29.01.2008 free
CASSAZIONE CIVILE Sez. Unite – ( responsabilità del Ministero della Salute per AIDS ed epatiti conseguenza di emotrasfusioni ed impiego di emoderivati)
§ - Premesso che sul Ministero della Salute gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento. [Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net ]
Cassazione Civile - Sezioni Unite, Sent. n. 581 del 11/01/2008
omissis
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il Ministero della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., per non avere evitato che agli attori o ai loro danti causa, che necessitavano per patologie congenite di continue trasfusioni, venissero somministrati prodotti emoderivati senza i necessari controlli, per cui questi contraevano varie affezioni, quali HIV, HBV ed HCV, alle quali a distanza di alcuni anni in alcuni casi seguiva la morte.
Intervenivano in giudizio anche altri soggetti che assumevano anch'essi di aver contratto il contagio e di avere diritto al risarcimento del danno.
Il Tribunale accoglieva la domanda di condanna generica al risarcimento del danno.
L'appello proposto dal Ministero veniva rigettato dalla corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 12.1.2004.
Riteneva la corte territoriale che l'eccezione di prescrizione era infondata, in quanto a norma dell'art. 2935 c.c., il diritto può essere esercitato solo allorchè il titolare abbia raggiunto la piena cognizione dell'esistenza e del fondamento del medesimo, ed individuando il dies a quo nel momento del rilascio delle certificazioni relative all'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, da parte delle Commissioni medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il termine di prescrizione era decennale, trattandosi di fattispecie di reati di epidemia colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo. Nel merito riteneva la corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era necessario valutare la prescrizione in relazione alle singole posizioni, attenendo tale valutazione al successivo giudizio di liquidazione dei danni, mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi alla responsabilità dell'amministrazione per essere gli stessi stati causati da emotrasfusione o assunzione di emoderivati con sangue infetto, come riconosciuto dallo stesso Ministero che aveva erogato l'indennità di cui alla L. n. 210 del 1992.
Riteneva poi il giudice di appello che l'Amministrazione era in possesso delle fin dagli anni '70 di elementi di studio e di ricerca tali da consentire di individuare almeno il virus dell'epatite B e quindi da rendere obbligatoria l'adozione di misure di prevenzione.
La corte riconosceva, inoltre, agli attori anche il diritto al risarcimento del danno morale.
Nelle more interveniva una transazione tra il Ministero e gran parte degli attori.
Il Ministero della salute impugnava la sentenza della corte di appello nei confronti dei soggetti con cui non aveva transatto la lite e cioè: A.C., + ALTRI OMESSI I predetti intimati, ad eccezione degli ultimi tre, resistevano con controricorso; essi hanno presentato anche memoria.
Motivi della decisione
1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della Salute per danni "da sangue infetto".
1.2. Preliminarmente va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A.C., per sopravvenuta carenza di interesse.
Infatti come risulta dalla documentazione prodotta da quest'ultima, tra lei ed il Ministero della Salute è intervenuta una transazione, la quale, comportando la cessazione della materia del contendere, fa venire meno l'interesse del ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell' A..
1.3. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., art. 112 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Il ricorrente assume che erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del giudizio di merito non sono state vagliate autonomamente le varie posizioni degli attori, risalenti a diversi momenti, giustificando ciò con il rilievo che nella fattispecie si trattava di domanda di condanna generica al risarcimento del danno.
Assume poi che i fatti nella maggior parte dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988 e che quindi al momento della proposizione della domanda erano maturate sia la prescrizione decennale che quella quinquennale, le quali andavano valutate con riferimento al verificarsi del danno.
Secondo il ricorrente in ogni caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia perchè il convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide con l'autore dell'illecito penale, sia perchè manca l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato, sia perchè nella fattispecie sussistevano cause di giustificazione, quali la scriminante dell'attività medico-chirurgica e quella del consenso dell'avente diritto.
2.1. Il motivo è solo in parte fondato.
Esso è fondato nella parte in cui censura l'impugnata sentenza, allorché questa ritiene che la posizione dei singoli attori, ai fini dell'eccepita prescrizione, non fosse rilevante nella fattispecie, trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel successivo giudizio di quantificazione del danno tale singole posizioni andavano vagliate ai fini della prescrizione.
Infatti non rileva che, nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma generica, dal momento che anche questo tipo di statuizione conforma autoritativamente i contenuti sostanziali del rapporto obbligatorio, imponendo all'obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore titolare di actio iudicati (cfr. Cass. n. 18825 del 2002; n. 3727 del 2000), cosicché la parte convenuta ha l'onere di eccepire tempestivamente la prescrizione, essendole precluso di farlo nel giudizio sul quantum (cfr. Cass. n. 3243 del 1985; n. 5211 del 1980).
Pertanto anche a fronte di una domanda di condanna in forma generica, il convenuto che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n. 7734; Cass. 27/05/2005, n. 11318). Ciò comporta che il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992, n. 4151; Cass. 1/08/1987, n. 6651).
Solo cosi impostata e risolta la questione si intende il consequenziale principio secondo cui la sentenza di condanna generica passata in giudicato determina l'assoggettamento dell'azione diretta alla liquidazione al termine prescrizionale di cui all'art. 2953 c.c., nonché la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione nei confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse con la condanna generica (Cass. 15/09/1995, n. 9771; Cass. 13/12/2002, n. 17825; Cass. 04/04/2001, 4966).
2.2. Fondata è anche la censura secondo cui nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di epidemia colposa o lesioni colpose plurime.
Per poter usufruire di un termine più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui all'art. 2947 c.c., comma 1, sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.
Sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato (L. 5 dicembre 2005, n. 251), va, tuttavia, osservato che la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre i principi di cui all'art. 2 c.p., attengono solo agli aspetti penali, per effetto di successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da escludere il reato di epidemia colposa (artt. 438, 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poichè altrimenti si verserebbe in endemia).
Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime, stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.
2.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche gravissime, o del reato di omicidio colposo non potendosi negare che il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso.
Sennonché va osservato che la prescrizione decennale nell'ipotesi di configurabilità di omicidio colposo opera solo in favore di quegli attori (congiunti del contagiato) che abbiano agito in giudizio (iure proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso ascrivibile all'emotrasfusione (o all'assunzione di emoderivati) con sangue infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello stesso giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a lesioni colpose.
2.4. Quando, invece, ricorra solo quest'ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che anche la prescrizione del reato di lesioni colpose matura in cinque anni.
2.5. Infondata è la censura secondo cui non sarebbe possibile nella fattispecie un'equiparazione del termine prescrizionale civile a quello penale (nei termini di cui all'art. 2947 c.c., comma 3) non essendo il Ministero l'autore dell'illecito penale.
Infatti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la previsione dell'art. 2947 c.c., comma 3, si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all'azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche all'azione civile diretta contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (Cass. 09/10/2001, n. 12357; Cass. 6/02/1989, n. 729).
2.6. Infondata è anche la censura secondo cui la corte territoriale non avrebbe valutato l'esistenza dell'elemento psicologico, pur necessario ai fini della ritenuta sussistenza dei reati di omicidio colposo (per le sole fattispecie in cui ricorra) o lesioni colpose.
E' vero che nel caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all'azione di risarcimento dei danni, a condizione che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n. 9928; Cass. 10/06/1999, n. 5701).
Sennonchè nella fattispecie la sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l'elemento colposo dell'Amministrazione (e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli accorgimenti utili a scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando determinati trattamenti ed analisi del sangue acquisito.
2.7. Inammissibile è la censura secondo cui l'Amministrazione avrebbe agito in presenza delle scriminanti dell'attività medico-chirurgica e del consenso dell'avente diritto e che di tanto avrebbe dovuto tener conto il giudice di appello.
A parte ogni altra considerazione, va rilevato che il ricorrente non ha indicato se e quando tale questione sia stata posta all'esame del Giudice di merito, non risultando sul punto alcunché nella sentenza impugnata.
Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al Giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 21/02/2006, n. 3664; Cass. 22/05/2006, n. 11922; Cass. 19/05/2006, n. 11874; Cass. 11/01/2006, n. 230).
3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.
Come è noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si è verificato”.
Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il significato da attribuirsi all'espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno si manifesta all'esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica.
Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “rapportabilità causale”.
3.2. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
È quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medicai malpractice).
3.3. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.
3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti:
"Anche allorché sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il Giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato".
"Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell'art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche".
4. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione.
In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito.
Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perchè offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perchè potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell'azione; perchè rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico-legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso.
Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche.
5. Ne consegue che nella fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di giudizio relativo solo a domanda di condanna generica, alla ritenuta decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno perchè il fatto costituirebbe un'ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, (mentre la prescrizione è decennale in relazione a domande relative a risarcimento del danno da decesso, proposte da congiunti iure proprio, in cui è ipotizzabile un omicidio colposo); è infondata la censura, per violazione di norme di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione, avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto; è fondata la censura di vizio motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo eziologico, ai fini dell'exordium praescriptionis solo con il responso della commissione medico ospedaliera.
6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Il Ministero lamenta la violazione di legge in ordine all'accertamento del nesso causale e dell'elemento psicologico della colpa in capo al Ministero.
In particolare il ricorrente assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione sarebbero stati individuati solo nel corso degli anni '80, per cui, precedentemente a tale data, non poteva ritenersi sussistente, né un nesso causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l'evento del contagio da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati né l'elemento soggettivo; che è errato e non motivato l'assunto apodittico secondo il quale il Ministero già dagli anni 70 sarebbe stato in grado di conoscere ed individuare tali virus;
che è errato l'assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus (epatite B), il Ministero sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri due (HIV ed epatite C), anche se ancora non conosciuti alla data dell'emotrasfusione o dell'assunzione degli emoderivati, sulla base del principio, affermato dalla sentenza impugnata, che in tema di responsabilità extracontrattuale si risponde anche dei danni non prevedibili.
Infine il Ministero, sulla base della normativa all'epoca vigente, nega che su di esso gravasse un obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei singoli casi di contagio, avendo egli solo un dovere di vigilanza complessiva e non specifica sul singolo caso.
7.1. Il motivo è infondato.
Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l'attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di emoderivati all'epoca dei fatti.
Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112).
Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
7.2. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito da Corte Cost. 22.6.2000 n. 226 e 18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell'art. 2043 c.c., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall'ari. 32 della Costituzione in collegamento con l'art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, ove ne sussistano i presupposti a norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali.
In quest'ultima ipotesi si inquadra la disciplina apprestata dalla L. n. 210 del 1992, che opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico.
Per quanto qui interessa, al fine di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno dall'indennità prevista dalla legge predetta, basta rilevare che la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura quest'ultimo, quanto alla sua entità, in relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto all'indennità sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante da infezione post-trafusionale, in una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada condiviso l'orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso tra il diritto all'equo indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., per cui nel caso in cui ricorrano gli estremi di una responsabilità civile per colpa la presenza della L. n. 210 del 1992, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il Giudice possa procedere alla ricerca della responsabilità aquiliana, senza che esista automatismo tra le due figure (mentre non è oggetto di questo ricorso il diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero cumulabili ed - in caso positivo- in quali termini).
8.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità.
Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anzichè al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacché l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.
Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.
8.2. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.
Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat).
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell'art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputaizione del "fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art. 1382, Code Napoleon "qui cause au autrui un dommage".
Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.
8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).
Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).
8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).
In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento.
Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito.
Inoltre se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale).
8.5. Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2.
Poichè l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale.
La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit.
Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perchè l'evento potesse realizzarsi.
La causalità è tuttavia accettabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato.
Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.
L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tanto vale certamente allorché all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..
Nè può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.
La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito.
Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo.
8.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.
E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.
L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.
E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno.
8.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perchè nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.
8.9. Sennonché detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale.
Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso.
In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito civile.
8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche
Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).
8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata:
"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento".
9.1. Dal principio sopra esposto in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perchè l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC (epatite B), dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poiché solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.
9.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità.
Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.
Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell'impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione.
9.3. E' infondata anche la censura relativa alla mancato accertamento dell'elemento psicologico colposo del Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il Ministero aveva l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi, l'omissione di tale condotta, integrando la violazione di un obbligo specifico, integra la colpa.
10. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assume il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto agli attori il danno morale, mentre per il combinato disposto dell'art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., sarebbe stato necessario individuare una persona fisica che potesse rispondere del reato e che la stessa fosse legata al Ministero da rapporto di dipendenza.
11.1. Il motivo è infondato.
Anzitutto va osservato che l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando rimanga ignoto l'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, sempre che sia certa l'appartenenza di quest'ultimo ad una cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di quell'attività deve rispondere (Cass. 10/02/1999, n. 1135; Cass. 21/11/1995, n. 12023).
Ne consegue che, una volta che il giudice di merito aveva accertato che il Ministero non aveva compiuto l'attività di farmacosorveglianza, cui era normativamente tenuto, tale omissione non poteva che essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale attività, risultando indifferente che poi gli stessi fossero rimasti ignoti.
11.2. In ogni caso l'infondatezza del motivo discende anche dal nuovo orientamento interpretativo dell'art. 2059 c.c., adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
12. Pertanto va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e vanno rigettati il secondo ed il terzo. Va cassata, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai principi di diritto esposti al punto 3.4.
Esistono giusti motivi per compensare per intero le spese di questo giudizio di cassazione tra A.C. ed il ricorrente Ministero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A.C. e compensa tra gli stessi le spese di questo giudizio di Cassazione. Quanto agli altri, accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso e rigetta i restanti motivi. Cassa, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008