07.05.03 free
TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA -(sul rigetto della richiesta di compenso per lavoro straordinario e sul conseguente accoglimento della domanda di ingiustificato arricchimento)
TRIBUNALE DI REGGIO CALABRIA
proc. n. 97/2001
PROSECUZIONE DEL VERBALE D’UDIENZA DEL 16/10/2002
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ex art. 281 sexies c. p. c.
I ricorrenti , dipendenti dell’ASL n. 11, nel presupposto di avere, alcuni nel 1998, altri nel 1999, svolto lavoro straordinario, indispensabile per garantire la continuità del servizio, e che non tutte le ore di straordinario sono state retribuite, chiedono il compenso per tale lavoro straordinario e, in subordine, agiscono per l’indebito arricchimento.
Si è costituita in giudizio l’ASL n. 11, deducendo l’insussistenza del diritto, per violazione dell’art. 34 commi 2 e 3 del CCNL ’98-01 Comparto Sanità , violazione degli artt. 97, 98 e 81 della Costituzione. Ha chiesto pertanto il rigetto dei ricorsi.
Le domande di adempimento, avente ad oggetto il compenso per lavoro straordinario, vanno rigettate.
Infatti, sono stati violati i limiti previsti dal CCNL Comparto Sanità che, all’art. 34, dispone: “1. Il lavoro straordinario non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione del lavoro. 2.Le prestazioni di lavoro straordinario hanno carattere eccezionale devono rispondere ad effettive esigenze di servizio e devono essere preventivamente autorizzate dal dirigente responsabile. Le parti si incontrano almeno tre volte l’anno per valutare le condizioni che ne hanno resa necessaria l’effettuazione. 3. …. L’utilizzo delle risorse all’interno delle unità operative delle predette articolazioni aziendali è flessibile ma il limite individuale per il ricorso al lavoro straordinario non potrà superare, per ciascun dipendente, n. 180 ore annuali. 4. I limiti individuali del comma 3 potranno essere superati – in relazione ad esigenze particolari ed eccezionali – per non più del 5% del personale in servizio e, comunque, fino al limite massimo di n. 250 ore annuali”.
Nelle fattispecie in oggetto, sono stati violati : a) il comma 2 –che esige la preventiva autorizzazione del dirigente responsabile per l’effettuazione di lavoro straordinario – ; b) il combinato disposto dei commi 3 e 4, a norma del quale il limite individuale di n. 180 ore annuali può essere superato solo in presenza di esigenze particolari ed eccezionali e per non più del 5% del personale in servizio; c) per alcuni dei ricorrenti, è stato violato il comma 4 che vieta di superare, comunque, il limite massimo di n. 250 ore annuali.
Siffatte violazioni comportano l’inaccoglibilità dell’azione contrattuale di adempimento.
Si potrebbe obiettare che la violazione dei limiti contrattuali non osta all’accoglimento dell’azione contrattuale, in quanto si tratta di limiti posti nell’interesse degli stessi lavoratori-ricorrenti e, in quanto tali, solo da essi (dipendenti) opponibili. Obiezione , questa, che troverebbe un preciso riferimento normativo nell’art. 2126 comma 2, a norma del quale “se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.
Ora, se si trattasse di norme concepite in relazione ad un rapporto di lavoro con un datore privato, in un ambito quindi di esercizio della libertà di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 della Costituzione, le norme contrattuali richiamate ben potrebbero (probabilmente, dovrebbero) essere lette come volte a disciplinare i limiti del potere del datore (di fare ricorso al lavoro straordinario) nell’esclusivo interesse dei dipendenti. Si sarebbe portati insomma a leggere le norme de quibus come le ordinarie norme di relazione. La conseguenza sarebbe che i limiti stabiliti potrebbero essere invocati solo dai lavoratori; ad esempio, per giustificare un loro rifiuto ad effettuare lavoro straordinario. Ma non potrebbe essere opposti dal datore per rifiutare il pagamento delle prestazioni, dopo la loro effettuazione. E ciò in conformità con quanto previsto dall’art. 2126 comma 2 c. c.
Tale lettura però, ad avviso di questo Giudice, appare parziale se si tiene conto della natura pubblica del datore, e del fatto che il rapporto di lavoro è soggetto alla disciplina del pubblico impiego contrattualizzato (ci si trova infatti in presenza di un’Amministrazione pubblica, ai sensi del comma 2 dell’art. 1 TUPI). Ora, nel rapporto di pubblico impiego privatizzato viene in rilievo l’art. 97 della Costituzione, richiamato espressamente dall’art. 1 comma 1 del TUPI. E l’attività del datore pubblico è soggetta a ben determinate finalità, descritte in via generale dagli artt. 1 , 2 e 5. L’art. 1 parla del fine di “a) accrescere l’efficienza delle amministrazioni..; b) razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica; c) realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni..”. Nell’art. 2 vi è esplicito riferimento al criterio di “funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza ed economicità…; d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa..”.
Quanto appena detto pone , nel pubblico impiego privatizzato, un problema non avvertibile nel contesto di un rapporto di lavoro con il datore privato: quello di verificare se i limiti, posti dalle norme che regolano il rapporto di lavoro, siano posti solo a tutela dell’interesse del lavoratore o anche (o esclusivamente) nell’interesse dell’amministrazione pubblica ; in altri termini, se ci si trovi di fronte a norme di relazione o a norme di azione.
Le une (norme di relazione) disciplinano le rispettive situazioni giuridiche della parti in maniera , in linea di principio, perfettamente simmetrica: sì che il limite posto all’azione di una parte (l’amministrazione) si risolve in un correlativo diritto (in un ampliamento della sfera giuridica) dell’altra (lavoratore).
Diversamente, le norme di azione tendono a disciplinare l’azione di una parte (l’amministrazione) a tutela dell’interesse della parte stessa o comunque a tutela di un interesse oggettivato, che funge da scopo al quale l’attività deve conformarsi; sì che il limite posto all’azione di una parte si risolve, all’opposto di quanto avviene nelle norme di relazione, in un limite anche al diritto della controparte.
Dunque, nella seconda ipotesi - limiti posti anche (o solo) a tutela dell’interesse oggettivo dell’amministrazione e quindi norma di azione -, è consequenziale che i limiti all’azione dell’amministrazione siano opponibili anche dall’amministrazione stessa e non dai soli lavoratori.
Per appurare se ci si trovi di fronte a norme di azione o di relazione, appare congruo adottare un criterio funzionale, attento cioè alla considerazione degli interessi che la norma mostra di voler proteggere. Più precisamente, è agevole avvedersi che la diversa struttura delle norme (di azione e di relazione) riflette la diversità degli assetti di interessi. In sostanza, la struttura simmetrica delle norme di relazione , così come la struttura asimmetrica delle norme di azione, non sono che il riflesso di una correlativa simmetria e asimmetria funzionale.
Ad esempio, il comma 2 dell’art. 34, nel momento in cui dispone che le prestazioni di lavoro straordinario devono rispondere ad effettive esigenze di servizio e devono essere preventivamente autorizzate dal dirigente responsabile, non intende tanto – o solo – dare un’ulteriore garanzia al lavoratore – il quale quindi può rifiutarsi di rendere lavoro straordinario in mancanza di preventiva autorizzazione – quanto salvaguardare l’interesse pubblico.
Nella fattispecie in esame, reputa questo giudice che alcune delle disposizioni siano norme miste, ossia di norme che, al tempo stesso, disciplinino le rispettive situazioni giuridiche delle parti del rapporto di lavoro (e quindi sono norme di relazione) e regolamentino l’azione dell’amministrazione nell’interesse dell’amministrazione medesima (e pertanto sono norme di azione). Cosicché i limiti fissati dall’art. 34 CCNL sono stabiliti nell’interesse sia del lavoratore sia dell’amministrazione.
Altre sono norme di azione (ad es. il comma 4 nella parte in cui fissa il limite del 5% del personale in servizio). Comunque, i limiti contrattualmente fissati sono opponibili in entrambe le ipotesi dall’amministrazione.
Sicché in caso di violazione di norme miste i dipendenti possono rifiutarsi di prestare lavoro straordinario– e con ciò si supera l’argomentazione proposta da parte ricorrente –; per esempio, in mancanza di preventiva autorizzazione del dirigente responsabile, oppure per violazione del limite massimo di cui al comma 4.
Si potrebbe allora obiettare che la violazione di limiti contrattuali non può comunque, ai sensi dell’art. 2126 comma 2 c. c., “produrre effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”.
Il principio desumibile dall’art. 2126 comma 1 è però da ritenersi superato, nel pubblico impiego contrattualizzato, da quello evincibile dall’art. 40 TUPI che, al comma 3, dispone che le clausole dei contratti collettivi integrativi difformi rispetto ai contratti collettivi nazionali sono nulle e non possono essere applicate.
Ora, appare sicuramente utilizzabile l’argomento a fortiori, nel senso che se la difformità delle clausole di uno strumento istituzionalizzato, come il contratto integrativo, che siano difformi rispetto ai contratti collettivi nazionali sono colpite da nullità e inapplicabilità, a maggior ragione deve ritenersi che identica sorte debba essere riservata ai comportamenti di fatto che si pongano in violazione dei vincoli risultanti dai contratti nazionali.
Ciò che a questo punto va rimarcato è che la norma non si limita a prevedere la nullità delle clausole difformi, ma stabilisce che esse “non possono essere applicate”.
Questa disposizione sarebbe del tutto superflua (l’inapplicabilità essendo consequenziale alla nullità) se non fosse intesa in stretta relazione all’art. 2126 comma 1 c. c. L’art. 40 comma 3 TUPI acquista senso solo nel presupposto della sussistenza del principio di cui all’art. 2126 comma 1, ed in vista del suo superamento. Se il legislatore ha avvertito l’esigenza di affiancare alla sanzione della nullità quella della inapplicabilità delle clausole difformi dal contratto nazionale, il motivo di ciò non può che essere rinvenuto nell’intento di superare il principio dell’art. 2126 comma 1 c. c., cioè proprio del principio che dispone l’applicazione del contratto nullo, per il periodo in cui ha ricevuto esecuzione.
Dunque: il comma 2 dell’art. 2126 c. c. non trova applicazione nella fattispecie, dal momento che si tratta di norma (anche) di azione. Il comma 1 del medesimo articolo non si applica in quanto superato dal principio, che si pone come speciale, evincibile dall’art. 40 comma 3 TUPI.
L’azione contrattuale di adempimento va pertanto rigettata.
Occorre ora esaminare la domanda di arricchimento senza causa.
Giova premettere alcune osservazioni. Nel settore del pubblico impiego – e tale è , per espresso disposto dell’art. 2 D. Lg. vo n. 29/93 , quello delle aziende sanitarie – , per consolidata giurisprudenza, il requisito dell’effettivo arricchimento , ai fini dell’azione di cui all’art. 2041 c. c., è sostituito dal riconoscimento dell’utilità da parte dell’amministrazione. Dunque, il riscontro che il giudice è chiamato a compiere deve riguardare non l’arricchimento , nella sua materialità, ma l’apprezzamento, il gradimento da parte dell’amministrazione. Il dato oggettivo dell’arricchimento viene mediato da un dato valutativo. Ciò induce a tenere conto, in sede di quantificazione anche della prohibitio del dominus o comunque del giudizio di disvalore manifestato dal dominus in sede di contrattazione nazionale, nell’art. 34 CCNL.
Ora, tale prohibitio e tale giudizio di disvalore non possono, siccome astratti e preventivi , far venir meno l’apprezzamento successivo e concreto posto in essere dal dirigente, e quindi non possono spezzare il nesso tra prestazione lavorativa ed utilità e dunque incidere sull’an dell’arricchimento; possono , però, incidere in sede di determinazione del quantum. Proprio in quanto viene in rilievo un apprezzamento ad opera dell’amministrazione, e non solo o non tanto dell’arricchimento nella sua materialità, non può non tenersi conto , nella quantificazione, dell’apprezzamento preventivamente effettuato dal dominus. Occorre considerare che la valutazione del dominus (ossia, l’amministrazione) , beneficiario sostanziale, propriamente è solo quella concretizzatasi nel contratto collettivo. Anche se non può certo essere posto nel nulla il riconoscimento dell’utilità da parte del dirigente, essendo questo il soggetto legittimato alla gestione del rapporto di lavoro.
E’ necessario inoltre tenere ben presente quanto prima detto in ordine alla natura di norme d’azione, volte cioè a disciplinare l’azione dell’amministrazione, in modo da tutelare l’interesse pubblico (in particolare, l’interesse al controllo delle spese ed al rispetto dei vincoli di bilancio).
Da ciò si evince che, nel momento stesso in cui la norma contrattuale pone dei limiti (al ricorso al lavoro straordinario), sino a giungere ad una vera prohibitio al comma 4, manifesta un apprezzamento negativo, un giudizio di disvalore , da parte dell’amministrazione-agente contrattuale, nei confronti dei comportamenti che tali limiti disattendano. Disvalore che si accresce a misura che vengono ad essere violati limiti via via più rigorosi.
Ed allora, affinché tutti questi elementi incidano – come è necessario che sia – nella valutazione della presente fattispecie, non vi è altra soluzione che quella di ritenere , per un verso, che il giudizio di disvalore, espresso nel CCNL, non possa spezzare il nesso tra prestazione lavorativa ed utilità dell’amministrazione e quindi non possa incidere sull’an dell’azione di ingiustificato arricchimento; e, per l’altro verso, che tale giudizio di disvalore debba però incidere in sede di quantificazione dell’arricchimento.
Se l’indebito deve essere determinato nella minor somma tra arricchimento ed impoverimento, e se, nei confronti della pubblica amministrazione, il requisito dell’arricchimento è sostituito dal riconoscimento dell’utilità, nel valutare il gradimento dell’amministrazione deve tenersi conto anche dell’apprezzamento preventivamente espresso in sede contrattuale, tanto più in quanto – come già detto – è questo l’apprezzamento proveniente direttamente dal dominus, beneficiario sostanziale.
In coerenza con queste premesse , si ritiene che riguardo al lavoro straordinario reso entro la soglia delle 180 ore annuali, nella fattispecie per cui è causa si possa riconoscere un pieno riconoscimento dell’utilità, non diminuito cioè da un giudizio disvalore.
Infatti, al di sotto della predetta soglia, l’art. 34 CCNL si limita a richiedere che le prestazioni di lavoro straordinario debbano rispondere ad effettive esigenze di servizio ed essere preventivamente autorizzate dal dirigente responsabile. Ora, la prima condizione è riscontrabile nella fattispecie in esame, atteso che il Direttore Sanitario, con nota datata 18/12/2000, ha attestato che “il lavoro straordinario eseguito negli anni 97-98-99 .. è stato indispensabile per garantire la continuità del servizio ed il necessario livello di assistenza”.
Quanto alla seconda condizione (preventiva autorizzazione del dirigente responsabile), non è tale da incidere sul(la consistenza del) riconoscimento dell’utilità intervenuto successivamente. Il quale riconoscimento non può non essere considerato appieno, ai fini de quibus, per il solo fatto di essere intervenuto successivamente.
Per determinare quindi la somma, reputa questo giudice congruo assumere come parametro la retribuzione spettante per il lavoro straordinario, come prevista dalla contrattazione collettiva; detraendo dalla cifra in tal modo ottenuta una quota del 10%, presumendo che tale sia, nell’ambito del compenso pattuito, la quota aggiuntiva rispetto al valore, oggettivamente considerato, delle energie lavorative prestate.
Per le ore di lavoro straordinario oltre la soglia fissata dal comma 3 (numero di 180 ore annuali), il riconoscimento dell’utilità – insisto nell’attestato del direttore sanitario e nell’utilizzo consapevole del lavoro – va diminuito alla luce del giudizio di disvalore manifestato nei commi 3 e 4, lì dove si consente il superamento della soglia delle 180 ore solo al ricorrere di esigenze particolari ed eccezionali e per non più del 5% del personale in servizio. Nessuna delle predette condizioni, infatti, è risultata sussistere. L’attestato del direttore sanitario fa riferimento ad un triennio; il che esclude di per sé la ravvisabilità del requisito dell’eccezionalità delle esigenze.
Ed allora, reputa questo giudice congruo diminuire l’utilità riconosciuta di una quota del 30%, correlativa al disvalore connesso al superamento della soglia delle 180 ore in mancanza di particolari ed eccezionali esigenze.
Per quel che concerne infine le ore oltre il limite massimo di n. 250 ore annuali, vi è una vera prohibitio, tanto tassativo appare l’enunciato della norma. Il che induce ad accentuare ulteriormente la decurtazione, fino al 50%. Di conseguenza, dall’importo spettante a norma della contrattazione va detratta una quota pari al 50%.
In applicazione di siffatti criteri, tenendo conto delle ore già retribuite, spetta a SP – che ha effettuato 245 ore di straordinario nel 1998 – la somma di euro 470,0; a PC (per 416 ore nel 1998 e 311 ore nel 1999), la somma di euro 1.361,1; a PA (per 284 ore nel 1999) la somma di euro 616,2. Oltre agli interessi legali dalla maturazione sino al soddisfo.
Il rigetto dell’azione contrattuale induce a compensare per metà le spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.
Reggio Calabria, 16/10/2002
Il Giudice dott. Natalino Sapone