quale suo "fiduciario" istituzionale, si è aggiunta, convergendo con essa, l'identica versione data dalla curatrice speciale, nominata al fine di eliminare ogni possibile rischio derivante da un eventuale conflitto d'interessi tra rappresentante e rappresentata.
Integrazione - di valutazione e di volontà - che non può non rivestire un rilevante significato ai fini decisori, data la funzione di garanzia e di controllo che alla curatrice speciale è stata demandata, come soggetto imparziale, proprio al fine di verificare in via di principio la genuinità e trasparenza delle intenzioni e dei fini che possono aver mosso il tutore, onde depurarli da ogni possibile rischio d'interesse egoistico.
Rischio peraltro che, nella specie, sembra quasi da doversi escludere in re ipsa già sul piano puramente economico - materialistico - logistico, considerate le modalità di cura di cui ha sempre fruito e ancora fruisce E. (pacificamente risultando ricoverata presso una struttura ospedaliera esterna che non richiede l'assistenza domiciliare continua dei familiari, e con costo integralmente a carico del S.S.N.) e tenuto conto che, trattandosi di persona incontestatamente nullatenente, non viene in gioco neppure alcun interesse ereditario dei genitori (nei confronti dei quali, del resto, è difficile anche ipotizzare un generico interesse a liberare eventualmente altri figli, specie rispetto al futuro, dal "peso" di E., visto che lei era, ed è rimasta, figlia unica).
La curatrice speciale ha inoltre pienamente confermato nei suoi contenuti la genuinità ed attendibilità della ricostruzione effettuata dal tutore, basandosi sulle indagini da lei stessa personalmente svolte, escludendo espressamente che - a suo giudizio - la suddetta scelta possa essere stata condizionata da particolari interessi egoistici.
Può essere utile rimarcare, incidentalmente, che le dichiarazioni del tutore risultano avallate anche dalla madre di E., la Sig.ra S. M., che ha sottoscritto due lettere inviate ad Autorità istituzionali con cui entrambi i genitori di E. hanno concordemente ricostruito la lunga vicenda umana e processuale della figlia e descritto nei suoi tratti essenziali la sua personalità libera e la sua convinzione di non poter vivere in uno stato di assoluta menomazione e soggezione.
Infine, rende anche credibile la genuinità del sentimento che ha portato il tutore ad effettuare la sua scelta, una lettera - acquisita in atti e mai contestata - scritta da E. ai genitori in prossimità delle ultime festività natalizie cadenti poco prima dell'incidente stradale in cui restò coinvolta. In essa E. dichiarò l'intenzione di voler comunicare e trasfondere al padre e alla madre tutta la fiducia e il grande affetto che provava per loro, la sua riconoscenza per quello che essi erano come persone, per come avevano sempre dialogato con lei, per come le erano stati sempre vicini, per come l'avevano curata, educata e trattata, e per quello che erano riusciti a fare di lei.
Si tratta di espressioni che contribuiscono a rendere recessivo il dubbio sulla possibilità che la scelta a difesa di E., come delineata dal tutore, possa essere stata inquinata o appannata da interessi o fini secondi, piuttosto che essere stata dettata semplicemente da affetto e rispetto.
4.2. I riscontri testimoniali. Valutazione finale e conseguenze dell'esito istruttorio.
Il dato probatorio più rilevante non può che restare comunque, a parere di questa Corte, la conferma della ricostruzione effettuata dal tutore così come emergente dalle dichiarazioni testimoniali rese da alcune amiche di E. (F. D., L. P. e C. S.) sui fatti indicati nei capitoli di prova che la curatrice speciale (e non il tutore, si badi) ha potuto comporre e formulare dopo aver svolto lei stessa indagini sul passato di E..
Reputa questa Corte che le testimoni abbiano offerto un decisivo contributo conoscitivo, tanto più credibile in quanto tali amiche hanno quasi tutte frequentato E. sin dall'infanzia (e dunque hanno avuto modo di conoscerla profondamente) e non hanno riferito solo di singoli episodi, ma hanno tratteggiato anch'esse una sorta di modello personologico di E..
In ogni caso è proprio nel rapporto di amicizia fra coetanei, forse ancor di più che nel rapporto con genitori o fratelli, che ciascuno esprime la maggior parte delle proprie convinzioni, delle ansie, delle angosce, del suo vero modo di essere. Da qui il valore inevitabilmente molto rilevante che assumono le dichiarazioni di amici ed amiche (oltre che dei familiari), specie quando siano passati molti anni dal momento in cui una persona ha avuto modo - come nel caso di E. - di esprimere se stessa, poiché solo l'immagine che si forma nella memoria di chi è stato con essa in una relazione di maggiore intimità può riuscire, almeno in parte, a sfuggire ai deleteri effetti del tempo e del distacco.
Questo senza poi considerare che, come già s'è rilevato prima, almeno parte della valutazione sull'attendibilità delle prove testimoniali e sul loro significato (sia sulla personalità indipendente, ribelle e irremovibile di E., sia sulla sua concezione di una vita degna solo se vissuta con pienezza di facoltà motorie e psichiche) è stata già compiuta dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte con il decreto del 15.11/16.12.2006, come rilevato anche dalla Suprema Corte.
Ad ogni modo, in relazione appunto a quella che è stata - con espressione sintetica - la "Weltanshauung" di E., presentano considerevole interesse le seguenti dichiarazioni estratte dalle complessive deposizioni testimoniali.
Ha riferito la teste F. D.:
"E. era molto vivace, sempre allegra, con mille interessi (...). Le sarebbe piaciuto fare qualcosa che avesse attinenza con i viaggi. Voleva fare una professione che le consentisse di viaggiare. La sua indipendenza non le consentiva di essere inquadrata nelle regole, ad esempio a scuola. E. dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo lei, doveva essere vissuta fino in fondo. Non avrebbe mai accettato una vita con limitazioni sia di tipo fisico che mentale (...). L'andare a scuola dalle suore era una scelta forzata, perché era il solo liceo linguistico in zona (...). L'incidente di E. è avvenuto quando la stessa aveva circa venti anni e quindi quasi un anno dopo che aveva cambiato università, anzi pochi mesi dopo, perché l'università è iniziata ad ottobre e l'incidente è avvenuto a gennaio. E. aveva cambiato facoltà da giurisprudenza a Lingue".
Ha soggiunto la teste L. P.:
"E. aveva il sogno di lavorare con me e andare in giro per il mondo con il nostro lavoro, una attività di movimento e non certo sedentaria. E. non era sportivissima, ma sempre in movimento e molto, molto vivace".
Infine, per la teste C. S.:
"E. era vivacissima - non stava mai ferma - doveva sempre fare qualcosa - diventava matta all'idea di stare un pomeriggio in casa - era lei che organizzava e animava la compagnia degli amici".
Si tratta di dichiarazioni in effetti conformi alla descrizione di alcuni significativi tratti della personalità di E. fatta dal Sig. E. e confermano senza dubbio lo spiccato spirito di libertà e di indipendenza di E., la sua insofferenza a qualunque costrizione.
La credibilità dei riferimenti alla voglia di essere libera ed indipendente trae anche conforto dai contestuali riferimenti all'indole di E., descritta come "vivacissima, come una che "non stava mai ferma", che non voleva "essere inquadrata nelle regole", alla sua voglia di muoversi e viaggiare per il mondo.
Particolarmente importante è poi il significato che, nel giudizio di E., come riferito dalla prima teste, doveva attribuirsi alla vita: "E. dava un valore molto profondo alla vita che però, secondo lei, doveva essere vissuta fino in fondo" e senza limitazioni.
Appare dunque sin da questi tratti una ragazza che, prima nel suo intimo essere, e poi anche nelle sue convinzioni, era espressione di un innato, genuino spirito di libertà e di indipendenza, che amava muoversi di continuo, che voleva vivere intensamente.
Il suo senso della vita, poi, appare non meramente astratto o metafisico, ma concreto. Proprio il suo grande amore per la vita esprimeva una condizione limitativa di senso: vita (amata e da amare) era solo quella che poteva essere vissuta pienamente.
Dunque la valutazione già espressa dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte nel decreto del 15.11/16.12.2006, con specifico riferimento al fatto che il contenuto delle suddette testimonianze fosse e sia "indicativo della personalità di E., caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni", appare, oltre che conclusione valutativa ormai definitiva in quanto non specificamente impugnata, anche e comunque frutto di un accertamento pienamente corrispondente alle prove acquisite.
Quanto, poi, al relazionarsi di E. con problematiche specificamente attinenti alla vita e alla morte, e in particolare alla scelta verso cui si sarebbe diretta la sua volontà in caso di assoggettamento a un trattamento di sostegno alimentare forzato in una situazione di assoluta perdita delle sue capacità di locomozione, percezione e cognizione, si è già detto che il predetto decreto ha anche definitivamente riconosciuto che E. ha più volte espresso l'idea che sarebbe stato meglio per lei morire subito piuttosto che restare costretta ad un'indefinita sopravvivenza meramente biologica.
E in effetti, l'opzione del rifiuto alla prosecuzione del trattamento espressa dal tutore, e confermata e condivisa dalla curatrice speciale, trova in altre dichiarazioni delle amiche di E. assunte come testimoni un'ulteriore precisa ed inequivoca conferma.
La teste D. ha su questo aspetto riferito che:
"E. mi ha parlato di A., un suo amico, eravamo già all'università. A. aveva avuto un incidente in moto ed era in coma. E. era andato a trovarlo in ospedale ed era rimasta sconvolta dalla situazione e mi aveva confidato che secondo lei era meglio se fosse morto perché quella non poteva considerarsi vita. Non so quale sia stata poi la evoluzione delle situazione di A.. E. mi ha però ripetuto più volte la frase che mi aveva riferito sul fatto che quella non era vita, sia riferita ad A., sia riferita ad altre persone che avevano avuto vicende analoghe. Mi ricordo in particolare, due episodi. In particolare di F., un altro nostro amico che aveva avuto un incidente in macchina ed era morto sul colpo. Era l'ultimo anno di liceo. Ricordo che E. mi aveva detto che F., nella sua disgrazia, era stato fortunato perché era morto sul colpo e non era rimasto immobilizzato in coma, o comunque paralizzato o incosciente. L'altro episodio si riferisce ad un racconto delle suore di Maria Ausiliatrice presso le quali noi abbiamo frequentato il liceo. Il racconto si riferiva ad una ragazza che viveva in un polmone d'acciaio e le suore parlavano del coraggio di questa ragazza che, pur vivendo in queste condizioni, riusciva a confortare gli altri e a godere della vita, pure essendo in quelle condizioni. Io, E. ed altre compagne siamo rimaste molto impressionate e ci siamo chieste come fosse possibile vivere in condizioni del genere (...)".
Quanto alla teste L. P., ella ha riferito che:
"Quando Eluana ha perso un anno all'università perché si era in precedenza iscritta a giurisprudenza, si è trovata mia compagna di università al primo anno della facoltà di lingue. In quegli anni abbiamo avuto alcuni amici che hanno avuto sinistri stradali, tra cui F. e S. che sono deceduti sul colpo. In questo caso eravamo rimaste colpite, ma non abbiamo fatto commenti. Quando però un suo amico (solo di E.), A., detto F., era in coma in ospedale a seguito di un sinistro, lei era andato a trovarlo ed era rimasta traumatizzata. Mi ha detto che subito dopo era andata in chiesa ed aveva acceso una candela per chiedere per lui la grazia di morire piuttosto che vivere così. Ciò mi aveva colpito perché E., accendendo la candela non aveva neppure pensato o accennato di chiedere che A. migliorasse e guarisse. Non aveva neppure pensato che A. potesse guarire o migliorare. Per motti anni sono andata a trovare E., soprattutto quando era degente a Sondrio. Mi aveva motto colpito il fatto che ogni volta che doveva essere mossa bisognava usare un paranco, cioè una imbracatura. Ho pensato che ciò non fosse dignitoso, soprattutto per E., che avrebbe spaccato il mondo e non avrebbe mai accettato una situazione del genere".
Infine, la teste C. S. ha dichiarato:
" (...) eravamo molto amiche ed avevamo amici comuni. F. (R.) l'avevamo conosciuto entrambe, perché frequentava le elementari nella nostra stessa scuola, ma in classi diverse. Era una domenica mattina di dicembre 1988 ed eravamo andate a Messa con F. e ci eravamo fermati sul piazzale della chiesa per concordare di passare il pomeriggio in discoteca in Valsassina. Io poi non ero andata. Alla sera della domenica ho appreso che F. era morto in un sinistro stradale. Ho visto E. il lunedì mattina che era venuta a casa mia prima di andare a scuola per commentare la vicenda di F.. Era scossa. Ricordo in particolare una sua frase che mi aveva lasciata scossa: e cioè che era meglio che fosse morto piuttosto che rimanere immobile in un ospedale in balia di altri attaccato a un tubo - per cui era meglio morire. (...) Io quel lunedì avevo cercato di dirle che per me la vita era importante, ma lei era ferma nella sua opinione. E. era così. Non c'era verso di farle cambiare idea - era molto determinata nelle sue convinzioni (...)".
Alla luce di tali deposizioni testimoniali, è indubitabile la correttezza dell'interpretazione prospettata dal tutore in ordine alla scelta (orientata all'interruzione del trattamento di sostegno vitale) che presumibilmente E. avrebbe fatto o farebbe nella tragica condizione in cui versa, se avesse potuto o potesse esprimersi direttamente e liberamente.
In sostanza, risulta che E. dava un peso preminente sia alla possibilità di muoversi liberamente ed autonomamente, sia di esprimere una volontà cosciente interagendo con il mondo attraverso le sue facoltà intellettive - percettive - cognitive. Tali facoltà, in sostanza, erano da lei viste come i soli strumenti capaci di dare senso alla vita.
Si tratta di una concezione personale, ma certo non rara, e comunque non nuova, essendo anzi un antico portato della stessa scienza medica: "E l'uomo deve sapere che soltanto dal cervello derivano le gioie e i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, e le tristezze, i dolori, l'avvilimento e il pianto. E per merito suo acquisiamo saggezza e conoscenza, e vediamo e sentiamo e giudichiamo e impariamo cos'è giusto e cos'è sbagliato, cos'è dolce e cos'è amaro..." (Ippocrate, "Sulla malattia sacra", 400 circa A.C.).
Può ritenersi dunque che, effettivamente, per E. sarebbe stato inconcepibile vivere senza essere cosciente, senza essere capace di avere esperienze e contatti con gli altri.
Sarebbe davvero poco coerente con la realtà dei fatti non riconoscere che le indicazioni testimoniali su questo punto sono di una tale chiarezza, univocità, concordanza e ricchezza di dettagli da non poter dare adito a dubbi.
Non può quindi condividersi (né comunque ed evidentemente può conservare efficacia alla stregua del pronunciamento della Suprema Corte) l'opinione manifestata a questo specifico proposito dalla Sezione "Persone Minori e Famiglia" di questa Corte nel decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006, laddove ha argomentato che l'esito testimoniale "non può tuttavia essere utilizzato al fine di evincere una volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita".
Dopo aver consentito l'immissione nel procedimento di tutto il materiale probatorio che è stato fin qui nuovamente esaminato, e in particolare delle testimonianze delle amiche di E., che, per di più (come ha segnalato la Suprema Corte), sono state anche giudicate attendibili (né sussisteva o sussiste alcun apparente motivo per giudicarle diversamente), non si vede come potesse negarsi poi a tale materiale probatorio, dopo la sua intervenuta acquisizione, quell'inequivocabile rilevanza ai fini del decidere che la stessa Sezione "Persone Minori e Famiglia" gli aveva del resto anticipatamente riconosciuto già prima, perlomeno in senso astratto e potenziale, nel momento in cui aveva disposto l'ammissione dei capitoli di prova testimoniale dedotti dalla curatrice speciale e relativi proprio ai fatti che sono stati in seguito esattamente confermati dalle amiche di E..
D'altronde, proprio tale conclusiva valutazione negativa in ordine alla rilevanza del materiale probatorio concretamente acquisito è stata l'oggetto specifico della sanzione cassatoria della Suprema Corte, la quale, nel giudicarla incoerente (rispetto alla premessa secondo cui il contenuto delle testimonianze era appunto "indicativo della personalità di E." ha rilevato che, per privare di efficacia le suddette deposizioni testimoniali, non sarebbe bastato neppure ritenere che le convinzioni espresse da E., così come riferite nelle dette deposizioni, fossero "Inidonee a configurarsi come un testamento di vita", poiché ciò che andava invece appurato era piuttosto se esse "valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze dell'istruttoria, la personalità di E. e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona, alla luce del suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive".
Da ciò risulta chiaro che, nello strutturare ed enunciare il principio di diritto, la Suprema Corte non ha ritenuto che fosse indispensabile la diretta ricostruzione di una sorta di testamento biologico effettuale di E., contenente le sue precise dichiarazioni anticipate di trattamento (advance directives), sia pure rese in modo non formale; ma che fosse necessario e sufficiente piuttosto "accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia".
Dal che ulteriormente si deduce che gli apprezzamenti contenuti nel precedente decreto di questa Corte in ordine alla i riconferenza/ininfluenza delle dichiarazioni di E. non potevano e non possono considerarsi idonei a sminuire l'importanza delle dichiarazioni stesse, perché esse erano comunque idonei elementi informativi concorrenti a definire in modo univoco il quadro personologico, l'identità, la "Weltanshauung" di E., come pure la stessa Sezione "Persone Minori e Famiglia" aveva in premessa riconosciuto.
Ma in realtà dall'espletata istruttoria emerge non solo questo, come si è appena rilevato; emerge anche qualcosa di più, proprio perché il diretto riferimento a frasi dette e a commenti fatti in occasione di tragici incidenti capitati ad altri amici in giovane età (ma anche ad altre persone note, come lo sciatore L. D. di cui s'è detto), sono inequivocabili nell'indicare non solo che E. non avrebbe voluto essere un mero soggetto passivo di un trattamento finalizzato al mero sostegno artificiale per la sua sopravvivenza biologica, ma anche le ragioni del "perché" non avrebbe ammesso tale possibilità: in particolare perché considerava radicalmente incompatibile con le sue concezioni di vita uno stato patologico di totale incapacità motoria e di assoluta deprivazione sensoriale (immobilità da tetraplegica e incoscienza da lesioni cerebrali in cui poi è effettivamente caduta) che le impedisse completamente di muoversi, di sentire e di pensare, passivamente restando come un semplice "oggetto" in balia dell'altrui volontà.
Ecco allora che, dinanzi alla sorte dell'amico A., caduto in coma, E. confida che secondo lei sarebbe stato "meglio se fosse morto, perché quella non poteva considerarsi vita"; perché una vita, cioè, da passare sempre in un letto, senza poter più pensare o sentire, "non era vita, sia riferita ad A., sia riferita ad altre persone che avevano avuto vicende analoghe".
Tali considerazioni - che palesemente escludono che E. avrebbe potuto essere anche in minima parte propensa a subire un trattamento medico purchessia in una situazione di totale deprivazione sensoriale come quella definita di Stato Vegetativo Permanente, e che lei dunque potesse nella sua concezione di vita considerare anche la terapia di alimentazione artificiale e le altre modalità di trattamento del corpo cui ancora è sottoposta come non lesive della sua dignità individuale (stante "l'inaccettabilità per sé dell'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente", secondo l'incisiva sintesi fatta dalla Suprema Corte) - emergono con coerenza nelle plurime occasioni, riferite dalle amiche - testimoni, in cui E. ebbe modo di esprimere sempre lo stesso concetto: che cioè non sarebbe stato possibile vivere "immobilizzato in coma, o comunque paralizzato o incosciente" o nelle condizioni di una ragazza messa in "un polmone d'acciaio"; e che sarebbe stato molto meglio morire "sul colpo".
Non potrebbe poi essere più toccante, e densa di significato ai fini del decidere, la plastica e vivida immagine di E. che accende un cero pregando per... la morte del suo amico rimasto paralizzato a causa di un incidente stradale, senza aver nemmeno ipotizzato che potesse essere preferibile per lui la diversa soluzione di vivere in condizioni di assoluta menomazione.
Infine, concorre a tratteggiare l'inconciliabilità tra il carattere e le intime convinzioni di E. da un lato, e uno stato di costrizione dovuta all'incapacità di sentire, pensare, comunicare ed agire, dall'altro, anche il riferimento alla scena cui assiste una delle sue amiche quando va a trovarla nella casa di cura ove E. è ricoverata, quando viene colpita dal "fatto che ogni volta che doveva essere mossa bisognava usare un paranco, cioè una imbracatura. Ho pensato che ciò non fosse dignitoso, soprattutto per E., che avrebbe spaccato il mondo e non avrebbe mai accettato una situazione del genere".
Vero è che si tratta di una valutazione soggettiva dell'amica di E., ma nel contesto della ricostruzione di una volontà presunta non possono non avere spazio anche gli apprezzamenti soggettivi di chi più da vicino ha conosciuto E., naturalmente se ed in quanto comunque correlabili a specifici fatti ed esperienze, il che però è quanto accade appunto nel caso di specie.
In tale ordine d'idee, assume dunque un non irrilevante valore espressivo, indirettamente utile al fine di tratteggiare quello stato di assoluta soggezione e costrizione che E. non avrebbe sopportato, per l'appunto quell'immagine del corpo avvolto come un semplice oggetto in un'"imbracatura" e sollevato da un "paranco" ogni volta in cui occorre spostarlo, o lavarlo, o massaggiarlo, o altrimenti manipolarlo.
Difficile in effetti dubitare, alla luce del quadro personologico di E. fin qui delineatosi in base alle prove assunte, che lei non avrebbe mai accettato - nemmeno per un breve periodo, e men che mai per sedici anni e più -, proprio come ha pensato la sua amica, di restare inchiodata a tale condizione costrittiva oggettivamente immutevole e senza speranza.
Sembra dunque ulteriormente confermata l'"interpretazione autentica" della presunta volontà di E. datane dal tutore, laddove ha evidenziato che per E. sarebbe stato inconcepibile subire non solo un trattamento invasivo finalizzato a tenerla artificialmente in vita in condizioni di totale soggezione all'altrui volontà, di necessità tali da implicare un'inevitabile esposizione allo sguardo e alla manipolazione da parte di altri soggetti, ma più in generale restare immobilizzata a letto come un "oggetto", indefinitivamente privata della possibilità di vivere pienamente la sua vita, stato per definizione incomponibile con la sua concezione di dignità individuale, le condizioni di sopravvivenza meramente biologica non potendo considerarsi "degne di lei", per come lei stessa concepiva la dignità e una vita dignitosa.
In tal senso emerge, di conserva, come la scelta del tutore sia conforme anche al "best interest" della malata incapace, così come da lei stessa inteso, nel contesto di una concezione della vita talmente radicata - anche in ragione del temperamento e del carattere - nei profili fin qui evidenziati, da apparire nemmeno facilmente soggetta ad ipotetici ripensamenti che potessero renderla inattuale solo per effetto del successivo trascorrere del tempo e delle esperienze (tanto che l'amica C. S., pur cercando di convincere E. a deflettere dall'idea che fosse "meglio morire piuttosto che restare in balia di altri attaccato a un tubo" prospettandole che "la vita era importante" non ha potuto fare altro che dare atto che "lei era ferma nella sua opinione. E. era così. Non c'era verso di farle cambiare idea - era molto determinata nelle sue convinzioni",- irremovibilità peraltro considerata già comprovata anche nel citato decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006).
Dinanzi a tale concezione, il fatto, indubitabile, che nutrire e idratare i malati non autosufficienti e totalmente incapaci sia un obbligo cogente per il medico ed un irrinunciabile dovere di solidarietà sociale, perde evidentemente di rilievo, acquisendo prioritaria importanza, invece, il fatto che E., quando era ancora cosciente, aveva manifestato una personalità, un modo e uno stile di vita, convincimenti e desideri, chiaramente indicativi del fatto che non avrebbe voluto essere curata per nulla nell'evenienza di uno stato di totale immobilità/incapacità fisio - psichica (dunque nemmeno mediante quella terapia di sostegno - base costituita dall'alimentazione/idratazione), preferendo che la si lasciasse morire, ogni intervento esterno in grado di frapporsi alla naturale evoluzione verso la cessazione di una vita meramente biologica, essendo da lei visto come una violenza o una lesione degradante della sua dignità di persona.
Né contro tale evidenza - che nell'apprezzamento di fatto demandato in via esclusiva a questa Corte appare indubitabile - potrebbe giocare alcun ruolo, anche solo parzialmente confutativo, la circostanza che E., secondo l'opinione espressa dall'Ufficio del Pubblico Ministero nel suo parere conclusivo, avrebbe avuto una "formazione religiosa" e una "impostazione conforme a quella della religione cattolica".
Anzitutto perché poi lo stesso Pubblico Ministero ha correttamente riconosciuto che le "informazioni raccolte attraverso le testimonianze non parrebbero essere in antitesi con l'istanza del tutore"; ha cioè ammesso che il tutore ha correttamente interpretato quelle che sarebbero state le determinazioni volitive di E. nella situazione data, sì che - a parte la conferma che su tale conclusione sembra che in fin dei conti siano tutti d'accordo - non è chiaro come la pura e semplice rilevazione del fatto che E. avesse un credo religioso potrebbe contraddire un'interpretazione della sua volontà già compiuta e ritenuta corretta alla stregua di tutti gli altri sopra considerati elementi di giudizio.
Ma poi anche perché, anche a voler dare il massimo rilievo possibile a questo particolare aspetto (dell'"impostazione cattolica") concernente la sfera religiosa di E., pur al cospetto di un così fuggevole accenno fatto ad esso da parte del Pubblico Ministero, ma com'è giusto comunque fare in un contesto decisorio tanto grave, mancano comunque i necessari elementi, sia sul piano generale ed astratto, che particolare e concreto, per considerarlo antinomico rispetto alla personalità indipendente e alle convinzioni ed idee di E. sulla vita e sulla dignità individuale.
Così, deve segnalarsi anzitutto come non risulti affatto chiarito, nel citato parere del P.M., sotto quale profilo la formazione religiosa cattolica avrebbe potuto implicare per E. una scelta contraria all'interruzione del trattamento di sostegno alimentare artificiale.
Ma una tale specificazione sarebbe stata tanto più necessaria considerato che, come già rilevato prima, il giudizio che la Suprema Corte ha richiesto di svolgere sulle convinzioni di E., anche di carattere religioso, non può che essere riferito alla sua specifica e concreta individualità così come si era già formata ed espressa al momento in cui era pienamente cosciente, e non certo basarsi in via meramente astratta su quelli che potrebbero essere in via generale sulla problematica in oggetto i canoni e le regole morali della Chiesa cattolica (peraltro rimasti privi, nel fuggevole accenno fattone dal Pubblico Ministero, di qualsivoglia precisazione contenutisfica), che evidentemente ciascuno, anche se genericamente qualificabile come "credente", o più specificamente come "credente cattolico", è ben libero - tanto più in uno Stato laico che tutela la libertà di coscienza come valore preminente - di condividere o meno, di applicare o meno nella concretezza della sua esperienza di vita privata e individuale (è del resto evidente che una professione di appartenenza - più o meno formale o generica - ad una certa confessione religiosa non implica affatto anche la inesorabilità di una piena condivisione ed osservanza pratica, e in concreto, di tutte le relative regole, anche morali).
In ogni caso, alla luce del quadro personologico di E. emerso in sede istruttoria, e dunque al cospetto della sua già rimarcata indipendenza di giudizio e della sua insofferenza verso qualunque imposizione esterna, anche di tipo religioso, sembra ragionevole escludere che, se anche fosse stato comprovato un preciso ed univoco orientamento della Chiesa cattolica sul tema in oggetto (e con specifico riferimento, comunque, all'epoca in cui E. era pienamente cosciente, e non all'epoca attuale), esso - ove in ipotesi consentaneo ad una prosecuzione del sostegno vitale - avrebbe potuto costituire efficace controindicazione ad una presumibile scelta di E. orientata al rifiuto di tale trattamento.
In concreto, infatti, e con particolare riguardo all'ipotizzata "formazione cattolica" di E., il Sig. E. ha posto in evidenza, e alcune dichiarazioni testimoniali hanno confermato, che la scelta di E. di iscriversi ad una scuola media superiore gestita da suore cattoliche fu resa inevitabile e "costretta" dalla mancanza di un equivalente istituto scolastico pubblico, e ha soggiunto che anzi proprio l'esperienza presso tale scuola le procurò una reazione di insofferenza per quella che lei riteneva fosse un'oggettiva impossibilità di dialogo e di confronto con il corpo docente.
Il Sig. E. ha poi evidenziato che, pur essendo vissuta nel formale rispetto dell'istituzione religiosa, E. non è mai stata di fatto una cattolica praticante e che, al di là della sua intima religiosità, è stata sempre critica verso qualunque richiesta istituzionale di adesione a pratiche o ideologie che fosse basata sul puro e semplice principio di autorità.
Tale più specifico insieme di elementi informativi, dunque, qualunque sia il grado di efficienza probatoria che gli sì voglia riconoscere, è comunque l'unico da cui emerga una qualche traccia un po" più chiara sulla dimensione religiosa della personalità di E., e si pone semmai esattamente agli antipodi del dubbio che il suo intimo credo religioso potesse non conciliarsi con una scelta orientata verso l'interruzione del trattamento di sostegno artificiale.
Non potrebbe esservi poi nulla di più esplicito nel dimostrare il modo del tutto soggettivo e libero di interpretare il sentimento religioso da parte di E., di quella già ricordata ed icastica immagine consegnata all'istruttoria soprattutto dalla sua amica L. P., in cui E. accende sì un cero in chiesa, ma per chiedere come grazia non che il suo amico, in coma a causa di un incidente stradale, possa continuare a vivere, ma che invece possa morire.
In tale circostanza si esprime indubbiamente un profondo sentimento religioso, che nasce e si sublima, nel rapporto con un'altra persona, nella più empatica pietà per la sua tragica condizione, e che non rifugge nemmeno dalla speranza o dalla convinzione dell'esistenza di una divinità trascendente che possa intervenire a risolvere dall'alto le tragedie umane; ma sì esprime al tempo stesso anche la convinzione di come sia intollerabile e inconcepibile accettare la riduzione di sé a un corpo privo della possibilità dì muoversi, di pensare e di sentire, e in definitiva incapace ormai di vivere una vita nel senso più umano e completo del concetto.
Perché, a ben vedere, proprio il suddetto sentimento di pietà, che nell'occasione in cui E. chiese per il suo amico la grazia della morte la indusse ad interpretare questa come un bene, anziché come un male (ovvero, come dovrebbe o potrebbe dirsi restando nella sfera terminologica della sentenza di cassazione con rinvio, come il "best interest" per il suo amico nella condizione in cui costui si era trovato), altro non pare che il sintomo rivelatore della proiezione del sé di E., del proprio modo di sentire e concepire la vita e la morte, del proprio modo di immaginare quale sarebbe stata, anche e in primo luogo per lei stessa, la soluzione migliore in quella data situazione: poter morire, assecondando un esito "naturale", e non già consegnarsi al lungo trascorrere di una vita solo organica ed apparente, senza più contatti con il mondo esterno, e senza la possibilità di vivere coscientemente e pienamente la propria esperienza di vita.
Ebbene, il compito di questa Corte è solo quello, per quanto ostico e ingrato, data la gravosa natura delle scelte del tutore soggette in questa sede a controllo e autorizzazione, che è stato segnato dalla pronuncia della Suprema Corte; ossia di controllare - con logico apprezzamento di fatto delle prove acquisite (insindacabile purché congruamente motivato) - la correttezza della determinazione volitiva del legale rappresentante dell'incapace nella sua conformità alla presumibile scelta che, nelle condizioni date, avrebbe fatto anche e proprio la rappresentata, di cui il tutore si fa e deve farsi porta - "voce": nulla di più e nulla di meno.
Le prove assunte, attendibili, univoche, efficaci e conferenti, e definitivamente ritenute in buona parte già tali con l'accertamento di fatto già espresso nel precedente decreto del 15 novembre/16 dicembre 2006, unitamente alla condivisione della scelta del tutore fatta dalla curatrice speciale (che ha peraltro svolto in modo apparentemente ineccepibile la sua attività di controllo imparziale), tranquillizzano in ordine al fatto che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita del rappresentante di E., anziché di quest'ultima, e che non sia stata in alcun modo condizionata da altro fine o interesse se non quello di rispettare la sua volontà ed il suo modo di concepire dignità e vita.
Per tutte le precedenti considerazioni, in conclusione, ponderate anche alla luce di quella "logica orizzontale compositiva della ragionevolezza" indicata dalla Suprema Corte - bilanciamento in cui non può non trovare spazio sia la valutazione della straordinaria durata dello Stato Vegetativo Permanente (e quindi Irreversibile) di E., sia la, altrettanto straordinaria, tensione del suo carattere verso la libertà, nonché la inconciliabilità della sua concezione sulla dignità della vita con la perdita totale ed irrecuperabile delle proprie facoltà motorie e psichiche e con la sopravvivenza solo biologica del suo corpo in uno stato di assoluta soggezione all'altrui volere, tutti fattori che appaiono e che è ragionevole considerare nella specie prevalenti su una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata -, l'istanza di autorizzazione all'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale, così come proposta dal tutore di E. E. e condivisa dalla curatrice speciale, va inevitabilmente accolta, a tale decisione non potendo sottrarsi i decidenti, per quanto non senza partecipata personale sofferenza.
5. Disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa.
Resta solo da precisare, sebbene possa apparire ultroneo alla luce degli stessi accorgimenti suggeriti dal tutore istante quanto alle modalità con cui attuare l'interruzione del trattamento di sostegno vitale, ma accogliendosi un esplicito richiamo della Suprema Corte a impartire qualche ulteriore disposizione pratica e cautelativa, che, in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere E., occorrerà fare in modo che l'interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso - gastrico, la sospensione dell'erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori, ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero confacente, ed eventualmente - se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla miglior pratica della scienza medica - con perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad es. anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l'eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell'igiene del corpo e dell'abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento, e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l'assistenza, almeno, dei suoi più stretti familiari.
P.Q.M.
La Corte d'Appello di Milano
- Prima Sezione Civile -
1) accoglie il reclamo proposto dal Sig. B. E., quale tutore di E. E., cui ha aderito anche la curatrice speciale di quest'ultima, avv. F. A., e per l'effetto, in riforma del decreto n. 727/2005 emesso dal Tribunale di Lecco in data 20 dicembre 2005 e depositato in data 2 febbraio 2006, accoglie l'istanza - conformemente proposta da entrambi i legali rappresentati di E. E. - di autorizzazione a disporre l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest'ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso - gastrico;
2) rinvia per le altre disposizioni relative all'attuazione in concreto di tale misura alle indicazioni di massima contenute nella parte conclusiva (punto 5) della sopra estesa motivazione;
3) manda la cancelleria per le comunicazioni a tutte le parti del procedimento.
Così deciso in Milano, in data 25 giugno 2008
Depositata nella Cancelleria della Corte di Appello di Milano il 9 luglio 2008