11.04.2006 free
CORTE d' APPELLO di MILANO - (responsabilita' del personale e condotta omissiva penalmente rilevante)
§ - la condotta del personale infermieristico , portatore ex lege, di una posizione di garanzia, e' espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto e deve tendere, per l'intera durata del turno di lavoro, in ogni contesto assistenziale, ad assicurare le migliori condizioni di sicurezza psicofisico dei pazienti (indipendentemente dal loro reparto di appartenza), a prestare soccorso e ad attivarsi tempestivamente per garantire l'assistenza necessaria ai malati. In un reparto ospedaliero , specie se caratterizzato, da disservizi e carenze organizzative, non ci si puo' limitare, in buona sostanza, a tranquillizzare la paziente, senza curarsi, per oltre un'ora, di chiamare il medico di turno (che si trovava nella vicina sala-parto), per garantire l'assistenza necessaria alla stessa, lasciandola, per apprezzabile arco temporale, abbandonata a sé stessa, nella piena consapevolezza di tale abbandono.(avv.ennio grassini - www.dirittosanitario.net)
Sez. II - Sentenza del 16-12-2005
Svolgimento del processo
Per comodità espositiva appare opportuno far precedere la disamina dei fatti, oggetto del giudizio, da alcune brevi considerazioni, in ordine alla patologia di cui era affetta la p.o., alla sua sintomatologia ed agli interventi sanitari praticabili per ovviare ai rischi da essa derivanti, alla luce delle argomentazioni svolte, sul punto, nel corso del dibattimento di primo grado, dal C.T. del P.M., dott. O. e dal teste, dr. G., aiuto corresponsabile ospedaliero presso il reparto di ostetricia dell'ospedale di Lodi.
G.F. era affetta da pre-eclampsia, una delle più gravi patologie per una donna in gravidanza, in quanto idonea a provocare l'insorgenza di complicanze per il nascituro (di tipo ipossico, cioè riduzione dell'ossigenazione di tipo asfittico; riduzione della crescita; iposviluppo anche fetale) e per la madre (edema polmonare ed una serie di ulteriori complicanze sino al distacco parziale o totale della placenta). Tale ultimo rischio (il distacco della placenta), in pazienti affetti da pre-eclampsia, deve ritenersi, a giudizio del C.T. del P.M., frequente ("...tra questi rischi, quello più noto, uno di quelli più frequenti è proprio quello di un distacco intempestivo di placenta").
Tale conclusione è contrastata, invece, dal dr. G., (cfr. p. 7 trascr.) per il quale il distacco, in un quadro morboso lieve, ha le stesse probabilità (3,4-4%) di verificarsi rispetto a quello riguardante una donna gravida, non affetta da tale patologia (cfr. p. 11 e 12 trascr.). A giudizio del predetto C.T.. il distacco improvviso e totale della placenta è evento rarissimo e caratterizzato da violentissimo e persistente dolore addominale; nella maggioranza dei casi, tale distacco, avviene, invece, in modo graduale, caratterizzato da una progressione del dolore destinato ad accrescersi nel tempo ad una velocità variabile ma graduale, fino a stabilizzarsi, poi, a livelli elevati nell'arco di ore ("...una sindrome in evoluzione cioè a dire, inizia ora, ha una durata di espressione clinica via via ingravescente di un paio d'ore e poi può esitare nel distacco massivo..."). Tale conclusione è soltanto in parte condivisa dal teste dr. G. per il quale, se nell'ipotesi di distacco improvviso e totale della placenta, la morte del feto è subitanea, nei casi di distacco progressivo, tale evento si verifica, invece, nel giro di un'ora.
I sintomi del distacco della placenta sono descritti, in modo sostanzialmente coincidente, dal C.T. del P.M. (dolore, violento, di tipo fisso e non ritmico nella zona addominale pelvica, insorto rapidamente; contrazioni uterine con conseguente sovrapposizione degli andamenti dei dolori di tipo fisso e ritmico, eventuali perdite ematiche vaginali) e dal teste G. (sanguinamento vaginale, dolore addominale, tetania uterina ovvero contrattura continua dell'utero per un periodo lungo, segni di sofferenza fetale). Con riferimento all'intervento medico da praticare, nell'ipotesi di distacco della placenta, il C.T. del P.M. ha riferito che il taglio cesareo - che richiede pochi minuti in ambiente ospedaliero (e, più precisamente, 20 minuti circa, dall'inizio dell'intervento al momento in cui il bambino, estratto, è in grado di respirare autonomamente) - è certamente idoneo a impedire, ove tempestivamente praticato, la morte del feto che abbia raggiunto un grado di maturazione sufficiente per garantirgli la sopravvivenza alla nascita ed a scongiurare pericoli per la salute della madre.
Il C.T. ha inoltre aggiunto che tale intervento è tanto più efficace se praticato tempestivamente, con il manifestarsi della sintomatologia della patologia e che un eventuale ritardo accresce, invece, le probabilità di conseguenze lesive sul feto, con l'insorgere di danni cerebrali e persino della morte per asfissia ("...se il feto comincia, come accade a ciascuno di noi, se a noi manca l'ossigeno in maniera non immediata, diminuisce in questa stanza sigillata il tenore di ossigeno, cominceremmo a manifestare sofferenza per questo, cioè certamente un tempo in cui prima che intervenisse la morte si può intervenire con una...; c'è poi la situazione intermedia in cui il feto soffre e può sopravvivere se si interviene e può anche arrecare dei danni permanenti proprio di tipo atossico, perché la mancanza di ossigeno notoriamente poi è il cervello che ne soffre per primo... Nel caso della sofferenza che deriva da un distacco di placenta non c'è altro da fare che intervenire chirurgicamente e se siamo nella situazione in cui il distacco non è così drammatico, e se siamo nella situazione in cui il bambino lo intercettiamo in tempo, è concretamente possibile, come accade normalmente, salvare il bambino ed evitare che il bambino abbia dei danni"...).
Tali conclusioni sono condivise, in buona sostanza, dal dott. G. il quale ha riferito che "può essere una situazione sindromica in evoluzione che può cogliere tempestivamente e riuscire a salvare sia il bambino che la madre; ci sono situazioni invece, non rare, purtroppo, di distacchi importanti che evolvono in modo rapido e che determinano delle situazioni drammatiche, come purtroppo si è verificato in quella circostanza...". Ciò premesso, venendo ora alla vicenda oggetto del giudizio, si rileva: La mattina del 7 gennaio 2000, G.F., alla 36° settimana di gravidanza, veniva ricoverata nel reparto di ostetricia dell'Ospedale M.
In occasione della prima visita, i sanitari le riscontravano "collo conservato posteriore, chiuso, di consistenza media...; peso corporeo 59,100 Kg (+25 Kg)..., edemi declivi, PA 160/115 mmHg..." e prescrivevano esami di laboratorio, controllo cardiotocogramma, diuresi sulle 24 h. e monitoraggio della pressione arteriosa (poi effettuato alle 11, 14, 15, 19, 19,30 e 23). Proprio in considerazione della grave patologia, la donna abbisognava, quindi, di monitoraggio e di assistenza medica specialistica continuativa nel reparto in cui era ricoverata, con particolare attenzione alla pressione ed alla diuresi ("l'attenzione all'eventuale modificazione dello stato clinico, tra cui i dolori, proprio per il fatto che è possibile l'instaurarsi, in questo quadro premonitore, di complicanze anche molto gravi, sia per il feto e sia per il paziente: è importante che ogni qualsiasi tipo di variazione sintomatologica possa essere comunicata tempestivamente e tempestivamente vagliata dal personale medico..." (C.T. dr. O., p. 19 trascr.).
Il controllo cardio-tocografico (ovverosia la registrazione del battito cardiaco del feto) veniva espletato alle 10,10 e ripetuto, poi, alle ore 23,20 e non evidenziava particolari anomalie del feto. Il feto, in occasione di tale controllo, era, quindi vitale. L'esame evidenziava, tuttavia, una riduzione delle accelerazioni del battito cardiaco fetale che, ancorché non indicative di patologie, inducevano il medico, dr. G., ad anticipare l'orario del successivo controllo alle ore 3,00, rispetto a quanto previsto dal protocollo assistenziale. Verso le ore 24, la donna, lamentando difficoltà ad urinare, diarrea ed i primi disturbi addominali, si recava presso la infermeria, a breve distanza dalla propria stanza, senza rinvenire, in reparto, personale medico o infermieristico.
La paziente non faceva uso, per richiedere soccorsi, del campanello presente nella stanza e nella sala tracciati, né rinveniva, in reparto, personale infermieristico al quale chiedere soccorso. Girovagando nel predetto reparto e diretta verso la sala-tracciati, nei pressi della propria stanza, G.F., attorno alle ore 1-1.30, incontrava A.L., infermiera del (diverso) reparto di neonatologia, ubicato sullo stesso piano e corridoio di quello di ostetricia. In ordine all'orario dell'incontro, la p.o., riferiva, infatti, che lo stesso era avvenuto "intorno, più o meno, l'una o verso l'una e un quarto", ovvero, come sostenuto nel prosieguo dell'esame dibattimentale, all'1,30 circa (p. 14 trascr.). Secondo quanto riferito dalla p.o., l'infermiera, alla quale riferiva di essere "un po' agitata" e di "sentire dei dolori", tentava di tranquillizzarla dicendole "non preoccuparti, avrai incomincialo il travaglio: fa male, non preoccuparti se incominci a sentire dolori".
G., informata quindi l'interlocutrice di non essere ancora al termine della gravidanza, la sollecitava a chiamare, con urgenza, il medico ("gli ho detto di chiamare subito il medico perché ho dei problemi; la signora mi ha detto: no, no, stai tranquilla; le ho detto che dovevo ripetere il tracciato; mi ha accompagnato alla porta della sala tracciati e mi ha detto: chiamo subito il medico, così arriva, e io sono stata lì sulla porta della sala tracciato ad aspettare il medico e la signora è andata via...". Dopo l'allontanamento dell'infermiera, G.F. avvertiva un forte dolore all'addome tanto da dover aggrapparsi alla barra del letto della sala tracciati. Allarmata per l'intensificarsi del dolore, la paziente iniziava anche a tremare fino a quando, dopo qualche tempo, sopraggiungeva nella predetta sala un familiare di altra degente (non identificata) che, accortosi delle allarmanti condizioni di salute di G., iniziava ad urlare ed a chiedere soccorso.
Poco dopo, e più precisamente verso le ore 2,50-3, sopraggiungeva il dott. G. L'attesa del medico, dopo l'incontro con l'infermiera, si protraeva, quindi, - secondo il racconto della p.o. - per circa un'ora, con intensificazione dei dolori ("molto di più, cioè minimo un'ora, però era molto di più...; io mi sono trovata lì attaccata a questa barra da cui non sono più riuscita a muovermi; mi sentivo a pezzi; un dolore; cioè mi sentivo strappare le gambe; sentivo dei dolori allucinanti... Effettivamente il tempo è passato, è passato tanto, tanto, tanto. E' stato tantissimo tempo...; poi erano dolori che le assicuro allucinanti...; io avevo l'orologio, non le dico che stavo a contare i minuti, però il tempo passato era tanto...; da quando ho avvisato..., dal tempo che so erano poi le due passate, probabilmente, perché io guardavo l'orologio, continuavo a dire qua non arriva nessuno...".
Il medico - come emergente dalla cartella clinica e dalle testimonianze assunte - interveniva alle ore 2,50 circa ed annotando sul diario: "la paziente riferisce disuria e dolore addominale acuto; si riscontra ipertono uterino; non perdite ematiche vaginali in atto; non si riscontra attività cardiaca fetale né MAF alla valutazione cardiografia ed ecografia. Probabile DPNI (distacco intempestivo di placenta normo-inserita) con morte endouterina fetale. Si decide per taglio cesareo...". La morte del feto, dovuta al distacco della placenta, già in atto al momento dell'arrivo del dr. G., veniva, quindi, accertata alle 2.50 circa. La paziente veniva condotta in sala parto alle h. 2,55. L'intervento chirurgico, per taglio cesareo, iniziato alle h. 3,40 si concludeva alle h. 435. Il feto veniva estratto premorto alle h. 3,45 (dopo circa 50 minuti dall'inizio del trasferimento della paziente in sala-parto). G.F. veniva, quindi, trasferita nell'unità operativa di terapia intensiva ove permaneva fino alle dimissioni, avvenute il 15 gennaio 2000, con diagnosi di "distacco intempestivo placenta normoinserita, MEF, pre-eclampsia lieve".
Il C.T. del P.M. accertava che la causa della morte endo-uterina del feto di G.F. era da ascriversi al distacco intempestivo di placenta normoinserita, verificatosi nella notte tra l'8 ed il 9 gennaio 2000, con conseguente anossia "per interruzione del flusso ematico materno-placentare". Non veniva eseguito l'esame autoptico del feto.
Alla luce della sintomatologia manifestata dalla p.o. (e dalla stessa descritta in udienza e prima ancora al dott. G.), il C.T. del P.M., dr. A.O., riteneva che il distacco della placenta in questione fosse avvenuto non in modo improvviso, ma progressivo. Nel periodo successivo, il dr. G. segnalava l'accaduto (ritardo assistenziale) al direttore dell'ASL sottolineando che se fosse venuto a conoscenza tempestivamente dei dolori addominali lamentati dalla paziente "probabilmente l'evoluzione sarebbe stata favorevole".
All'esito delle indagini preliminari, l'infermiera "al nido ospedaliero", A.L., veniva tratto a giudizio, con rito ordinario, innanzi al Tribunale di Lodi per rispondere dei reati di cui agli artt. 17 l. n. 194/1978 e 590 c.p. Nel corso dell'esame dibattimentale, l'imputata respingeva gli addebiti, ammettendo di avere incontrato, nottetempo, nel reparto dell'ospedale, nei pressi della sala-tracciati, G.F. che lamentava dolori all'addome. Aggiungeva di avere assicurato la paziente che sarebbe andata a chiamare il medico di turno e di avere, quindi, contattato, all'uopo, immediatamente, il dott. G., in sala parto. Il dr. G., a sua volta, confermava di essere stato avvisato dall'imputata, precisando di essersi recato immediatamente nella sala-tracciati e di avere sottoposto a visita la paziente, constatando il decesso del feto, per asfissia.
Con sentenza in data 29 ottobre 2004, il Tribunale dichiarava A.L. colpevole del reato di cui all'art. 17 l. n. 194/1978 e, con la concessione delle attenuanti generiche, la condannava alla pena, sospesa, di mesi 6 di reclusione; assolveva, inoltre, l'imputata dalla residua imputazione, ex art. 590 c.p., perché il fatto non sussiste. Rilevava, tra l'altro, il Giudice di primo grado che: - il distacco della placenta di G.F. era avvenuto in modo progressivo, evolvendosi nell'arco di qualche ora, dopo le h. 24: alle ore 23,20 il feto era, infatti, vivo; i primi dolori erano stati avvertiti dalla paziente verso le h. 24 ed erano aumentati di intensità sino a raggiungere livelli elevati verso le ore 2; alle ore 3 il feto era morto; - la parte lesa aveva informato l'infermiera A., attorno alle ore 1-1,15, dei dolori provati, richiedendo l'intervento di un medico; - l'imputata aveva, però, tardato ad avvisare il dott. G. (giunto soltanto alle h. 3 circa) dell'emergenza insorta in reparto; - la condotta omissiva dell'imputata si poneva in rapporto eziologico con l'evento dal momento che se la stessa avesse provveduto ad avvisare immediatamente il medico, l'evento morte del feto non si sarebbe verificato: con l'immediato taglio cesareo della paziente, possibile in tempi brevi, si sarebbe potuto impedire la morte del feto, con alto grado di probabilità logica e razionale.
Proponeva appello il difensore dell'imputata chiedendo, previa eventuale rinnovazione del dibattimento (per lo espletamento di perizia medico-legale "sulle cause, responsabilità, tempi e rimedi idonei a evitare l'evento oggetto del procedimento"), l'assoluzione di A.L. dal reato ascrittole perché il fatto non sussiste ovvero non costituisce reato, anche ai sensi dell'art. 530 cpv. c.p.p. Con articolati motivi di gravame, l'appellante deduceva:
1. la carenza di nesso eziologico tra la tardiva segnalazione, addebitata all'imputata (infermiera generica in servizio presso reparto diverso rispetto a quello in cui era stata ricoverata la p.o.) e la morte del feto, accertato alle h. 3 meno 10, ma già in atto, verosimilmente, dopo le h. 2, addebitarle a difetto di monitoraggio del personale del reparto di ginecologia;
Ed invero:
non vi era prova alcuna che una tempestiva diagnosi avrebbe evitato l'evento, come riconosciuto dallo stesso C.T. del P.M., in sintonia con quanto dichiarato dal dr. G.; ove anche fosse stato possibile intervenire un'ora prima dell'arrivo del dr. G. (h. 2,50/3), ugualmente non si sarebbe evitata la morte del feto poiché il cesareo (unico rimedio concordemente prospettato) avrebbe richiesto oltre 1 ora e mezzo (dalle 3 alle 4,35); parimenti non vi era prova alcuna che il feto non fosse già morto prima, o poco dopo, l'incontro tra la p.o. e l'imputata;
2. Il difetto di nesso causale, per mancanza di prevedibilità e di conoscenza, da parte dell'imputata, delle specifiche condizioni patologiche in cui versava la sig.ra G. Ed invero: - l'imputata non era stata informata della sintomatologia della p.o.; - il rischio (distacco-placenta) non era prevedibile e valutabile dall'A., infermiera di altro reparto; - la p.o. non aveva neppure azionato il campanello di allarme e di soccorso presente in ogni camera, nelle stanze e nei corridoi; 3. il difetto di colpa. Ed invero:
- il distacco della placenta ed il rischio di morte del feto era prevedibile dai sanitari del reparto ginecologia, ma non dall'A., infermiera di altro reparto, non informata delle condizioni della paziente, occasionalmente soccorsa; - non era da escludere che l'incontro, tra l'imputata e la p.o., fosse avvenuto dopo le h. 2, sicché tempestiva e non tardiva sarebbe stata, in tal caso, la chiamata del dr. G., effettuata alle h. 2,50: il tempo di soccorrere la paziente, metterla a letto e di chiamare il medico, impegnato in sala parti; - se l'incontro fosse, invece, avvenuto all'1,30, quando ancora la paziente era in piedi, camminava, non manifestava forti dolori ma solo fastidi e lievi dolori addominali, una eventuale omissione di chiamata non avrebbe integrato colpa poiché l'imputata ignorava le condizioni patologiche della G.; 4. l'inverosimiglianza delle dichiarazioni della p.o. sull'orario dell'incontro, avendo quest'ultima ammesso che, subito dopo il colloquio, l'infermiera si era diretta verso la sala-parto per cercare il personale del reparto ed essendo, quindi, probabile che, in realtà, l'intervallo di tempo tra l'incontro con l'A. e l'arrivo del medico fosse stato minimo;
5. il mancato espletamento di una perizia medico-legale per verificare se l'evento-morte non si sarebbe verificato, nell'ipotesi in cui l'A. avesse avvisato prontamente il medico, alle prime manifestazioni sintomatiche. All'odierna udienza, celebrata in presenza di A.L., all'esito della discussione, il P.G. ed il difensore rassegnavano le conclusioni di cui al verbale in atti.
Motivi della decisione
I motivi di appello proposti da A.L. sono fondati e meritano accoglimento, per quanto di ragione. Le (scarne) risultanze istruttorie acquisite, se consentono, invero, di ritenere acclarata la condotta colposa addebitata all'imputata, non forniscono la certezza del nesso eziologico tra l'azione antidoverosa dell'appellante e l'evento dannoso (alla stregua dei criteri di valutazione indicati dalla S.C a sezioni unite, con la sentenza n. 30328/2002).
E valga il vero!
A) Sulla azione doverosa omessa: E' pacifico in atti che il dr. G., informato dall'imputata, è intervenuto, in soccorso della paziente, alle h. 2,50 circa. Vi è, invece, divergenza, sull'orario in cui si è svolto, nottetempo, l'incontro, nella sala-tracciati del reparto ginecologia del nosocomio di Lodi, tra A. e G., caratterizzato dalle pressanti richieste di soccorso sanitario, avanzate dalla paziente. La p.o., ha, invero, collocato temporalmente l'insorgenza dei primi disturbi in orario prossimo alle h. 24 ed il drammatico colloquio con l'infermiera A. all'una, l'una e trenta minuti dell'8 gennaio 2000, precisando di essere rimasta, quindi, abbandonata a sé stessa, prima di ricevere i necessari soccorsi, per oltre un'ora.
L'imputata, negando, invece, qualsiasi ritardo nella segnalazione dell'urgenza sanitaria al dr. G., ha, in buona sostanza, riferito che l'incontro con G. sarebbe, invece, avvenuto, in orario prossimo alle h. 2,50 e, più precisamente, immediatamente prima dell'arrivo del medico ("non so... l'ora, perché in quel momento lì... non avevo neanche l'orologio..., so che erano le prime ore del mattino; ...sono andata direttamente (dal dr. G.; n.d.e.) e infatti è venuto subito dietro a me perché ha capito l'importanza della cosa e allora lì ha visto la signora e si sono messi subito a prendere le, diciamo, le precauzioni e si sono preparati: poi io mi sono allontanata dal reparto perché non è il mio reparto...". Per dirimere il contrasto tra le due contrapposte versioni non sono certamente di aiuto le dichiarazioni rese dagli altri testi escussi in dibattimento, prive di indicazioni sull'orario dell'incontro A.-G.
Dalle deposizioni rese dai testi G., C. e Ga. emerge, infatti, unicamente, la conferma dell'orario in cui quest'ultimo avrebbe ricevuto notizia, da A.L., delle gravi condizioni di salute di G.F. e si sarebbe recato a prestarle soccorso (C.: "...quella notte c'erano diverse donne che stavano partorendo ed ho prestato la mia assistenza in sala parto continuativamente...; ...ho visto l'A. che è entrata; è andata dal dottor G...; è uscito; mi ricordo che è uscito, quando mi sono girata., ...dopo un minuto. Si la L. è entrata ed è uscito. Si, c'era il medico che l'ha seguita. Allora l'ora, su per giù, erano... le 3 meno 5...; su per giù era appena nato il bambino perché io lo avevo appena preso, comunque quando è entrata l'A."; G.: "mi ha riferito la notizia la signora L.A., alle ore, per essere preciso, perché questo lo ricordo perfettamente perché è una circostanza che ha coinciso con la nascita di un figlio; erano le due e cinquantacinque dell'otto di gennaio..."; Ga.: "io lì ero in sala parto...; ho visto entrare la signora A., parlare con il medico, ma io non ho capito cosa gli stesse dicendo e ho visto il dottor G. uscire con la signora A...; un paio di minuti dopo, il dottor G. è rientrato in sala parto ordinando alla signora I., l'infermiera che era lì con me, di preparare una flebo elettrolitica... ed è riuscito; ...pensando che stesse succedendo qualcosa in corsia, ho lasciato lì la donna che aveva appena partorito con l'infermiera e mi sono recata in corsia anche io... E lì ho visto che e 'era la signora G. che stava male...").
Il contrasto tra le due differenti narrazioni può trovare, tuttavia, agevole soluzione ove solo si tenga presente che: a) non vi è ragione alcuna, processualmente accertata, per negare affidabilità al preciso, reiterato ed articolato racconto, della p.o. la quale, neppure costituita parte civile nel procedimento a carico dell'imputata, ha rievocato in dibattimento la complessiva vicenda, con ricchezza di contenuti descrittivi, senza enfasi, animosità, discordanze o contraddizioni, con interna coerenza e razionale collocazione cronologica, indicando fin anche i motivi dai quali ha tratto certezza sull'indicato orario del drammatico incontro con l'imputata; b) la versione dell'appellante, chiaramente animata da intenti difensivi è, invece, totalmente carente di prova, evidenziando, fin anche, zone d'ombra (proprio con riferimento all'orario dell'incontro con la p.o. ed alla richiesta di soccorso indirizzata al dr. G.), suggerite, evidentemente, dalla preoccupazione di escludere il proprio ruolo nella vicenda e di coprire, per reconditi motivi, implicazioni di terzi;
c) il racconto di A. sull'orario dell'incontro con la p.o. mal si concilia, poi, con l'evoluzione del quadro morboso della vittima, concluso con la morte del feto, accertata alle h. 2.50, ma già in atto, con elevata probabilità, prima dell'arrivo del dr. G. Se, invero, G.F., in occasione dell'incontro con l'imputata (asseritamente avvenuto pochi minuti prima dell'arrivo del dr. G.), appariva ancora in discrete condizioni di salute, era disponibile al colloquio con l'infermiera, era più preoccupata di arrecare disturbo, con le proprie lamentele, agli altri pazienti del reparto che delle condizioni di salute proprie e del nascituro ("...si sentiva un po' impacciata perché non voleva disturbare nessuno...") e lamentava - come evidenziato dalla stessa A. - soltanto lievi dolori addominali (- indicativi, quindi, di un esordio della sintomatologia, non ancora giunta nella fase terminale -), resta privo di qualsiasi giustificazione il fatto che il dr. G. - ove sopraggiunto soltanto pochi minuti dopo il predetto incontro - si sia, invece, imbattuto in una paziente che presentava, invece, un quadro clinico drammatico, con lancinanti e persistenti dolori addominali ed abbia inoltre constatato l'intervenuta morte del feto;
d) l'evoluzione della situazione clinica della paziente, caratterizzata, come riferito dal C.T. del P.M., dal graduale distacco della placenta e destinata ad evolversi nell'arco di un "paio d'ore", appare, invece, pienamente compatibile con il racconto di G.F. Per le considerazioni innanzi svolte, deve allora ritenersi accertato che l'incontro tra A. e G. sia avvenuto nell'orario (h. 1-1.30) indicato dalla p.o. e che, conseguentemente, l'imputata abbia negligentemente omesso, di attivarsi per almeno un'ora e venti minuti, informando il dr. G. delle gravi condizioni di salute della paziente, abbandonata, in tale arco temporale, a sé stessa. Grave appare, quindi, la condotta omissiva dell'imputata, portatrice ex lege, di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto e tenuta, per l'intera durata del turno di lavoro, in ogni contesto assistenziale, ad assicurare le migliori condizioni di sicurezza psicofisico dei pazienti (indipendentemente dal loro reparto di appartenza), a prestare soccorso e ad attivarsi tempestivamente per garantire l'assistenza necessaria ai malati (art. 3.6 del codice deontologico).
L'imputata, in un reparto ospedaliero già caratterizzato, all'epoca del fatto oggetto del giudizio, da disservizi e carenze organizzative ad essa noti (per l'assenza, ancorché precaria, nel reparto di ginecologia, del medico di guardia notturno e di tutto il personale paramedico), sebbene allertata dalle pressanti invocazioni di soccorso della G. e dalle sue preoccupazioni per le proprie condizioni di salute, reiteratamente ed in maniera allarmante prospettate, si è limitata, in buona sostanza, a tranquillizzare la paziente, senza curarsi, per oltre un'ora, di chiamare il medico di turno (che si trovava nella vicina sala-parto), per garantire l'assistenza necessaria alla p.o., lasciandola, per apprezzabile arco temporale, abbandonata a sé stessa, nella piena consapevolezza di tale abbandono.
Tale consapevolezza emerge, in modo prorompente, non soltanto dalle dichiarazioni della p.o. ma dalle stesse ammissioni dell'imputata. G.F. ha, invero, riferito di avere informato l'infermiera delle proprie gravi condizioni di salute e di averla sollecitata a chiamare un medico ("...la sera, quando ho visto che avevo difficoltà a fare pipì, tra l'altro facevo ancora un pochino fatica a respirare..., avevo anche un po' di problemi insomma di pancia eccetera che avevo diarrea, non mi sentivo tanto informa, ...intorno a mezzanotte... sono andata a vedere nel locale infermiere se c'era qualcuno...; ho proseguito per il corridoio... non ho visto niente di personale; tornando verso la sala-tracciati, era più o meno l'una o verso l'una e un quarto; ho visto questa persona...; l'abbiamo chiamata, dato che non facevo la pipì, solo che ero un po' agitata perché, tra l'altro, cominciavo a sentire dei dolori... La signora mi ha detto: no, no, stai tranquilla... mi ha accompagnato alla porta della sala tracciati e mi ha detto: chiamo subito il medico, così arriva: e io sono stata lì sulla porta della sala-tracciato ad aspettare il medico e la signora è andata via, presumo ad avvisare... Il medico penso sia arrivato un'ora dopo, non so due ore dopo, non mi ricordo, tempo dopo, io penso sia stato intorno alle 3; sono stata ad aspettare un sacco di tempo finché una persona è entrata nella sala tracciati, una esterna; si è messa ad urlare arrabbiatissima questa signora...; il dr. G. (è giunto) ore dopo, ore dopo, questo sicuro da quando la signora è andata ad avvisare...; io l'ho vista uscire, non è rimasta lì ferma... cioè io l'ho vista andare la signora. Dal tempo (in cui si è allontanata: n.d.e.)... erano poi le due passate probabilmente Io guardavo l'orologio, continuavo a dire qua non arriva nessuno..., mi mancava proprio il fiato..., avevo un affanno incredibile, infatti ho avuto anche difficoltà a rispondere a quella signora...");
L'imputata ha, in buona sostanza, ammesso di avere chiaramente percepito la situazione di pericolo prospettata dalla paziente ("...l'ho vista che si lamentava, mi sono avvicinata... e mi ha detto che accusava dolori all'addome...; l'ho accompagnata a letto...; gli ho detto: guardi che vado a chiamare il medico, difatti mi sono allontanata subito"). Appare, pertanto, pienamente provata la sussistenza di una condotta assolutamente omissiva dell'imputata.
B) Sul nesso di causalità:
Acclarata la condotta omissiva dell'imputata, resta da verificare, con giudizio controfattuale, ispirato a criteri di probabilità logica, se l'evento-morte si sarebbe potuto evitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, se l'infermiera A., acquisita consapevolezza (alle h. 1,30 circa) delle gravi condizioni di salute della paziente, avesse avvisato il medico di turno, non già dopo oltre un'ora, come avvenuto, ma immediatamente, per consentirgli di praticare, con urgenza, il parto cesareo, unico rimedio idoneo, secondo la letteratura scientifica, ad impedire, ove tempestivamente praticato, la morte, per asfissia, del feto (avente un sufficiente grado di maturazione) e scongiurare pericoli per la salute della madre. Per rispondere al quesito, è necessario tenere presente che:
- il distacco graduale della placenta, patito dalla p.o., è. di regola, caratterizzato, come riferito dal C.T. del P.M., da una sindrome in evoluzione "cioè a dire, ora, ha una durata di espressione clinica, via via ingravescente di un paio d'ore e poi può esitare nel distacco massivo..."; - in tal caso, l'unico intervento medico da praticare, per impedire la morte, per asfissia, del feto è il "taglio cesareo" che, in adeguato ambiente ospedaliero, consente, normalmente, in "venti minuti, grosso modo", di estrarre il feto dall'utero materno e di farlo autonomamente "respirare con le sue vie respiratorie" (C.T. del P.M., dr. O.);
- nel caso di specie, la morte del feto è stata "accertata" dal dr. G., alle h. 3 circa dell'8 gennaio 2000; - l'incontro di G. con l'infermiera A. è avvenuto, come innanzi indicato, alle h. 1,30 circa della medesima giornata; - alle h. 23,30 del 7 gennaio 2000, il feto era, invece, vivo e vitale, come avvalorato dal tracciato cardiotocografico in atti. In breve, secondo quanto riferito dal predetto consulente tecnico, per scongiurare l'evento-morte, oggetto del giudizio, era indispensabile, nell'arco di circa 2 ore, dall'inizio del distacco della placenta, intervenire chirurgicamente, per estrarre il feto e consentirgli di respirare autonomamente. Orbene, le risultanze istruttorie acquisite non consentono di ritenere provato che una tempestiva segnalazione delle gravi condizioni di salute di G.F., da parte dell'imputata al medico di turno (dr. G.), avrebbe potuto evitare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la morte del feto.
Non vi è, infatti, certezza alcuna sul dato temporale afferente all'esordio della sintomatologia addominale della paziente, evolutasi, tragicamente, nell'arco di un "paio di ore". E', del resto, soltanto ipotizzabile che il distacco (graduale) della placenta della p.o. abbia avuto inizio, attorno alle h. 24 dell'8 gennaio 2000, con l'insorgere delle difficoltà urinarie, associate ai primi dolori addominali e diarrea, descritti da G.F. nel corso del proprio esame dibattimentale (cfr. p. 2 della sentenza impugnata) e sia giunto, nella fase acuta, nell'arco temporale compreso tra l'incontro della paziente con l'imputata (h. 1,30) e l'arrivo del dr. G. (h. 2.50), caratterizzato da lancinanti dolori addominali.
E' parimenti soltanto ipotizzabile, in pari misura, che l'esordio della predetta sintomatologia, tenuto conto della (normale) durata (di circa 2 ore) della sua evoluzione e del (presumibile) orario della morte del feto, sia, invece, intervenuto nel (vasto) arco temporale compreso tra le h. 24 del 7 gennaio 2000 e le h. 0,50 dell'8 gennaio 2000. Neppure vi è certezza alcuna sull'orario della morte del predetto feto, acclarata dal dr. G. alle ore 2,50, ma già in atto, con elevata probabilità, in orario antecedente al predetto accertamento. Alla luce dello scarno quadro probatorio acquisito, non può ritenersi, quindi, provato che il rimedio del taglio cesareo, ancorché effettuato immediatamente dopo l'incontro di A. con G. (h. 1,30 circa), avrebbe impedito la morte del feto.
Appaiono pertanto pienamente condivisibili le corrette conclusioni alle quali è pervenuto il C.T. del P.M., dr. O.: "non abbiamo la certezza che, di fatto, la diagnosi più tempestiva avrebbe salvato la vita del feto, comunque, certamente gli avrebbe consentito concrete chances di sopravvivenza. In realtà, come abbiamo visto, non sappiamo quando esattamente avvenne il decesso: sappiamo dai tracciati cardiotocografici che alle h. 23,30 era vivo e che non presentava chiari segni di sofferenza fetale e che poche ore dopo, alle 3 del giorno successivo, era morto. Ciò naturalmente non consente neppure di affrontare lo sdrucciolevole argomento delle percentuali di sopravvivenza: andare oltre all'affermazione che secondo la scienza e l'esperienza medica ce ne erano, sarebbe un azzardo medico-legale e logico. Ignorando il dettaglio cronologico esatto del distacco della placenta non possiamo neppure sapere se il tempo trascorso tra l'esordio della sintomatologia e la morte del feto sarebbe stato sufficiente alla esecuzione di un taglio cesareo".
Non può ritenersi, quindi, provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sussistenza del nesso eziologico tra la grave condotta omissiva dell'imputata e l'evento-morte. Si impone, pertanto, l'assoluzione di A.L. dal reato ascrittole, ex art. 530 cpv. c.p., perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
V. gli artt. 605 e 530 cpv. c.p.,
in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Lodi, in data 29 ottobre 2004, appellata dall'imputata, A.L.,
assolve
la medesima dall'imputazione ascrittale, perché il fatto non sussiste.
Indica, per il deposito della motivazione, il termine di giorni 50.
Così deciso in Milano il 5 dicembre 2005.
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2005.