29.09.2008 free
CORTE di CASSAZIONE – ( la inattività imposta al chirurgo lo dequalifica )
§ - se l’ASL trasferisce il medico – con le mansioni di primario chirurgo – presso un altro ospedale, attribuendogli le mansioni di primario di pronto soccorso, ne deriverà un danno risarcibile da dequalificazione, rientra infatti nella comune esperienza, senza bisogno di prove, che per l'attività del chirurgo è essenziale una adeguata manualità, e che la relativa professionalità decade se non viene esercitata.
L’inattività è pregiudizievole alla professionalità del chirurgo, che, come quella dei musicisti e gli sportivi, necessita di una continua pratica. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net ]
Cassazione Civile - Sezione Lavoro, Sent. n. 22880 del 09.09.2008.
omissis
Svolgimento del processo
La Azienda sanitaria locale n. X. di X. ha trasferito il Dottor F.R., primario chirurgo dell'ospedale di X., all'ospedale di X. con le mansioni di primario di pronto soccorso.
Il giudice del lavoro adito ha condannato la Asl a reintegrare il dipendente nelle sue funzioni di primario chirurgo ed a risarcirgli il danno cagionato dalla dequalificazione.
La Corte d'appello di L'Aquila, con sentenza 14 aprile 2005 n. 369, ha respinto l'appello principale della Asl, nonché l'appello incidentale del F., volto ad ottenere un risarcimento di maggiore ammontare.
Il giudice di appello ha preliminarmente respinto l'eccezione della Asl secondo cui l'assenza del suo fascicolo di parte al momento della discussione avrebbe inficiato il procedimento di primo grado, per i seguenti motivi: a) la appellante non ha spiegato il pregiudizio specifico che da tale assenza sarebbe derivato; b) l'assenza è comunque addebitabile alla stessa parte, poichè il fascicolo è rientrato nella sua disponibilità quando ebbe a ritirarlo per consegnarlo al consulente tecnico d'ufficio, assolvendo d'altronde un onere che grava sulla parte e non su altri.
Nel merito ha ritenuto:
1. i fatti di causa pacifici;
2. sul piano processuale la Asl non ha dedotto: a) che sussistessero le condizioni per un licenziamento dell'appellato, e che pertanto la sua adibizione a diverse mansioni fosse un provvedimento lecito, siccome adottato a suo vantaggio, per evitare un licenziamento; b) che sussistesse impossibilità di trasferire il F. in altro posto di lavoro conservandogli le sue mansioni.
3. in fatto è risultato provato che esisteva la possibilità di adibire il F. ad attività chirurgica in altro posto di lavoro: il primario del reparto di chirurgia di eventuale destinazione Dott. C., escusso come teste, ha lealmente ammesso che il possibile trasferimento del F. nel suo reparto non avvenne perché contrastante con le esigenze di carriera dei suoi aiuti, che già manovravano per disporsi nelle migliori posizioni per concorrere alla sostituzione del primario, di prossimo pensionamento;
la richiesta del F. di avere la responsabilità di un certo numero di letti è coerente con le sue funzioni;
4. in conseguenza del trasferimento l'appellato non ha svolto attività di chirurgo per oltre un anno, dall'8 luglio 1998, data del trasferimento, al 2 agosto 1999 quando è stato di nuovo adibito a mansioni di chirurgo in esecuzione di ordinanza ex art. 700 c.p.c..
5. tale inattività è stata pregiudizievole della sua professionalità di chirurgo, che, come quella dei musicisti e gli sportivi, necessita di una continua pratica.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la Azienda sanitaria locale, con tre motivi di ricorso.
L'intimato si è costituito con controricorso, resistendo; ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo la Asl ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione di legge, non meglio precisata; omessa e contraddittoria motivazione in ordine a punto decisivo della controversia, censura la decisione in punto di mancata ricostruzione del fascicolo di parte, la cui sparizione sarebbe addebitabile al c.t.u. che non l'ha riconsegnato.
Il motivo è inammissibile per un duplice motivo: perché deduce una violazione di legge senza indicare la norma la cui interpretazione o applicazione la sentenza impugnata avrebbe violato; perché censura una statuizione non resa; infatti dalla sentenza impugnata non risulta che la parte abbia chiesto la ricostruzione del proprio fascicolo, ma solo che questo mancava alla udienza di discussione.
Quanto al vizio di motivazione, la sentenza impugnata ha esposto in maniera compiutamente argomentata i due argomenti di rigetto, tra i quali è assorbente il rilievo che la Asl non ha spiegato il pregiudizio specifico che dall'assenza del fascicolo di parte sarebbe derivato.
Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., comma 2, contesta che costituisca fatto notorio che i chirurghi, come i musicisti e gli sportivi, necessitino di una pratica manuale continua.
Il motivo non è fondato.
Costituiscono principi cardine del nostro sistema processuale civile che il giudice deve decidere nei limiti della domanda e dei fatti allegati dalle parti (art. 112 c.p.c.; i quali fatti costituiscono l'unico limite al potere di rilevazione del giudice: Cass. Sez. un. 3 febbraio 1998, n. 1099) e deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti (art. 115 c.p.c., comma 1). Tuttavia per l'accertamento dei fatti oggetto del giudizio il giudice può avvalersi di altri mezzi, diversi dalla prova testimoniale e da quella documentale, nei quali rileva in varia misura l'apprezzamento del giudice: gli argomenti di prova (art. 116 c.p.c.) tratti dall'interrogatorio libero (artt. 117, 420; Cass. 5 maggio 2003 n. 6815, Cass. 14 settembre 2007 n. 19247); l'ispezione di persone e cose (art. 118); le informazioni dalla pubblica amministrazione (art. 213), la consulenza tecnica (artt. 61, 191; sul suo valore di ausilio alla scienza del giudice e quale mezzo istruttorio: Cass. 17 aprile 2003 n. 6195; Cass. 2 marzo 2004 n. 4252); presunzioni semplici (art. 2729 c.c.).
Il giudice può anche porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 c.p.c., comma 2).
Su tale norma, che è una delle più problematiche ed illuminanti del processo civile dal punto di vista sistematico, dottrina e giurisprudenza concordano nelle seguenti proposizioni:
- il fatto notorio è appunto un fatto, essenziale della decisione;
- la sua esistenza non è provata dalle parti, ma è meramente affermata dal giudice;
- il quale non ha obbligo di motivare, data la sua natura;
- che consiste nell'affermazione da parte del giudice che la conoscenza di un dato di fatto (ad esempio i tassi di interesse praticati dalle banche: Cass. 2 agosto 2005 n. 16132; il requisito dimensionale dell'impresa Ferrovie dello Stato: Cass. 25 novembre 2004 n. 22271, etc.) appartiene alla cultura media;
- in quanto fatto, ammette la prova contraria (Cass. 19 gennaio 2006 n. 981).
Esso quindi introduce nell'accertamento dei fatti processualmente rilevanti un fatto non provato, distinguendosi in ciò sia dai fatti acquisiti per effetto della non contestazione, che dipende dalla volontà defensionale della parte, sia dagli altri mezzi di prova.
Diversamente dalla prova testimoniale, che viene udita dalle difese delle parti e consacrata in un verbale, dalla prova documentale, contenuta in un documento, dagli altri elementi di prova cennati, comunque oggettivati in un documento, verificabile e confrontabile con altre risultanze processuali, e soggetti a critica intrinseca e comparativa, il fatto notorio entra nell'accertamento processuale sulla base della mera affermazione del giudice, derogando sia al principio dispositivo della prova, sia a quello del contraddittorio.
Per tale motivo la giurisprudenza di questa Corte circonda il fatto notorio di molte cautele verbali; esso deve essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice.
Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo; il giudice ne constata l'esistenza e gli effetti, e lo valuta ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perchè le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo (ex plurimis Cass. 28 febbraio 2008 n. 5232, Cass. 19 novembre 2007 n. 23978, Cass. 29 aprile 2005 n. 9001). Con queste perimetrazioni, la Corte ammette anche il fatto notorio locale, e cioè una conoscenza diffusa ma circoscritta limitatamente al luogo ove esso è invocato; e quello tecnico, sia pure a livelli semplicizzati.
Quanto alle fonti di conoscenza del fatto notorio, essa è costituita dalla cultura media cui appartiene il giudice, non solo scolastica ed accademica, ma anche derivante dai moderni mezzi di comunicazione di massa o da altre forme pubblicitarie (ex plurimis Cass. 4 giugno 2007 n. 13056, Cass. 31 maggio 2005 n. 11609, Cass. 27 novembre 1993 n. 11774).
Rimane che la conoscenza generale di un fatto, per tale motivo notorio, viene filtrata ed affermata dal giudice, senza la mediazione delle parti e senza obbligo di motivazione sulle proprie fonti di convincimento; sicché in definitiva, come affermato dalla dottrina processuale più avvertita, la previsione dell'art. 115 c.p.c., comma 2, si risolve in un limite al divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice.
Quanto alla censurabilità in cassazione dell'affermazione di un fatto notorio, questa Corte ha con grande frequenza deciso sulla natura di un fatto come notorio, affermando o negando che un fatto posto a base della decisione dal giudice del merito in quanto notorio, abbia o non abbia tale caratteristica (ex plurimis Cass. 5232/08 e Cass. 23978/07 cit.).
La dottrina giustifica la censurabilità in cassazione, così ammessa, con vari argomenti, tra cui il più evidente è la violazione della norma processuale (art. 115 c.p.c., comma 2), per averne il giudice del merito fatto applicazione entro o al di fuori dei limiti consentiti, per la esistenza o inesistenza del notorio.
Il sindacato della Corte di legittimità chiamata a verificare l'osservanza della norma processuale di cui all'art. 115 c.p.c., comma 2, non può dunque realizzarsi se non verificando i presupposti per la sua applicazione, e cioè l'esistenza del fatto notorio, e cioè ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva, operato dal giudice del merito.
In effetti, poiché il giudice del merito non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali l'affermazione del notorio si fonda (ex plurimis Cass. 13056/20078 cit.), la Corte di legittimità non può operare un controllo motivazionale, come per gli altri fatti posti a base della decisione, deferibili al sindacato di legittimità sotto il profilo della violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5. Ma poiché l'affermazione del notorio costituisce comunque un criterio decisionale, esso non può rimanere l'unico elemento di giudizio insindacabile, diversamente dalle norme di legge applicate e dalla valutazione degli altri elementi di fatto derivanti dalle prove assunte.
Si deve pertanto concludere che ove il giudice del merito abbia posto a base della decisione un fatto, qualificandolo i come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili alla corte di legittimità sotto il profilo della violazione dell'art. 115 c.p.c., comma 2, la quale eserciterà il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva, operato dal giudice del merito.
Alla luce di tali criteri, risulta corretta l'affermazione del giudice del merito secondo cui rientra nella comune esperienza, senza bisogno di prove (art. 115 c.p.c., comma 2), che per l'attività del chirurgo è essenziale una adeguata manualità, e che la relativa professionalità decade nisi eam exerceas.
Con il terzo motivo la ricorrente, deducendo violazione di legge, contesta la valutazione dei fatti operata dalla sentenza impugnata.
Il motivo è inammissibile, perché non indica la norma di legge della cui violazione si duole, ed attiene in realtà alla valutazione dei fatti, senza dedurre alcun vizio specifico nel ragionamento del giudice del merito.
Il ricorso va rigettato. Le spese processuali del presente giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la Ausl ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 23,00 oltre Euro 3.500,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 5 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2008