La Suprema Corte di Cassazione ha affermato che, qualora il lavoratore rifiuti un lavoro di livello inferiore dopo che a ciò si sia giunti attraverso la contrattazione collettiva come previsto dall’art. 4 della legge n. 223/1991, il datore di lavoro è legittimato ad operare il recesso. (n. 25313/2007)
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L'art. 2103 c.c., come novellato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13, proibisce l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione o corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita e, all'ultimo comma, fulmina di nullità qualsiasi patto contrario, volto a derogare ai precetti in materia di tutela della professionalità.
Sul piano giurisprudenziale la rigidità della disciplina complessiva dell'articolo 2103 c.c. è stata messa in crisi dalla drammatica scelta tra perdita del posto di lavoro e conservazione dello stesso a condizioni deteriori. La primitiva risposta della giurisprudenza fu fedele al dato testuale, con la motivazione che il legislatore, con la L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 13 che detta il nuovo testo art. 2103 c.c., ha adottato uno strumento di tutela rigido che opera in tutte le direzioni e può, in condizioni particolari, comportare anche un sacrificio per il prestatore di lavoro (Cass. 13 febbraio 1980 n. 1026, Cass. 1 giugno 1983 n. 3753, Cass. 17 giugno 1983 n. 4189, Cass. 28 ottobre 1983 n. 6406). Successivamente il chiaro interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro è stato privilegiato prima dalla giurisprudenza di merito, e poi dalla stessa giurisprudenza di legittimità, che si può ormai considerare consolidata, nonostante le severe critiche della dottrina sulla infedeltà testuale, nel senso che la nullità, sancita nella L. n. 300 del 1970, art. 13, di ogni patto contrario alla disciplina dettata dalle precedenti disposizioni dello stesso articolo, non è riferibile anche all'ipotesi in cui la modifica in peius delle mansioni sia stata concordata nell'interesse del lavoratore e al fine di evitare il licenziamento del medesimo; infatti, in detta ipotesi, il patto concernente la diversa utilizzazione del lavoratore non è in contrasto con le esigenze di dignità e libertà della persona e configura, per il lavoratore, ma costituisce una soluzione più favorevole di quella - ispirata ad un'esigenza di mero rispetto formale della norma - rappresentata dal licenziamento con successiva riassunzione (ad iniziare da Cass. 12 gennaio 1984 n. 266; Cass. 7 marzo 1986 n. 1536, Cass. 4 maggio 1987 n. 4142; Cass. 29 novembre 1988 n. 6441, la quale ultima estende la legittimità del patto anche al fine di evitare la messa in cassa integrazione, con indirizzo tuttora perdurante: Cass. 7 febbraio 2005 n. 2375). Tale principio, cd. della ammissibilità del patto di dequalificazione al fine di evitare il licenziamento, è stato successivamente ampliato al fine di ritenere legittima anche l'assegnazione datoriale unilaterale a mansioni inferiori allo stesso fine, in caso di inabilità permanente alle mansioni, ed in mancanza di altre equivalenti (Sezioni Unite 7 agosto 1998 n. 7755, Cass. 9 marzo 2004 n. 4790). "