27.06.2007 free
Tribunale di Roma - Sangue infetto e legittimazione del Ministero della salute
Tribunale di Roma
Sezione II civile
Sentenza 28 dicembre 2006 - 3 gennaio 2007
(Giudice Bochicchio)
Svolgimento del processo
Con citazione ritualmente notificata i signori (...) e (...) convenivano in giudizio il Ministero della Salute esponendo: che (...) affetto da leuconcefalite acuta virale, fu ricoverato nel dicembre del 1981 presso la clinica pediatrica dell'Università degli Studi di (X) dove fu sottoposto a trasfusioni di plasma a sangue intero in seguito alle quali sviluppò positività ai test anti-HCV con diagnosi nel gennaio 1996 di epatite cronica da HCV; che in seguito a richiesta al Ministero della Sanità d'indennizzo di cui alla legge 210/1992 la commissione medico legale di (XA) riconosceva nella seduta del xx/xx/1998 il nesso causale tra le somministrazioni d'emoderivati e l'epatite cronica attiva HCV correlata ascrivibile alla VIII categoria della tabella A allegata al DPR 834/1981; che nella fattispecie l'evento dannoso era addebitabile alla responsabilità del Ministero convenuto. Ciò premesso gli attori, il (...) e (...) concludevano chiedendo la condanna dell'amministrazione convenuta al risarcimento del danno biologico, morale, patrimoniale ed esistenziale da ciascuno subito per l'importo complessivo di Euro 376.368,74 per (...), di Euro 870.817,00 per (...) e di Euro 582.947,69 per (...) o nella diversa misura da accertare mediante CTU in corso di causa oltre alle spese di lite.
Si costituiva in giudizio il convenuto eccependo pregiudizialmente l'incompetenza per territorio del giudice adito essendo competente ex art 25 c.p.c. il tribunale di (X) e, preliminarmente, il difetto di legittimazione passiva dell'amministrazione convenuta e nel merito l'intervenuta prescrizione del diritto azionato e l'infondatezza della domanda di cui era chiesto il rigetto con vittoria di spese. Esaurita la trattazione, la causa era posta in decisione sulle precisate conclusioni all'udienza del 7 marzo 2006.
Motivi della decisione
L'eccezione d'incompetenza per territorio ex art. 25 c.p.c. deve essere rigettata atteso che gli attori risultano residenti in (XA) dove l'azionata obbligazione deve essere adempiuta tramite la tesoreria erariale. Sulla base della causa petendi esposta in citazione appare sussistente la legittimazione passiva del ministero convenuto. La pretesa risarcitoria è, infatti, fondata sulla condotta omissiva e negligente dell'amministrazione statale sui compiti ad essa affidati dalla legge in materia di raccolta, conservazione ed utilizzo del sangue e dei prodotti da sangue e plasma. Detta condotta sarebbe stata, secondo l'attore, la causa del contagio dal virus HCV da cui sarebbe poi derivata l'epatite cronica lamentata. Come già osservato in precedente decisione di questo tribunale la legge istitutiva del Ministero della Sanità (art. 1 legge 296/1958) attribuiva al dicastero compiti amministrativi di tutela della salute pubblica, con il potere di emanare istruzioni obbligatorie alle amministrazioni pubbliche erogatrici del servizio sanitario. La successiva legge 592/1967 attuata con il regolamento emanato con DPR 1256/1971, assegnava poi espressamente al Ministero della Sanità compiti di vigilanza e controllo in materia di raccolta, preparazione e conservazione del sangue umano destinato alle trasfusioni nonché alla preparazione dei suoi derivati. Detti compiti erano poi esercitati anche tramite l'Istituto Superiore di Sanità (DM 15 settembre 1972) il quale operava quale organo tecnico-scientifico dipendente dall'amministrazione statale (legge 519/1973). I compiti di controllo e e di vigilanza sono stati mantenuti in capo all'amministrazione statale anche dopo l'attuazione della riforma sanitaria approvata con legge 833/1978 e l'istituzione del servizio sanitario nazionale. (art. 4, comma 1, n. 6, lettere b e c). La domanda, che appare fondata sulla responsabilità extracontrattuale dell'amministrazione ex art. 2043 cod.civ. per violazione del principio del neminem laedere, in assenza di rapporto contrattuale o quasi contrattuale e non apparendo configurabile una responsabilità aggravata ex art. 2050 cod.civ. in mancanza dell'attribuzione allo stato di compiti diretti di importazione, raccolta, conservazione, produzione e distribuzione del sangue e dei suoi derivati, è indubbiamente ammissibile fatta salva ogni valutazione di merito. È anche infondata l'eccezione di prescrizione del diritto. Va preliminarmente rilevato come nella fattispecie sia ravvisabile la prescrizione decennale ex art. 2947 comma 3 cod. civ. In base ai fatti come prospettati dall'attore è configurabile il reato d'epidemia colposa di cui agli artt. 432, 458 cod. pen. Il termine prescrizionale non era poi decorso al momento della proporzione della domanda giudiziale. Il contagio e la contrazione della malattia sulla base di quando dedotto risalgono al 1981, quando il (...) fu sottoposto a trasfusioni di plasma per il trattamento di una leucoencefalite. La notifica della citazione in data xx/xx/2003 è quindi tempestiva ed idonea ad interrompere la prescrizione non ancora decorsa perché il termine iniziale della stessa va fatto risalire ai marzo 1995 quando fu presentata richiesta di prestazioni ex lege 210/1992. Detto momento, in cui l'attore ha avuto sicura conoscenza della riferibilità della malattia alle trasfusioni è infatti rilevante ex art. 2935 cod. civ. ai fini dell'individuazione del giorno a partire da cui il diritto al risarcimento può essere fatto valere. Nel merito la domanda appare fondata. Sulla base della documentazione prodotta dalle parti è stata espletata c.t.u. medico legale. Dalla relazione del consulente tecnico d'ufficio dottor (A) emerge che il (...) fu sottoposto nel dicembre 1981 a terapia con somministrazione di plasma e sangue. In seguito l'attore sviluppò un'epatite, diagnosticata nel 1991 la positività agli anticorpi HCV con successiva immediata diagnosi di epatite cronica HCV. Il c.t.u. ha concluso affermando l'esistenza di rapporto causale tra i trattamenti predetti come già riconosciuto dall'amministrazione in sede assistenziale. Il danno all'integrità biologica dell'attore è stato quantificato nella misura del 71% della complessiva. Alla luce delle conclusioni del CTU, che appaiono corrette, congruamente motivate e rispondenti all'esito degli accertamenti tecnici svolti, appare certo il nesso di causalità tra i trattamenti trasfusionali e con emoderivati e il contagio con il virus HCV e il conseguente sviluppo della malattia epatica. Detto nesso di causalità è stato peraltro già accertato in sede amministrativa dalla Commissione Medico Ospedaliera ai sensi dell'art. 4 della legge 210/1992 e va ritenuto indiscutibile, attesa l'assenza di altre possibili cause di contagio. Alla luce delle considerazioni che seguono è anche provata la responsabilità civile extracontrattuale del Ministero convenuto. Nel dicembre 1981, epoca del contagio, la malattia era già nota come epatite non A non B pur non essendo stato ancora identificato l'agente virale perché il virus HCV fu individuato solo nel 1988 in seguito ai noti esperimenti dei biologi molecolari della (B) e la messa a punto del test sierologico per la determinazione dell'anticorpo omologo che permise di diagnosticare in positivo l'infezione e di eseguire il test per l'identificazione del virus nel sangue e nei prodotti da somministrare avvenne nei primi mesi del 1989. Era poi noto anche che una delle principali modalità di trasmissione del virus era quella parenterale. Alla luce di quanto sopra il Ministero avrebbe dovuto porre in essere tutti gli accorgimenti utili e necessari al fine di ridurre i rischi di contagio, esercitando i suoi poteri di vigilanza e controllo sulla sicurezza del sangue utilizzato per le trasfusioni, essendo nota la pericolosità del sangue come veicolo di trasmissione di infezioni epatiche.
Richiamando quanto affermato da questo tribunale si osserva che il Ministero aveva il dovere di porre in essere tutte le cautele e le misure precauzionali conosciute dalla scienza, l'aver omesso di effettuare i controlli effettivi di laboratorio sul sangue (anche importato da Paesi ove i donatori venivano remunerati e che, per tale motivo, era meno sicuro) e, comunque, il non aver dimostrato di aver vigilato sull'effettuazione, da parte delle strutture operative competenti, dei controlli che potevano rivelare la presenza di infezioni all'epoca conosciute (quali quelle derivanti dal virus dell'epatite B), nonché l'aver omesso comunque, il non aver dimostrato di aver vigilato sull'effettuazione delle opportune indagini anamnestiche sui donatori del sangue, ne determina la responsabilità anche per le infezioni che all'epoca non erano ancora conosciute dal punto di vista molecolare (epatite NANB ed HIV), atteso che il rischio della diffusione di queste ultime infezioni sarebbe stato verosimilmente scongiurato qualora fossero state adottate le misure precauzionali note per contrastare malattie diverse e conosciute (sin dai primi degli anni '70) quali, in particolare, l'epatite B (ad esempio, gli artt. 65 ss. del DM 18/6/1971 e 44 ss. del d.p.r. n. 1256/1971 prescrivevano controlli sull'idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche nel tempo note; la circolare ministeriale n. 1188 del 30/6/1971 raccomandava l'importanza dell'esecuzione sistematica della ricerca dell'antigene Australia, cui fu poi dato il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite B, su tutto il sangue destinato alla trasfusione e prevedeva l'obbligo di eseguire tutti gli accertamenti possibili; l'art. 47, lett. h), del d.p.r. 24/8/1971 stabiliva che «non possono essere accettati come donatori coloro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti con epatitici»; il DM 15/9/1972 subordinava l'autorizzazione all'importazione di sangue dall'estero alle medesime cautele ed ai controlli di laboratorio prescritti per il sangue nazionale). Prima che fosse messo a punto il test che consentiva la rilevazione del virus HCV, inoltre, erano diffusi metodi alternativi ed indiretti di rilevazione che consentivano di identificare le persone considerate a rischio di trasmettere malattie virali e che avrebbero, quindi, dovuto essere escluse dalla donazione, il che non avvenne, come con certezza si desume dall'alto numero di contagi verificatisi, senza che l'ente apicale (cioè il Ministero), che prima e più di ogni altro era nelle condizioni di conoscere, applicare e vigilare sull'applicazione delle misure precauzionali da parte delle strutture operative, si fosse attivato concretamente per la salute degli utenti del servizio sanitario. In particolare, tra i metodi usati vi era quello per l'individuazione degli anticorpi (anti-HbcAg) in soggetti che erano entrati in contatto con il virus dell'epatite B: «questo metodo era stato scelto poiché una serie di studi dimostrava che la maggior parte dei pazienti con Aids era positiva anche per l'anti-Hbc l'anti Hbc è sfato considerato come un marker di popolazioni per gruppi a rischio di contrarre l'Aids e, quindi, potenzialmente infettivi» (v. E.G. Rondanelli, Aids - La sindrome da immunodeficienza acquisita, a cura di E.G. Rondanelli, ed. Piccin, Padova, 1987, 384, ed ivi rif.); è significativo che già il citato art. 44 d.p.r. n. 1256/1971 prevedeva l'esclusione dalla donazione di chi era o, anche, era stato affetto da epatite virale, in considerazione della maggiore esposizione di questi soggetti ad altri (pur se ignoti) rischi virali veicolati dal sangue.
Altro metodo indiretto usato era offerto dalla determinazione delle transaminasi e, in particolare, della ALT (alanina transaminasi). La determinazione di questo enzima che era noto per essere al di sopra della media e, quindi, alterato nei soggetti con patologie epatiche e, in particolare, nelle epatiti, poteva rivelare la presenza di infezioni da virus non ancora conosciuti e cioè non noti dal punto di vista della caratterizzazione molecolare (come appunto l'HIV e l'HCV), sicché già con circ. del 28/3/1966, n. 50 (par. F) il Ministero della sanità così si esprimeva: «Non si conosce attualmente nessuna prova di laboratorio che permetta di mettere in evidenza con sicurezza tutti i portatori di virus epatico. Tuttavia è da prescrivere la determinazione sistematica e periodica delle transaminasi steriche dei donatori. Su ciascun quantitativo di sangue prelevato dai singoli donatori dovranno essere praticate le predette determinazioni e nel caso di risultati abnormi ... nel fondato sospetto che il donatore possa essere portatore di virus epatico, il donatore stesso sarà sottoposto ad ulteriori accertamenti ed il quantitativo di sangue prelevato sarà destinato esclusivamente alla produzione di gammaglobuline ... o di albumine». Non solo il Ministero non ha (e, in ogni caso, non ha allegato né dimostrato di avere) posto in essere concrete misure operative di vigilanza e controllo sul rispetto di tale raccomandazione da parte delle case farmaceutiche e dei soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione del sangue utilizzato per le trasfusioni e la produzione di emoderivati ma ha imposto l'obbligo di effettuare lo screening per l'ALT sulle unità di sangue ai fini proprio della ricerca indiretta degli anticorpi anti HCV soltanto con D.M. 21 luglio 1990.
Si è stimato, in ambiente americano, che l'adozione generalizzata e tempestiva nei primi anni '80 delle metodiche alternative di ricerca della presenza nel sangue dell'antigene rivelatore dell'epatite B ovvero di una pregressa esposizione del donatore a questo virus ovvero, in genere, un miglior controllo sulla purezza dei sangue secondo le metodologie già conosciute, avrebbe consentito di ridurre dell'80% il rischio di trasfondere sangue infetto da HIV (v. S.A. Galel, J.D. Lifson, E.G. Engleman, Prevention of Aids Transmission through screening of the blood supply, in Annual Review of immunology, 1995, 13:201-27). Si è, soprattutto, osservato che «la ricerca sistematica di HbsAg (cioè dell'antigene di superficie del virus dell'epatite B) nella routine della emo trasfusione ha comportato una riduzione delle epatiti post-trasfusionali» (tra cui quella «non A non B» poi identificata come C) (v. Angelillo, Appunti dalle lezioni del corso di igiene e medicina preventiva, ed. Intercontinentalia, Napoli, 365). Anche nella letteratura medico-legale (A. Carbone, Epatite C post trasfusionale. Problematiche medico legali, in Zacchia, 1995, 44) si è ritenuto che «la comparsa di un'epatite C post trasfusionale potrà configurare le ipotesi della negligenza e dell'imprudenza: la prima ove si accertasse che, per dimenticanza o disattenzione omessa l'esecuzione dei tests obbligatoriamente prescritti; la seconda ove si accertasse che quel determinato sangue non è stato eliminato, nonostante presentasse, per esempio alti valori di transaminasi, adottando cioè quelle cautele consigliate dalla ordinaria esperienza». Ai fini dell'affermazione della responsabilità del Ministero anche nei confronti di coloro che, per quanto qui interessa, hanno contratto il virus dell'HCV prima del 1989 soccorre, inoltre, l'argomento della giuridica irrilevanza in campo extracontrattuale che l'infezione virale non fosse ancora ben conosciuta al momento della condotta illecita omissiva, quando le misure precauzionali obbligatorie omesse (prescritte ovvero consigliabili per contrastare la diffusione di virus noti) avrebbero consentito di ridurre l'insorgenza anche di infezioni virali ancora non conosciute. La tendenziale coincidenza epidemiologica dei virus in questione (particolarmente alta tra HCV ed epatite B) nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione ed identiche le precauzioni necessarie, nonché la gravità delle omissioni e dei ritardi del Ministero nella prevenzione di infezioni note (epatite B) e l'efficacia (scientificamente dimostrata) che i mezzi di contrasto dei virus conosciuti avrebbero avuto nella prevenzione dei virus identificati solo successivamente, sono tutti elementi che concorrono a giustificare la responsabilità del Ministero della salute, anche in considerazione del principio civilistico dell'estensione della responsabilità aquiliana ai danni non prevedibili (è noto che, in campo extracontrattuale, in considerazione dell'omesso richiamo dell'art. 1226 nell'art. 2056 c.c. il danno risarcibile non può essere limitato alle sole conseguenze dannose strettamente prevedibili).
Questi principi, costantemente ribaditi dal Tribunale di Roma a partire dalla sentenza n. 23097/2001 cit. (confermata dalla Corte di appello di Roma con sentenza 12/1/2004, n. 107), non sembrano condivisi dalla recente sentenza della Cassazione del 31/5/2005, n. 11609. In particolare, investita dell'impugnazione contro la sentenza n. 3242 emessa il 4/10/2000 dalla Corte di appello di Roma, che aveva deciso sul gravame avverso Trib. Roma 27/11/1998 cit., e decidendo sui ricorsi principale ed incidentale proposti da taluni danneggiati, la cui domanda, era stata respinta perché le infezioni erano state verosimilmente contratte in data anteriore all'epoca di individuazione delle relative patologie infettive, la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del giudice di appello, laddove aveva stabilito che la responsabilità del Ministero può essere affermata solo a partire dal 1978 per l'epatite B, dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'epatite C. Argomentando dalla distinzione fra causalità materiale e giuridica e dalle peculiarità della responsabilità per omissione rispetto alla responsabilità per condotta omissiva, la Cassazione ha affermato, in particolare, i seguenti principi: a) «finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale i virus dell'HIV, HBC ed HCV e quindi i test d'identificazione degli stessi, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, poiché addirittura anche, astrattamente sconosciuto, manca il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non può darsi rilievo che a quelle soltanto che, al momento in cui si produce l'omissione causante e non successivamente, non appaiono del tutto inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa»; b) «per quanto sembri trattarsi di colpa specifica, in quanto trattasi di violazione di regole espresse che assegnavano tali obblighi al Ministero, tuttavia, poiché è evidente che il legislatore non potesse conoscere prima ancora della Comunità scientifica mondiale l'esistenza dei virus in questione, allorché si va a determinare il contenuto concreto della condotta genericamente dovuta, ma omessa, ciò va necessariamente correlato alla prevedibilità dell'evento che il Ministero avrebbe dovuto evitare» di talché «in questo caso, stante l'atipicità della condotta dovuta, la responsabilità da omissione sorge, secondo l'ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante fondato sulla prevedibilità dello stesso»; c) in quanto «le tre infezioni costituiscono tre differenti eventi lesivi, la responsabilità del Ministero va accertata, sia relativamente al nesso causale che alla colpevolezza, con riferimento ad ognuno dei tre virus, e quindi alla prevedibilità degli stessi, con la conseguenza che, essendo stati conosciuti i virus HIV e HCV solo successivamente - rispettivamente negli anni 1985 e 1988 - da dette date successive è configurabile la responsabilità del Ministero per gli stessi»; d) «si giungerebbe ad un'ipotesi di responsabilità sconosciuta all'ordinamento ed ancora più rigorosa di quella cd. da rischio da sviluppo in tema di responsabilità del produttore» perché verrebbe posta «a carico del Ministero, che pure è chiamato in giudizio esclusivamente a norma dell'art. 2043 c.c., al di fuori da ogni ipotesi di presunzione di colpa o di responsabilità, la responsabilità per un evento lesivo sconosciuto a tutti e, quindi come tale non evitabile»; e) «occorre, ai fini del nesso causale, e della colpa, che questi siano individuati in relazione ad uno specifico evento lesivo e non in relazione ad una generica pericolosità delle trasfusioni, come possibile veicolo di infezioni».
Per quanto l'impostazione di fondo della sentenza n. 11609/05 in ordine ai criteri di accertamento del nesso causale e della colpevolezza del soggetto agente nell'illecito per omissione sia condivisibile, non altrettanto appare essere l'applicazione che ne è stata data nel caso esaminato, come efficacemente rilevato, di recente, anche dalla sentenza del Tribunale di Roma in data 29/8/2005 (nella causa Andreutti L. ed altri c. Ministero della salute, iscritta al r.g. n. 38362/2002). Da una attenta lettura della motivazione della sentenza n. 11609/05 si evince la convinzione dei giudici di legittimità della totale ed oggettiva diversità dell'evento lesivo che colpisce i soggetti sottoposti a trasfusioni di sangue o a somministrazione di emoderivati a seconda del tipo di patologia contratta (HCV, HBV, HIV).
Sostiene, infatti, la Suprema Corte che, essendo diversi gli eventi lesivi, occorre valutare - secondo i consolidati principi richiamati nella decisione - il nesso causale e la colpevolezza del Ministero convenuto con specifico riguardo ad ognuno di essi. È invece proprio tale diversità di eventi che non sussiste, tanto nella fattispecie esaminata dalla Cassazione quanto in quella oggetto del presente giudizio. Invero l'evento dannoso, almeno in senso giuridico (l'unico rilevante in giudizio) è sempre lo stesso e consiste nella lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sottoposto (come nel caso in esame) alla pratica trasfusionale. È quindi, questo l'evento lesivo cui occorre fare esclusivo riferimento nella valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana e, in particolare del nesso di causalità materiale con la condotta omissiva del Ministero e dell'elemento soggettivo della colpa. Diversità sussiste quanto all'agente patogeno biologicamente responsabile della lesione e cioè alla identificazione del tipo concreto di lesione dell'integrità psico-fisica ma ciò non incide direttamente sulla responsabilità giuridica del soggetto che, con la sua omissione colposa, contribuì nella (e, quindi, giuridicamente determinò, ex art. 40 comma 2, c.p.) la diffusione di quell'agente patogeno. Il progredire delle conoscenze scientifiche, infatti, ha permesso solo di potere individuare con esattezza i virus che causano l'infezione e di identificarli con specifici test, senza per questo costituire un elemento di novità nella serie causale, già ben nota fin dai primi anni '70, «trasfusione e/o somministrazione di emoderivati-contagio infettivo-lesione dell'integrità psicofisica». Ecco perché non appare pertinente al caso di specie il principio, ribadito nella sentenza della Cassazione n. 11609/05, secondo cui «all'interno delle serie causali non può darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce remissione causante e non successivamente, non appaiono del tutto inverosimili». A parte che il riferimento alla apparenza di inverosimiglianza delle serie causali sembrerebbe introdurre nell'ambito del discorso sul nesso di causalità materiale elementi propri del diverso giudizio sull'elemento soggettivo della colpevolezza, la Corte nella sostanza ritiene che, al momento della trasfusione (e, quindi, della condotta omissiva imputata al Ministero), fosse inverosimile l'insorgenza nel futuro di malattie infettive (in quel momento) non conosciute in quanto provocate da virus non (ancora) individuati dalla scienza medica. Il rapporto causale con la trasfusione (e, di conseguenza, con la condotta omissiva) non sarebbe riconoscibile, non essendo ravvisabili nella specifica conseguenza dannosa quei caratteri di normalità, ordinarietà ed adeguatezza in cui deve consistere il nesso di causalità materiale secondo la giurisprudenza (cd. teoria della conditio sine qua non, temperata dalla teoria, della causalità adeguata o della regolarità causale). Tuttavia, per poter condividere questa conclusione, si dovrebbe ritenere che l'autore di una condotta lesiva dell'integrità fisica di altro soggetto risponderebbe solo delle malattie note alla (e già studiate dalla) scienza a quel tempo mentre non sarebbe responsabile (per mancanza del nesso causale) delle malattie provocate da quella medesima condotta quando non ancora studiate dalla scienza e che, per questa, sarebbero straordinarie o inverosimili al momento della condotta illecita. In realtà, poiché le regole (specifiche) prescrittive di determinate cautele (richiamate nel punto 2.3) - nella fase di raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano, e riguardanti, tra l'altro, i controlli sull'idoneità dei donatori; la ricerca dell'antigene del virus dell'epatite B sul sangue utilizzato per le trasfusioni; i rigidi controlli di laboratorio previsti per l'autorizzazione all'importazione di sangue dall'estero, ecc. - volte a garantire la sicurezza del sangue utilizzato nelle pratiche trasfusionali, sul cui rispetto il Ministero ha omesso di vigilare, erano poste a tutela della salute umana e poiché l'evento dannoso del quale si discute è proprio la lesione dell'integrità psico-fisica, il nesso di causalità materiale è da ritenere accertato, dovendosi presumere che quelle cautele erano idonee ad impedire il verificarsi di quella lesione (cfr., in generale, Cass. 8/1/1968, n. 40).
Questa presunzione, inoltre, è stata ulteriormente avvalorata dalla dimostrazione che comune è la eziopatologia dell'epatite B e dell'epatite da HCV, nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione dei virus ed identiche le precauzioni necessarie, e che l'adozione delle cautele previste per l'una avrebbe anche impedito la (o considerevolmente attenuato il rischio della) insorgenza della seconda, e la Cassazione non ha esplicitamente affermato il contrario (né avrebbe potuto attenuarlo, trattandosi di valutazione in fatto). La già dimostrata, tendenziale coincidenza epidemiologica tra le infezioni in questione (epatite da HBV, HCV ed infezione da HIV), oltre che essere un dato acquisito nella letteratura scientifica (Rondanelli op. cit. p. 384: «il modello epidemiologico dell'Aids era infatti strutturalmente simile a quello dell'epatite B che è spesso diffusa attraverso il contatto parentelare con il sangue... »), è riconosciuto anche dal Ministero della sanità, nella cui circolare n. 64/1983 si legge a proposito dell'HIV (e a maggior ragione il discorso vale per l'HCV) : «i dati epidemiologici e clinici orientano verso una eziologia virale a trasmissione sessuale e parenterale simile a quella dell'epatite B». Si è detto anche delle regole di comune prudenza (ci si riferisce ai metodi di rilevazione indiretta dei virus fondati sulla determinazione delle transaminasi e di individuazione degli anticorpi - anti-HbcAg) che, seppur non specificamente imposte da una fonte normativa primaria, il Ministero della salute avrebbe dovuto prescrivere ed attuare al fine di ridurre al minimo la verificazione dei rischi infettivi intrinseci nell'utilizzazione del sangue umano a scopi terapeutici (anche dovuti alla circolazione di virus nuovi e non ancora conosciuti). La Cassazione osserva che il legislatore, al tempo in cui emanò le norme prescrittile delle cautele da osservarsi nella pratica trasfusionale, non poteva conoscere quanto non era conosciuto nemmeno dalla comunità scientifica, in ordine al rischio di diffusione di virus scoperti solo molti anni più tardi. Tuttavia, le cautele prescritte dalla normativa in materia trasfusionale non sono poste specificamente in funzione di tutela contro il rischio di un determinato virus ma contro il rischio della lesione dell'integrità psico-fìsica valutata nella sua unitaria complessità, in considerazione della potenzialità nociva intrinseca del sangue umano (è significativo che, secondo Cass. n. 6241/1987, il rischio di contagio del virus dell'epatite B non è espressamente previsto dalla normativa riguardante gli emoderivati ma tuttavia è compreso nell'ampia prevenzione stabilita dalla medesima). Nella logica della sentenza n. 11609/05, inoltre, non sarebbe possibile affermare la responsabilità di alcun soggetto per le infezioni da epatite B contratte in epoca precedente all'anno 1978 (in cui, secondo la stessa sentenza, sarebbe stato individuato il virus dell'epatite B), nonostante la violazione delle norme prescrittile di cautele specifiche già da molto tempo vigenti a garanzia della sicurezza del sangue. Ed invece la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass. n. 6241/1987 cit.; Trib. Milano 19/11/1987, Foro it., 1988, I, 144) ha ammesso la responsabilità del produttore di farmaci che avevano causato la diffusione dell'epatite B in epoca molto precedente all'anno 1978 sul presupposto che le norme cautelative violate erano finalizzate non già a contrastare il rischio della diffusione di questo o quel virus particolare ma a tutelare l'integrità psico-fisica della persona. Né varrebbe l'obiezione che la giurisprudenza richiamata ciò ha statuito facendo applicazione dell'art. 2050 c.c. in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, atteso che, quanto alla valutazione (ed alla struttura) del nesso causale (che la sentenza n. 11609/05 ha in radice negato nei casi di contagio di virus non ancora individuati dalla scienza al momento della condotta), nessuna differenza sussiste rispetto al modello di responsabilità aquiliana disciplinato dall'art. 2043 c.c. Si è accennato ai metodi di purificazione del sangue (cd. termotrattamento, metodo antivirucidico, ecc.) che lo rendevano sicuro rispetto al rischio di trasmissione di agenti infettivi (sul punto si fa rinvio al par. 10 b-c della citata sentenza del Tribunale di Roma del 14/6/2001). Si è anche precisato che tali metodi sono efficaci soltanto per gli emoderivati (ed i derivati del plasma) ma non sul sangue intero (utilizzato per le trasfusioni) e sui suoi componenti cellulari, i quali, se sottoposti ai suddetti procedimenti chimici o fisici, sarebbero alterati e distrutti. Poiché tali metodi (già sperimentati a partire dal 1983 ed imposti dal Ministero nel 1985 con circ. del 17/7/1985 n. 28) sono idonei ad inattivare tutti i virus in questione (HIV, HCV, HBV), risulta non comprensibile il riferimento operato nella sentenza n. 11609/05 all'anno in cui il virus HCV fu identificato (1988) come data a partire dalla quale soltanto si potrebbe affermare la responsabilità civile del Ministero anche per il contagio dell'epatite da HCV causato dalla somministrazione di emoderivati. È infatti, irrilevante che nel 1985 il virus HCV non fosse stato identificato, dovendo il Ministero a partire già da quell'anno vigilare sull'effettiva attuazione del termo trattamento e dei metodi di inattivazione che erano conosciuti seppur per contrastare i virus allora noti dell'epatite B e dell'HIV (si rinvia, sul punto, al par. 10 b-c della sentenza del Tribunale di Roma sopra citata). Ed ancora, pur ipotizzando che la individuazione di nuovi virus con il progredire della scienza medica costituisca (anziché, come si dovrebbe, un fattore naturale estraneo alla sequenza causale «trasfusione - contagio infettivo - lesione dell'integrità psico-fisica») una azione od omissione umana ovvero una serie causale concorrente rispetto a quella originaria osserva che, nel caso delle infezioni post-trasfusionali da HCV, la scoperta del virus responsabile dell'HCV non costituisce affatto una causa autonoma dell'evento lesivo idonea ad interrompere il nesso causale con la condotta originaria (anche omissiva) causativa dell'infezione da HBV. La sola e costante causa del contagio rimane l'uso del sangue proveniente da donatori infetti e l'omissione colposa del soggetto che aveva l'obbligo di impedirlo. Poiché le condizioni ambientali o i fattori naturali, non possono dar luogo, senza rapporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento (in questo caso omissivo) è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità (cfr. Cass. n. 2335/2001).
In conclusione, il nesso di causalità sussiste ed in relazione non già alla generica pericolosità delle trasfusioni ma ad un preciso evento dannoso costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica. Anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo le conclusioni della Cassazione non appaiono convincenti. È senz'altro condivisibile l'affermazione secondo cui «la responsabilità da omissione sorge, secondo l'ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante»; non lo è invece quella per la quale «essendo stati conosciuti i virus HIV e HCV... negli anni 1985 e 1988, da dette date ... è configuratile la responsabilità del Ministero per gli stessi». Si è detto che la condotta omissiva imputata al Ministero è di avere violato sia norme cautelari scritte sia regole non scritte di comune prudenza a tutela della salute umana. Quanto alle prime (in relazione alle quali è configurabile una colpa specifica), è noto che prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso sono assorbite nella stessa norma cautelare che è oggetto della trasgressione e per questo, non hanno bisogno di dimostrazione (che comunque è stata ampiamente offerta nel caso specifico), in quanto l'inosservanza della regola scritta comporta, di per sé, imprudenza e negligenza con conseguente responsabilità colposa per gli eventi dannosi che esse mirano a prevenire (si tratta, nel caso in esame, della lesione dell'integrità psico-fisica determinata dal contagio di malattie infettive veicolate dal sangue). Quanto alle seconde (la cui esigibilità non è esclusa dall'esistenza di regole specifiche), sotto il profilo della imprudenza, imperizia e negligenza, la colpa (generica) è da ravvisare «ogni qual volta manchi la rappresentazione da parte dell'agente, secondo il criterio della media diligenza ed attenzione, della possibilità dell'evento dannoso, poi in concreto verificatosi» (v. Cass. n. 1656/1981). Richiedere, come ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 11609/05, che, perché ne possa essere affermata la responsabilità aquiliana colposa, l'agente debba non solo prevedere, al momento della condotta, la possibilità dell'evento dannoso costituito dalla lesione della salute ma identificare anche il particolare tipo di virus che sarà responsabile di quella lesione, significa, già in astratto, configurare per la pubblica amministrazione un modello di responsabilità civile diverso da quello delineato dall'art. 2043 c.c (e 28 Cost.), per il quale è sufficiente la colpa lieve, non richiedendosi né il dolo né la colpa grave. Una ulteriore incongruenza sembra ravvisabile nell'orientamento seguito dalla Suprema Corte.
Poiché le caratteristiche e la gravità della malattia infettiva specifica dipendono dal tipo di virus responsabile del contagio, il richiedere (ai fini della stessa configurabilità di una responsabilità dell'agente) la esatta conoscenza (già al momento della condotta) del tipo particolare di virus che nel futuro potrà essere veicolato dal sangue, produce l'effetto di applicare in campo extracontrattuale la limitazione (valida solo in campo contrattuale) della responsabilità ai soli danni prevedibili. In altri termini, poiché l'entità della lesione all'integrità psico-fisica (ed il quantum debeatur) dipendono in concreto dal tipo di infezione virale, il limitare la responsabilità dell'agente alle sole patologie provocate da determinati virus (conosciuti al momento della condotta) e non da altri, significa violare il principio che in materia extracontrattuale va risarcito, sotto il profilo del quantum, anche il danno imprevedibile, non essendo l'art. 1225 richiamato dall'art. 2056 c.c. (v., tra le tante, Cass. n. 2488/1979 e 6725/2005; è infatti solo alla responsabilità contrattuale che si riferisce il principio, ribadito da Cass. n. 3102/2000, secondo cui «il concreto ammontare del risarcimento non può eccedere l'entità prevedibile nel momento in cui è sorta l'obbligazione inadempiuta»). Infine, l'orientamento qui non condiviso contrasta con quello seguito in Francia dal Consiglio di Stato (v. decisione del 9/4/1993, in Recueil Dalloz, 1993, J. 312) che, nell'individuare il sorgere della responsabilità civile dello Stato per i danni da contagio dell'HIV a seguito di trasfusione o di uso di emoderivati, ha fatto riferimento non già alla data di identificazione del virus dell'HIV in sede scientifica (cioè al 1985) ma a quella, comunque precedente, in cui l'Amministrazione sanitaria, pur informata della pericolosità del sangue come veicolo di infezioni virali, non aveva adottato tempestivi provvedimenti a tutela della salute pubblica, avendo soltanto con circolare del 20/10/1985 vietato la distribuzione degli emoderivati infetti. Si consideri che il Ministero della salute italiano ha ritardato sino al 1988 la decisione di ritirare dal commercio i farmaci non sottoposti al termotrattamento, a seguito del parere del Consiglio superiore di sanità in data 17/3/1988 (v., sul punto, il p. 10 b di Trib. Roma 14/6/2001 cit.). Anche volendo seguire la decisione della Corte di Cassazione nel suo iter argomentativo si osserva che la diffusione dell'epatite NANB quale conseguenza del mancato rispetto delle cautele predette era rischio già prevedibile nel 1981 tenuto conto delle conoscenze già allora esistenti sulla malattia in relazione alla origine virale e trasmissione parenterale atteso il collegamento tra l'esclusione dei donatori con ALT elevata e la diminuzione del rischio di contrazione dell'epatire NANB era conosciuta sin dal 1978 nel mondo scientifico con la diffusione delle conclusioni preliminari del Transfusion Transmitted Viruses Study le cui definitive conclusioni furono pubblicate sul NEJM nell'aprile del 1981. Inoltre già dal 1974 la letteratura scientifica aveva proposto la cautela dell'esclusione dalla donazione dei soggetti con elevate transaminasi poi convalidata dal risultato dello studio citato. Si può quindi concludere che quando il (...) fu sottoposto alle trasfusioni erano disponibili idonei strumenti diagnostici e di prevenzione in grado di impedire l'evento, ex ante oggettivamente prevedibile, della trasmissione per mezzo delle trasfusioni e della somministrazione di emoderivati di malattie virali epatiche inclusa l'epatite NANB.
L'aver tardivamente imposto detti controlli concreta quindi condotta colposa causativa del danno ascrivibile all'amministrazione ex art. 2043 cod. civ. La convenuta amministrazione va quindi condannata al risarcimento del danno subito dall'attore. Tenuto conto dello sviluppo della malattia, non trattabile farmacologicamente per la controindicazione a causa dei postumi dell'encefalite alla somministrazione dell'Interferone, è condivisibile la valutazione del danno biologico permanente nella misura del 71% della validità complessiva operata dal CTU con osservazioni da intendersi qui richiamate. Tenuto conto dell'età del (...) al momento della contrazione della infezione epatica (3 anni) e di tutte le circostanze del fatto, tenuto altresì conto dei precedenti giudiziari dell'ufficio elaborati in tabelle, il danno permanente all'integrità biologica dell'attore appare quantificabile nella misura di Euro 484.149,00 complessivi con valutazione che tiene conto della rivalutazione alla data odierna in base, agli indici ISTAT dei prezzi al consumo (foi nt). Considerata la già esposta rilevanza penale dell'illecito aquiliano (lesioni colpose, epidemia colposa) e dell'avvenuta lesione del bene salute tutelato dalla Costituzione, l'attore ha anche il diritto al risarcimento del danno morale ex artt. 2059 c.c., 185 c.p. nella misura che appare congrua, compresa la rivalutazione ad oggi di Euro 242.074,50 complessivi pari alla metà del danno biologico.
Benché la malattia epatica abbia cagionato a giudizio del CTU una lesione alla capacità lavorativa generica dell'attore deve osservarsi che non vi è prova di danno patrimoniale avendo il (...) conseguito impiego presso società di capitali controllata dal Comune di (XA) (pag. 11 della relazione di c.t.u.) per cui la domanda di risarcimento del danno patrimoniale deve essere rigettata. Neppure vi è prova di un danno esistenziale trascendente il mero danno biologico, con rigetto sul punto della domanda. Dagli atti emerge il riconoscimento del nesso di causalità ai fini delle provvidenze ex lege 210/1992 previsto per la settima categoria di cui alla tabella A allegata al DPR 30 dicembre 1981 n. 834. L'importo annuale dell'eventuale beneficio riconosciuto dovrebbe essere detratto dall'importo del danno biologico complessivo. Per espressa volontà della legge la prestazione in questione, pur concretando una forma di assistenza obbligatoria, ha espressa natura indennitaria a ristoro della lesione all'integrità biologica (psico-fisica) della persona. Si tratta di prestazione tabellare di natura certamente non previdenziale, in quanto erogata in presenza dei soli presupposti del nesso di causalità tra attività trasfusionale e di somministrazione di emoderivati e il danno alla salute. L'erogazione appare assimilabile alla pensione privilegiata erogata ex artt. 64-67 DPR 1092/1973 ai militari di leva che riportino lesioni od infermità per fatti di servizio ed alle pensioni di guerra di cui al DPR 915/1978. Anche nel caso delle provvidenze di cui alla legge 210/1992 ci troviamo, infatti, di fronte a prestazioni indennitarie destinate, così come il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., alla tutela del medesimo bene giuridico costituito dall'integrità biologica della persona fisica.
Non vi è prova però dell'effettivo riconoscimento del beneficio e del suo ammontare. In assenza prova del quantum dell'aliunde perceptum nessuna decurtazione può essere operata sull'importo riconosciuto a titolo di risarcimento. In relazione alle domande risarcitorie proposte dai genitori del (...) può essere riconosciuta solo quella del danno morale. Per quanto riguarda il padre si rileva che nessuna prova concreta è stata offerta del dedotto danno non patrimoniale biologico-esistenziale e del danno patrimoniale, in quanto le circostanze capitolate in prova testimoniale rilevano solo ai fini di un generico disagio nella vita familiare con l'adozione di cautele al fine di evitare contagi ed il trasferimento del padre in altra città senza essere accompagnato dalla famiglia con necessità di pendolarismo di fine settimana tra (XB) e (X). Si tratta di circostanze che non comportano un'effettiva incisione e danno nella vita relazionale, sociale ed affettiva della persona che giustifica il risarcimento della specifica voce di danno non patrimoniale.
In relazione alla madre, oltre quanto osservato per il padre, si rileva che non vi è prova che l'attrice abbia lasciato il lavoro per accudire il figlio il quale risulta svolgere attività lavorativa. Sul danno biologico permanente che la madre afferma subito a causa della necrosi ansioso depressiva endoreattiva si rileva come la relazione medica prodotta con l'atto introduttivo è generica non evidenziando né la prescrizione né l'esecuzione di alcuno specifico trattamento psicoterapico o farmacologico. Neppure l'attrice ha affermato in sede di anamnesi in occasione della CTU di essersi sottoposta ad accertamenti diagnostici e a trattamenti farmacologici o psicoterapici per la cura della depressione e dell'ansia. Si tratta di documentazione che dovrebbe essere in possesso e nella disponibilità dell'attrice ed acquisibile al processo, eventualmente con ordine di esibizione, atteso che l'attrice ha riferito in sede di anamnesi all'ausiliario del CTU dottor (C) a periodi di congedo per malattia, dette assenze per malattia non sono però provate e quanto rilevato in sede di visita dal dottor (C), costituito essenzialmente da sintomi riferiti dalla parte in sede di un singolo colloquio di cui non si conosce la durata, non appare idoneo a fornire la prova di una stato malattia tale da incidere in modo permanente sulla integrità biologica del soggetto mentre neppure sono documentati specifici periodi d'inabilità temporanea derivanti dalla sindrome predetta.
In conclusione entrambi i genitori hanno diritto al risarcimento del danno morale attesa la gravità della malattia epatica contratta dal minore, in quanto incidente su grave malattia i cui esiti impediscono la somministrazione dell'unico farmaco idoneo ad ostacolarne l'aggravamento. Tenuto conto delle circostanze di fatto predette l'esistenza di una particolare sofferenza morale dei genitori del minore già colpito da grave encefalopatia deve ritenersi provata, detto danno, tenuto conto del danno alla salute subito dal congiunto e delle conseguenti sofferenze morali dei genitori può essere equitativamente e congruamente determinato nella misura di Euro 60.518,62 pari ad un quarto del danno morale liquidato al figlio. Sugli importi complessivi di Euro 726.223,50 per il (...) e di Euro 60.518,62 per ciascuno dei genitori, devalutati con l'applicazione del coefficiente foi ISTAT dei prezzi al consumo in vigore riferiti all'epoca del contagio identificabile nel dicembre 1981 (3,2388) a Euro 224.226,10 per il primo ed Euro 18.685,51 per gli altri, via via ed anno per anno rivalutati, sono dovuti dalla data del contagio, da ricondursi al 15 dicembre 1981 in cui somministrato il plasma, gli interessi compensativi al saggio legale. Ciò al fine di garantire ai danneggiati l'integrale risarcimento del danno anche da lucro cessante per ritardata liquidazione e ristoro del danno. Le spese di lite sono liquidate in dispositivo con riferimento al quantum riconosciuto e seguono la soccombenza del convenuto ministero cui devono essere poste definitivamente a carico anche le spese di CTU.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda deduzione od eccezione respinta, così provvede:
condanna il Ministero della Salute al pagamento in favore di (...) a titolo di risarcimento del danno della somma di Euro 726.223,50 oltre interessi al saggio legale sull'importo originario di Euro 224.226,10, via via ed anno per anno rivalutato, dal 15 dicembre 1981;
condanna il Ministero della Salute al pagamento a titolo di risarcimento del danno in favore di (...) e di (...) della somma di Euro 60.518,62 ciascuno oltre interessi al saggio legale sull'importo di Euro 18.685,51 via via ed anno per anno rivalutato dal 15 dicembre 2001;
rigetta nel resto le domande proposte;
pone definitivamente a carico del ministero convenuto le spese di CTU;
condanna il ministero convenuto al rimborso delle spese di lite liquidate in Euro 985,00 per spese oltre anticipi al CTU ed Euro 734,46 per spese, oltre anticipi al CTU, ed Euro 17.000,00 per diritti e onorari oltre spese generali ed accessori di legge.
Sezione II civile
Sentenza 28 dicembre 2006 - 3 gennaio 2007
(Giudice Bochicchio)
Svolgimento del processo
Con citazione ritualmente notificata i signori (...) e (...) convenivano in giudizio il Ministero della Salute esponendo: che (...) affetto da leuconcefalite acuta virale, fu ricoverato nel dicembre del 1981 presso la clinica pediatrica dell'Università degli Studi di (X) dove fu sottoposto a trasfusioni di plasma a sangue intero in seguito alle quali sviluppò positività ai test anti-HCV con diagnosi nel gennaio 1996 di epatite cronica da HCV; che in seguito a richiesta al Ministero della Sanità d'indennizzo di cui alla legge 210/1992 la commissione medico legale di (XA) riconosceva nella seduta del xx/xx/1998 il nesso causale tra le somministrazioni d'emoderivati e l'epatite cronica attiva HCV correlata ascrivibile alla VIII categoria della tabella A allegata al DPR 834/1981; che nella fattispecie l'evento dannoso era addebitabile alla responsabilità del Ministero convenuto. Ciò premesso gli attori, il (...) e (...) concludevano chiedendo la condanna dell'amministrazione convenuta al risarcimento del danno biologico, morale, patrimoniale ed esistenziale da ciascuno subito per l'importo complessivo di Euro 376.368,74 per (...), di Euro 870.817,00 per (...) e di Euro 582.947,69 per (...) o nella diversa misura da accertare mediante CTU in corso di causa oltre alle spese di lite.
Si costituiva in giudizio il convenuto eccependo pregiudizialmente l'incompetenza per territorio del giudice adito essendo competente ex art 25 c.p.c. il tribunale di (X) e, preliminarmente, il difetto di legittimazione passiva dell'amministrazione convenuta e nel merito l'intervenuta prescrizione del diritto azionato e l'infondatezza della domanda di cui era chiesto il rigetto con vittoria di spese. Esaurita la trattazione, la causa era posta in decisione sulle precisate conclusioni all'udienza del 7 marzo 2006.
Motivi della decisione
L'eccezione d'incompetenza per territorio ex art. 25 c.p.c. deve essere rigettata atteso che gli attori risultano residenti in (XA) dove l'azionata obbligazione deve essere adempiuta tramite la tesoreria erariale. Sulla base della causa petendi esposta in citazione appare sussistente la legittimazione passiva del ministero convenuto. La pretesa risarcitoria è, infatti, fondata sulla condotta omissiva e negligente dell'amministrazione statale sui compiti ad essa affidati dalla legge in materia di raccolta, conservazione ed utilizzo del sangue e dei prodotti da sangue e plasma. Detta condotta sarebbe stata, secondo l'attore, la causa del contagio dal virus HCV da cui sarebbe poi derivata l'epatite cronica lamentata. Come già osservato in precedente decisione di questo tribunale la legge istitutiva del Ministero della Sanità (art. 1 legge 296/1958) attribuiva al dicastero compiti amministrativi di tutela della salute pubblica, con il potere di emanare istruzioni obbligatorie alle amministrazioni pubbliche erogatrici del servizio sanitario. La successiva legge 592/1967 attuata con il regolamento emanato con DPR 1256/1971, assegnava poi espressamente al Ministero della Sanità compiti di vigilanza e controllo in materia di raccolta, preparazione e conservazione del sangue umano destinato alle trasfusioni nonché alla preparazione dei suoi derivati. Detti compiti erano poi esercitati anche tramite l'Istituto Superiore di Sanità (DM 15 settembre 1972) il quale operava quale organo tecnico-scientifico dipendente dall'amministrazione statale (legge 519/1973). I compiti di controllo e e di vigilanza sono stati mantenuti in capo all'amministrazione statale anche dopo l'attuazione della riforma sanitaria approvata con legge 833/1978 e l'istituzione del servizio sanitario nazionale. (art. 4, comma 1, n. 6, lettere b e c). La domanda, che appare fondata sulla responsabilità extracontrattuale dell'amministrazione ex art. 2043 cod.civ. per violazione del principio del neminem laedere, in assenza di rapporto contrattuale o quasi contrattuale e non apparendo configurabile una responsabilità aggravata ex art. 2050 cod.civ. in mancanza dell'attribuzione allo stato di compiti diretti di importazione, raccolta, conservazione, produzione e distribuzione del sangue e dei suoi derivati, è indubbiamente ammissibile fatta salva ogni valutazione di merito. È anche infondata l'eccezione di prescrizione del diritto. Va preliminarmente rilevato come nella fattispecie sia ravvisabile la prescrizione decennale ex art. 2947 comma 3 cod. civ. In base ai fatti come prospettati dall'attore è configurabile il reato d'epidemia colposa di cui agli artt. 432, 458 cod. pen. Il termine prescrizionale non era poi decorso al momento della proporzione della domanda giudiziale. Il contagio e la contrazione della malattia sulla base di quando dedotto risalgono al 1981, quando il (...) fu sottoposto a trasfusioni di plasma per il trattamento di una leucoencefalite. La notifica della citazione in data xx/xx/2003 è quindi tempestiva ed idonea ad interrompere la prescrizione non ancora decorsa perché il termine iniziale della stessa va fatto risalire ai marzo 1995 quando fu presentata richiesta di prestazioni ex lege 210/1992. Detto momento, in cui l'attore ha avuto sicura conoscenza della riferibilità della malattia alle trasfusioni è infatti rilevante ex art. 2935 cod. civ. ai fini dell'individuazione del giorno a partire da cui il diritto al risarcimento può essere fatto valere. Nel merito la domanda appare fondata. Sulla base della documentazione prodotta dalle parti è stata espletata c.t.u. medico legale. Dalla relazione del consulente tecnico d'ufficio dottor (A) emerge che il (...) fu sottoposto nel dicembre 1981 a terapia con somministrazione di plasma e sangue. In seguito l'attore sviluppò un'epatite, diagnosticata nel 1991 la positività agli anticorpi HCV con successiva immediata diagnosi di epatite cronica HCV. Il c.t.u. ha concluso affermando l'esistenza di rapporto causale tra i trattamenti predetti come già riconosciuto dall'amministrazione in sede assistenziale. Il danno all'integrità biologica dell'attore è stato quantificato nella misura del 71% della complessiva. Alla luce delle conclusioni del CTU, che appaiono corrette, congruamente motivate e rispondenti all'esito degli accertamenti tecnici svolti, appare certo il nesso di causalità tra i trattamenti trasfusionali e con emoderivati e il contagio con il virus HCV e il conseguente sviluppo della malattia epatica. Detto nesso di causalità è stato peraltro già accertato in sede amministrativa dalla Commissione Medico Ospedaliera ai sensi dell'art. 4 della legge 210/1992 e va ritenuto indiscutibile, attesa l'assenza di altre possibili cause di contagio. Alla luce delle considerazioni che seguono è anche provata la responsabilità civile extracontrattuale del Ministero convenuto. Nel dicembre 1981, epoca del contagio, la malattia era già nota come epatite non A non B pur non essendo stato ancora identificato l'agente virale perché il virus HCV fu individuato solo nel 1988 in seguito ai noti esperimenti dei biologi molecolari della (B) e la messa a punto del test sierologico per la determinazione dell'anticorpo omologo che permise di diagnosticare in positivo l'infezione e di eseguire il test per l'identificazione del virus nel sangue e nei prodotti da somministrare avvenne nei primi mesi del 1989. Era poi noto anche che una delle principali modalità di trasmissione del virus era quella parenterale. Alla luce di quanto sopra il Ministero avrebbe dovuto porre in essere tutti gli accorgimenti utili e necessari al fine di ridurre i rischi di contagio, esercitando i suoi poteri di vigilanza e controllo sulla sicurezza del sangue utilizzato per le trasfusioni, essendo nota la pericolosità del sangue come veicolo di trasmissione di infezioni epatiche.
Richiamando quanto affermato da questo tribunale si osserva che il Ministero aveva il dovere di porre in essere tutte le cautele e le misure precauzionali conosciute dalla scienza, l'aver omesso di effettuare i controlli effettivi di laboratorio sul sangue (anche importato da Paesi ove i donatori venivano remunerati e che, per tale motivo, era meno sicuro) e, comunque, il non aver dimostrato di aver vigilato sull'effettuazione, da parte delle strutture operative competenti, dei controlli che potevano rivelare la presenza di infezioni all'epoca conosciute (quali quelle derivanti dal virus dell'epatite B), nonché l'aver omesso comunque, il non aver dimostrato di aver vigilato sull'effettuazione delle opportune indagini anamnestiche sui donatori del sangue, ne determina la responsabilità anche per le infezioni che all'epoca non erano ancora conosciute dal punto di vista molecolare (epatite NANB ed HIV), atteso che il rischio della diffusione di queste ultime infezioni sarebbe stato verosimilmente scongiurato qualora fossero state adottate le misure precauzionali note per contrastare malattie diverse e conosciute (sin dai primi degli anni '70) quali, in particolare, l'epatite B (ad esempio, gli artt. 65 ss. del DM 18/6/1971 e 44 ss. del d.p.r. n. 1256/1971 prescrivevano controlli sull'idoneità dei donatori del sangue secondo le tecniche nel tempo note; la circolare ministeriale n. 1188 del 30/6/1971 raccomandava l'importanza dell'esecuzione sistematica della ricerca dell'antigene Australia, cui fu poi dato il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite B, su tutto il sangue destinato alla trasfusione e prevedeva l'obbligo di eseguire tutti gli accertamenti possibili; l'art. 47, lett. h), del d.p.r. 24/8/1971 stabiliva che «non possono essere accettati come donatori coloro che negli ultimi sei mesi abbiano avuto contatti con epatitici»; il DM 15/9/1972 subordinava l'autorizzazione all'importazione di sangue dall'estero alle medesime cautele ed ai controlli di laboratorio prescritti per il sangue nazionale). Prima che fosse messo a punto il test che consentiva la rilevazione del virus HCV, inoltre, erano diffusi metodi alternativi ed indiretti di rilevazione che consentivano di identificare le persone considerate a rischio di trasmettere malattie virali e che avrebbero, quindi, dovuto essere escluse dalla donazione, il che non avvenne, come con certezza si desume dall'alto numero di contagi verificatisi, senza che l'ente apicale (cioè il Ministero), che prima e più di ogni altro era nelle condizioni di conoscere, applicare e vigilare sull'applicazione delle misure precauzionali da parte delle strutture operative, si fosse attivato concretamente per la salute degli utenti del servizio sanitario. In particolare, tra i metodi usati vi era quello per l'individuazione degli anticorpi (anti-HbcAg) in soggetti che erano entrati in contatto con il virus dell'epatite B: «questo metodo era stato scelto poiché una serie di studi dimostrava che la maggior parte dei pazienti con Aids era positiva anche per l'anti-Hbc l'anti Hbc è sfato considerato come un marker di popolazioni per gruppi a rischio di contrarre l'Aids e, quindi, potenzialmente infettivi» (v. E.G. Rondanelli, Aids - La sindrome da immunodeficienza acquisita, a cura di E.G. Rondanelli, ed. Piccin, Padova, 1987, 384, ed ivi rif.); è significativo che già il citato art. 44 d.p.r. n. 1256/1971 prevedeva l'esclusione dalla donazione di chi era o, anche, era stato affetto da epatite virale, in considerazione della maggiore esposizione di questi soggetti ad altri (pur se ignoti) rischi virali veicolati dal sangue.
Altro metodo indiretto usato era offerto dalla determinazione delle transaminasi e, in particolare, della ALT (alanina transaminasi). La determinazione di questo enzima che era noto per essere al di sopra della media e, quindi, alterato nei soggetti con patologie epatiche e, in particolare, nelle epatiti, poteva rivelare la presenza di infezioni da virus non ancora conosciuti e cioè non noti dal punto di vista della caratterizzazione molecolare (come appunto l'HIV e l'HCV), sicché già con circ. del 28/3/1966, n. 50 (par. F) il Ministero della sanità così si esprimeva: «Non si conosce attualmente nessuna prova di laboratorio che permetta di mettere in evidenza con sicurezza tutti i portatori di virus epatico. Tuttavia è da prescrivere la determinazione sistematica e periodica delle transaminasi steriche dei donatori. Su ciascun quantitativo di sangue prelevato dai singoli donatori dovranno essere praticate le predette determinazioni e nel caso di risultati abnormi ... nel fondato sospetto che il donatore possa essere portatore di virus epatico, il donatore stesso sarà sottoposto ad ulteriori accertamenti ed il quantitativo di sangue prelevato sarà destinato esclusivamente alla produzione di gammaglobuline ... o di albumine». Non solo il Ministero non ha (e, in ogni caso, non ha allegato né dimostrato di avere) posto in essere concrete misure operative di vigilanza e controllo sul rispetto di tale raccomandazione da parte delle case farmaceutiche e dei soggetti direttamente coinvolti nella produzione e commercializzazione del sangue utilizzato per le trasfusioni e la produzione di emoderivati ma ha imposto l'obbligo di effettuare lo screening per l'ALT sulle unità di sangue ai fini proprio della ricerca indiretta degli anticorpi anti HCV soltanto con D.M. 21 luglio 1990.
Si è stimato, in ambiente americano, che l'adozione generalizzata e tempestiva nei primi anni '80 delle metodiche alternative di ricerca della presenza nel sangue dell'antigene rivelatore dell'epatite B ovvero di una pregressa esposizione del donatore a questo virus ovvero, in genere, un miglior controllo sulla purezza dei sangue secondo le metodologie già conosciute, avrebbe consentito di ridurre dell'80% il rischio di trasfondere sangue infetto da HIV (v. S.A. Galel, J.D. Lifson, E.G. Engleman, Prevention of Aids Transmission through screening of the blood supply, in Annual Review of immunology, 1995, 13:201-27). Si è, soprattutto, osservato che «la ricerca sistematica di HbsAg (cioè dell'antigene di superficie del virus dell'epatite B) nella routine della emo trasfusione ha comportato una riduzione delle epatiti post-trasfusionali» (tra cui quella «non A non B» poi identificata come C) (v. Angelillo, Appunti dalle lezioni del corso di igiene e medicina preventiva, ed. Intercontinentalia, Napoli, 365). Anche nella letteratura medico-legale (A. Carbone, Epatite C post trasfusionale. Problematiche medico legali, in Zacchia, 1995, 44) si è ritenuto che «la comparsa di un'epatite C post trasfusionale potrà configurare le ipotesi della negligenza e dell'imprudenza: la prima ove si accertasse che, per dimenticanza o disattenzione omessa l'esecuzione dei tests obbligatoriamente prescritti; la seconda ove si accertasse che quel determinato sangue non è stato eliminato, nonostante presentasse, per esempio alti valori di transaminasi, adottando cioè quelle cautele consigliate dalla ordinaria esperienza». Ai fini dell'affermazione della responsabilità del Ministero anche nei confronti di coloro che, per quanto qui interessa, hanno contratto il virus dell'HCV prima del 1989 soccorre, inoltre, l'argomento della giuridica irrilevanza in campo extracontrattuale che l'infezione virale non fosse ancora ben conosciuta al momento della condotta illecita omissiva, quando le misure precauzionali obbligatorie omesse (prescritte ovvero consigliabili per contrastare la diffusione di virus noti) avrebbero consentito di ridurre l'insorgenza anche di infezioni virali ancora non conosciute. La tendenziale coincidenza epidemiologica dei virus in questione (particolarmente alta tra HCV ed epatite B) nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione ed identiche le precauzioni necessarie, nonché la gravità delle omissioni e dei ritardi del Ministero nella prevenzione di infezioni note (epatite B) e l'efficacia (scientificamente dimostrata) che i mezzi di contrasto dei virus conosciuti avrebbero avuto nella prevenzione dei virus identificati solo successivamente, sono tutti elementi che concorrono a giustificare la responsabilità del Ministero della salute, anche in considerazione del principio civilistico dell'estensione della responsabilità aquiliana ai danni non prevedibili (è noto che, in campo extracontrattuale, in considerazione dell'omesso richiamo dell'art. 1226 nell'art. 2056 c.c. il danno risarcibile non può essere limitato alle sole conseguenze dannose strettamente prevedibili).
Questi principi, costantemente ribaditi dal Tribunale di Roma a partire dalla sentenza n. 23097/2001 cit. (confermata dalla Corte di appello di Roma con sentenza 12/1/2004, n. 107), non sembrano condivisi dalla recente sentenza della Cassazione del 31/5/2005, n. 11609. In particolare, investita dell'impugnazione contro la sentenza n. 3242 emessa il 4/10/2000 dalla Corte di appello di Roma, che aveva deciso sul gravame avverso Trib. Roma 27/11/1998 cit., e decidendo sui ricorsi principale ed incidentale proposti da taluni danneggiati, la cui domanda, era stata respinta perché le infezioni erano state verosimilmente contratte in data anteriore all'epoca di individuazione delle relative patologie infettive, la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del giudice di appello, laddove aveva stabilito che la responsabilità del Ministero può essere affermata solo a partire dal 1978 per l'epatite B, dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'epatite C. Argomentando dalla distinzione fra causalità materiale e giuridica e dalle peculiarità della responsabilità per omissione rispetto alla responsabilità per condotta omissiva, la Cassazione ha affermato, in particolare, i seguenti principi: a) «finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale i virus dell'HIV, HBC ed HCV e quindi i test d'identificazione degli stessi, proprio perché l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, poiché addirittura anche, astrattamente sconosciuto, manca il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non può darsi rilievo che a quelle soltanto che, al momento in cui si produce l'omissione causante e non successivamente, non appaiono del tutto inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa»; b) «per quanto sembri trattarsi di colpa specifica, in quanto trattasi di violazione di regole espresse che assegnavano tali obblighi al Ministero, tuttavia, poiché è evidente che il legislatore non potesse conoscere prima ancora della Comunità scientifica mondiale l'esistenza dei virus in questione, allorché si va a determinare il contenuto concreto della condotta genericamente dovuta, ma omessa, ciò va necessariamente correlato alla prevedibilità dell'evento che il Ministero avrebbe dovuto evitare» di talché «in questo caso, stante l'atipicità della condotta dovuta, la responsabilità da omissione sorge, secondo l'ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante fondato sulla prevedibilità dello stesso»; c) in quanto «le tre infezioni costituiscono tre differenti eventi lesivi, la responsabilità del Ministero va accertata, sia relativamente al nesso causale che alla colpevolezza, con riferimento ad ognuno dei tre virus, e quindi alla prevedibilità degli stessi, con la conseguenza che, essendo stati conosciuti i virus HIV e HCV solo successivamente - rispettivamente negli anni 1985 e 1988 - da dette date successive è configurabile la responsabilità del Ministero per gli stessi»; d) «si giungerebbe ad un'ipotesi di responsabilità sconosciuta all'ordinamento ed ancora più rigorosa di quella cd. da rischio da sviluppo in tema di responsabilità del produttore» perché verrebbe posta «a carico del Ministero, che pure è chiamato in giudizio esclusivamente a norma dell'art. 2043 c.c., al di fuori da ogni ipotesi di presunzione di colpa o di responsabilità, la responsabilità per un evento lesivo sconosciuto a tutti e, quindi come tale non evitabile»; e) «occorre, ai fini del nesso causale, e della colpa, che questi siano individuati in relazione ad uno specifico evento lesivo e non in relazione ad una generica pericolosità delle trasfusioni, come possibile veicolo di infezioni».
Per quanto l'impostazione di fondo della sentenza n. 11609/05 in ordine ai criteri di accertamento del nesso causale e della colpevolezza del soggetto agente nell'illecito per omissione sia condivisibile, non altrettanto appare essere l'applicazione che ne è stata data nel caso esaminato, come efficacemente rilevato, di recente, anche dalla sentenza del Tribunale di Roma in data 29/8/2005 (nella causa Andreutti L. ed altri c. Ministero della salute, iscritta al r.g. n. 38362/2002). Da una attenta lettura della motivazione della sentenza n. 11609/05 si evince la convinzione dei giudici di legittimità della totale ed oggettiva diversità dell'evento lesivo che colpisce i soggetti sottoposti a trasfusioni di sangue o a somministrazione di emoderivati a seconda del tipo di patologia contratta (HCV, HBV, HIV).
Sostiene, infatti, la Suprema Corte che, essendo diversi gli eventi lesivi, occorre valutare - secondo i consolidati principi richiamati nella decisione - il nesso causale e la colpevolezza del Ministero convenuto con specifico riguardo ad ognuno di essi. È invece proprio tale diversità di eventi che non sussiste, tanto nella fattispecie esaminata dalla Cassazione quanto in quella oggetto del presente giudizio. Invero l'evento dannoso, almeno in senso giuridico (l'unico rilevante in giudizio) è sempre lo stesso e consiste nella lesione dell'integrità psico-fisica del soggetto sottoposto (come nel caso in esame) alla pratica trasfusionale. È quindi, questo l'evento lesivo cui occorre fare esclusivo riferimento nella valutazione degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana e, in particolare del nesso di causalità materiale con la condotta omissiva del Ministero e dell'elemento soggettivo della colpa. Diversità sussiste quanto all'agente patogeno biologicamente responsabile della lesione e cioè alla identificazione del tipo concreto di lesione dell'integrità psico-fisica ma ciò non incide direttamente sulla responsabilità giuridica del soggetto che, con la sua omissione colposa, contribuì nella (e, quindi, giuridicamente determinò, ex art. 40 comma 2, c.p.) la diffusione di quell'agente patogeno. Il progredire delle conoscenze scientifiche, infatti, ha permesso solo di potere individuare con esattezza i virus che causano l'infezione e di identificarli con specifici test, senza per questo costituire un elemento di novità nella serie causale, già ben nota fin dai primi anni '70, «trasfusione e/o somministrazione di emoderivati-contagio infettivo-lesione dell'integrità psicofisica». Ecco perché non appare pertinente al caso di specie il principio, ribadito nella sentenza della Cassazione n. 11609/05, secondo cui «all'interno delle serie causali non può darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce remissione causante e non successivamente, non appaiono del tutto inverosimili». A parte che il riferimento alla apparenza di inverosimiglianza delle serie causali sembrerebbe introdurre nell'ambito del discorso sul nesso di causalità materiale elementi propri del diverso giudizio sull'elemento soggettivo della colpevolezza, la Corte nella sostanza ritiene che, al momento della trasfusione (e, quindi, della condotta omissiva imputata al Ministero), fosse inverosimile l'insorgenza nel futuro di malattie infettive (in quel momento) non conosciute in quanto provocate da virus non (ancora) individuati dalla scienza medica. Il rapporto causale con la trasfusione (e, di conseguenza, con la condotta omissiva) non sarebbe riconoscibile, non essendo ravvisabili nella specifica conseguenza dannosa quei caratteri di normalità, ordinarietà ed adeguatezza in cui deve consistere il nesso di causalità materiale secondo la giurisprudenza (cd. teoria della conditio sine qua non, temperata dalla teoria, della causalità adeguata o della regolarità causale). Tuttavia, per poter condividere questa conclusione, si dovrebbe ritenere che l'autore di una condotta lesiva dell'integrità fisica di altro soggetto risponderebbe solo delle malattie note alla (e già studiate dalla) scienza a quel tempo mentre non sarebbe responsabile (per mancanza del nesso causale) delle malattie provocate da quella medesima condotta quando non ancora studiate dalla scienza e che, per questa, sarebbero straordinarie o inverosimili al momento della condotta illecita. In realtà, poiché le regole (specifiche) prescrittive di determinate cautele (richiamate nel punto 2.3) - nella fase di raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano, e riguardanti, tra l'altro, i controlli sull'idoneità dei donatori; la ricerca dell'antigene del virus dell'epatite B sul sangue utilizzato per le trasfusioni; i rigidi controlli di laboratorio previsti per l'autorizzazione all'importazione di sangue dall'estero, ecc. - volte a garantire la sicurezza del sangue utilizzato nelle pratiche trasfusionali, sul cui rispetto il Ministero ha omesso di vigilare, erano poste a tutela della salute umana e poiché l'evento dannoso del quale si discute è proprio la lesione dell'integrità psico-fisica, il nesso di causalità materiale è da ritenere accertato, dovendosi presumere che quelle cautele erano idonee ad impedire il verificarsi di quella lesione (cfr., in generale, Cass. 8/1/1968, n. 40).
Questa presunzione, inoltre, è stata ulteriormente avvalorata dalla dimostrazione che comune è la eziopatologia dell'epatite B e dell'epatite da HCV, nel senso che identiche sono le modalità di trasmissione dei virus ed identiche le precauzioni necessarie, e che l'adozione delle cautele previste per l'una avrebbe anche impedito la (o considerevolmente attenuato il rischio della) insorgenza della seconda, e la Cassazione non ha esplicitamente affermato il contrario (né avrebbe potuto attenuarlo, trattandosi di valutazione in fatto). La già dimostrata, tendenziale coincidenza epidemiologica tra le infezioni in questione (epatite da HBV, HCV ed infezione da HIV), oltre che essere un dato acquisito nella letteratura scientifica (Rondanelli op. cit. p. 384: «il modello epidemiologico dell'Aids era infatti strutturalmente simile a quello dell'epatite B che è spesso diffusa attraverso il contatto parentelare con il sangue... »), è riconosciuto anche dal Ministero della sanità, nella cui circolare n. 64/1983 si legge a proposito dell'HIV (e a maggior ragione il discorso vale per l'HCV) : «i dati epidemiologici e clinici orientano verso una eziologia virale a trasmissione sessuale e parenterale simile a quella dell'epatite B». Si è detto anche delle regole di comune prudenza (ci si riferisce ai metodi di rilevazione indiretta dei virus fondati sulla determinazione delle transaminasi e di individuazione degli anticorpi - anti-HbcAg) che, seppur non specificamente imposte da una fonte normativa primaria, il Ministero della salute avrebbe dovuto prescrivere ed attuare al fine di ridurre al minimo la verificazione dei rischi infettivi intrinseci nell'utilizzazione del sangue umano a scopi terapeutici (anche dovuti alla circolazione di virus nuovi e non ancora conosciuti). La Cassazione osserva che il legislatore, al tempo in cui emanò le norme prescrittile delle cautele da osservarsi nella pratica trasfusionale, non poteva conoscere quanto non era conosciuto nemmeno dalla comunità scientifica, in ordine al rischio di diffusione di virus scoperti solo molti anni più tardi. Tuttavia, le cautele prescritte dalla normativa in materia trasfusionale non sono poste specificamente in funzione di tutela contro il rischio di un determinato virus ma contro il rischio della lesione dell'integrità psico-fìsica valutata nella sua unitaria complessità, in considerazione della potenzialità nociva intrinseca del sangue umano (è significativo che, secondo Cass. n. 6241/1987, il rischio di contagio del virus dell'epatite B non è espressamente previsto dalla normativa riguardante gli emoderivati ma tuttavia è compreso nell'ampia prevenzione stabilita dalla medesima). Nella logica della sentenza n. 11609/05, inoltre, non sarebbe possibile affermare la responsabilità di alcun soggetto per le infezioni da epatite B contratte in epoca precedente all'anno 1978 (in cui, secondo la stessa sentenza, sarebbe stato individuato il virus dell'epatite B), nonostante la violazione delle norme prescrittile di cautele specifiche già da molto tempo vigenti a garanzia della sicurezza del sangue. Ed invece la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass. n. 6241/1987 cit.; Trib. Milano 19/11/1987, Foro it., 1988, I, 144) ha ammesso la responsabilità del produttore di farmaci che avevano causato la diffusione dell'epatite B in epoca molto precedente all'anno 1978 sul presupposto che le norme cautelative violate erano finalizzate non già a contrastare il rischio della diffusione di questo o quel virus particolare ma a tutelare l'integrità psico-fisica della persona. Né varrebbe l'obiezione che la giurisprudenza richiamata ciò ha statuito facendo applicazione dell'art. 2050 c.c. in tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, atteso che, quanto alla valutazione (ed alla struttura) del nesso causale (che la sentenza n. 11609/05 ha in radice negato nei casi di contagio di virus non ancora individuati dalla scienza al momento della condotta), nessuna differenza sussiste rispetto al modello di responsabilità aquiliana disciplinato dall'art. 2043 c.c. Si è accennato ai metodi di purificazione del sangue (cd. termotrattamento, metodo antivirucidico, ecc.) che lo rendevano sicuro rispetto al rischio di trasmissione di agenti infettivi (sul punto si fa rinvio al par. 10 b-c della citata sentenza del Tribunale di Roma del 14/6/2001). Si è anche precisato che tali metodi sono efficaci soltanto per gli emoderivati (ed i derivati del plasma) ma non sul sangue intero (utilizzato per le trasfusioni) e sui suoi componenti cellulari, i quali, se sottoposti ai suddetti procedimenti chimici o fisici, sarebbero alterati e distrutti. Poiché tali metodi (già sperimentati a partire dal 1983 ed imposti dal Ministero nel 1985 con circ. del 17/7/1985 n. 28) sono idonei ad inattivare tutti i virus in questione (HIV, HCV, HBV), risulta non comprensibile il riferimento operato nella sentenza n. 11609/05 all'anno in cui il virus HCV fu identificato (1988) come data a partire dalla quale soltanto si potrebbe affermare la responsabilità civile del Ministero anche per il contagio dell'epatite da HCV causato dalla somministrazione di emoderivati. È infatti, irrilevante che nel 1985 il virus HCV non fosse stato identificato, dovendo il Ministero a partire già da quell'anno vigilare sull'effettiva attuazione del termo trattamento e dei metodi di inattivazione che erano conosciuti seppur per contrastare i virus allora noti dell'epatite B e dell'HIV (si rinvia, sul punto, al par. 10 b-c della sentenza del Tribunale di Roma sopra citata). Ed ancora, pur ipotizzando che la individuazione di nuovi virus con il progredire della scienza medica costituisca (anziché, come si dovrebbe, un fattore naturale estraneo alla sequenza causale «trasfusione - contagio infettivo - lesione dell'integrità psico-fisica») una azione od omissione umana ovvero una serie causale concorrente rispetto a quella originaria osserva che, nel caso delle infezioni post-trasfusionali da HCV, la scoperta del virus responsabile dell'HCV non costituisce affatto una causa autonoma dell'evento lesivo idonea ad interrompere il nesso causale con la condotta originaria (anche omissiva) causativa dell'infezione da HBV. La sola e costante causa del contagio rimane l'uso del sangue proveniente da donatori infetti e l'omissione colposa del soggetto che aveva l'obbligo di impedirlo. Poiché le condizioni ambientali o i fattori naturali, non possono dar luogo, senza rapporto umano, all'evento di danno, l'autore del comportamento (in questo caso omissivo) è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità (cfr. Cass. n. 2335/2001).
In conclusione, il nesso di causalità sussiste ed in relazione non già alla generica pericolosità delle trasfusioni ma ad un preciso evento dannoso costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica. Anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo le conclusioni della Cassazione non appaiono convincenti. È senz'altro condivisibile l'affermazione secondo cui «la responsabilità da omissione sorge, secondo l'ordinario criterio della colpa, ogni volta che il danno poteva essere prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante»; non lo è invece quella per la quale «essendo stati conosciuti i virus HIV e HCV... negli anni 1985 e 1988, da dette date ... è configuratile la responsabilità del Ministero per gli stessi». Si è detto che la condotta omissiva imputata al Ministero è di avere violato sia norme cautelari scritte sia regole non scritte di comune prudenza a tutela della salute umana. Quanto alle prime (in relazione alle quali è configurabile una colpa specifica), è noto che prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso sono assorbite nella stessa norma cautelare che è oggetto della trasgressione e per questo, non hanno bisogno di dimostrazione (che comunque è stata ampiamente offerta nel caso specifico), in quanto l'inosservanza della regola scritta comporta, di per sé, imprudenza e negligenza con conseguente responsabilità colposa per gli eventi dannosi che esse mirano a prevenire (si tratta, nel caso in esame, della lesione dell'integrità psico-fisica determinata dal contagio di malattie infettive veicolate dal sangue). Quanto alle seconde (la cui esigibilità non è esclusa dall'esistenza di regole specifiche), sotto il profilo della imprudenza, imperizia e negligenza, la colpa (generica) è da ravvisare «ogni qual volta manchi la rappresentazione da parte dell'agente, secondo il criterio della media diligenza ed attenzione, della possibilità dell'evento dannoso, poi in concreto verificatosi» (v. Cass. n. 1656/1981). Richiedere, come ritenuto dalla Cassazione nella sentenza n. 11609/05, che, perché ne possa essere affermata la responsabilità aquiliana colposa, l'agente debba non solo prevedere, al momento della condotta, la possibilità dell'evento dannoso costituito dalla lesione della salute ma identificare anche il particolare tipo di virus che sarà responsabile di quella lesione, significa, già in astratto, configurare per la pubblica amministrazione un modello di responsabilità civile diverso da quello delineato dall'art. 2043 c.c (e 28 Cost.), per il quale è sufficiente la colpa lieve, non richiedendosi né il dolo né la colpa grave. Una ulteriore incongruenza sembra ravvisabile nell'orientamento seguito dalla Suprema Corte.
Poiché le caratteristiche e la gravità della malattia infettiva specifica dipendono dal tipo di virus responsabile del contagio, il richiedere (ai fini della stessa configurabilità di una responsabilità dell'agente) la esatta conoscenza (già al momento della condotta) del tipo particolare di virus che nel futuro potrà essere veicolato dal sangue, produce l'effetto di applicare in campo extracontrattuale la limitazione (valida solo in campo contrattuale) della responsabilità ai soli danni prevedibili. In altri termini, poiché l'entità della lesione all'integrità psico-fisica (ed il quantum debeatur) dipendono in concreto dal tipo di infezione virale, il limitare la responsabilità dell'agente alle sole patologie provocate da determinati virus (conosciuti al momento della condotta) e non da altri, significa violare il principio che in materia extracontrattuale va risarcito, sotto il profilo del quantum, anche il danno imprevedibile, non essendo l'art. 1225 richiamato dall'art. 2056 c.c. (v., tra le tante, Cass. n. 2488/1979 e 6725/2005; è infatti solo alla responsabilità contrattuale che si riferisce il principio, ribadito da Cass. n. 3102/2000, secondo cui «il concreto ammontare del risarcimento non può eccedere l'entità prevedibile nel momento in cui è sorta l'obbligazione inadempiuta»). Infine, l'orientamento qui non condiviso contrasta con quello seguito in Francia dal Consiglio di Stato (v. decisione del 9/4/1993, in Recueil Dalloz, 1993, J. 312) che, nell'individuare il sorgere della responsabilità civile dello Stato per i danni da contagio dell'HIV a seguito di trasfusione o di uso di emoderivati, ha fatto riferimento non già alla data di identificazione del virus dell'HIV in sede scientifica (cioè al 1985) ma a quella, comunque precedente, in cui l'Amministrazione sanitaria, pur informata della pericolosità del sangue come veicolo di infezioni virali, non aveva adottato tempestivi provvedimenti a tutela della salute pubblica, avendo soltanto con circolare del 20/10/1985 vietato la distribuzione degli emoderivati infetti. Si consideri che il Ministero della salute italiano ha ritardato sino al 1988 la decisione di ritirare dal commercio i farmaci non sottoposti al termotrattamento, a seguito del parere del Consiglio superiore di sanità in data 17/3/1988 (v., sul punto, il p. 10 b di Trib. Roma 14/6/2001 cit.). Anche volendo seguire la decisione della Corte di Cassazione nel suo iter argomentativo si osserva che la diffusione dell'epatite NANB quale conseguenza del mancato rispetto delle cautele predette era rischio già prevedibile nel 1981 tenuto conto delle conoscenze già allora esistenti sulla malattia in relazione alla origine virale e trasmissione parenterale atteso il collegamento tra l'esclusione dei donatori con ALT elevata e la diminuzione del rischio di contrazione dell'epatire NANB era conosciuta sin dal 1978 nel mondo scientifico con la diffusione delle conclusioni preliminari del Transfusion Transmitted Viruses Study le cui definitive conclusioni furono pubblicate sul NEJM nell'aprile del 1981. Inoltre già dal 1974 la letteratura scientifica aveva proposto la cautela dell'esclusione dalla donazione dei soggetti con elevate transaminasi poi convalidata dal risultato dello studio citato. Si può quindi concludere che quando il (...) fu sottoposto alle trasfusioni erano disponibili idonei strumenti diagnostici e di prevenzione in grado di impedire l'evento, ex ante oggettivamente prevedibile, della trasmissione per mezzo delle trasfusioni e della somministrazione di emoderivati di malattie virali epatiche inclusa l'epatite NANB.
L'aver tardivamente imposto detti controlli concreta quindi condotta colposa causativa del danno ascrivibile all'amministrazione ex art. 2043 cod. civ. La convenuta amministrazione va quindi condannata al risarcimento del danno subito dall'attore. Tenuto conto dello sviluppo della malattia, non trattabile farmacologicamente per la controindicazione a causa dei postumi dell'encefalite alla somministrazione dell'Interferone, è condivisibile la valutazione del danno biologico permanente nella misura del 71% della validità complessiva operata dal CTU con osservazioni da intendersi qui richiamate. Tenuto conto dell'età del (...) al momento della contrazione della infezione epatica (3 anni) e di tutte le circostanze del fatto, tenuto altresì conto dei precedenti giudiziari dell'ufficio elaborati in tabelle, il danno permanente all'integrità biologica dell'attore appare quantificabile nella misura di Euro 484.149,00 complessivi con valutazione che tiene conto della rivalutazione alla data odierna in base, agli indici ISTAT dei prezzi al consumo (foi nt). Considerata la già esposta rilevanza penale dell'illecito aquiliano (lesioni colpose, epidemia colposa) e dell'avvenuta lesione del bene salute tutelato dalla Costituzione, l'attore ha anche il diritto al risarcimento del danno morale ex artt. 2059 c.c., 185 c.p. nella misura che appare congrua, compresa la rivalutazione ad oggi di Euro 242.074,50 complessivi pari alla metà del danno biologico.
Benché la malattia epatica abbia cagionato a giudizio del CTU una lesione alla capacità lavorativa generica dell'attore deve osservarsi che non vi è prova di danno patrimoniale avendo il (...) conseguito impiego presso società di capitali controllata dal Comune di (XA) (pag. 11 della relazione di c.t.u.) per cui la domanda di risarcimento del danno patrimoniale deve essere rigettata. Neppure vi è prova di un danno esistenziale trascendente il mero danno biologico, con rigetto sul punto della domanda. Dagli atti emerge il riconoscimento del nesso di causalità ai fini delle provvidenze ex lege 210/1992 previsto per la settima categoria di cui alla tabella A allegata al DPR 30 dicembre 1981 n. 834. L'importo annuale dell'eventuale beneficio riconosciuto dovrebbe essere detratto dall'importo del danno biologico complessivo. Per espressa volontà della legge la prestazione in questione, pur concretando una forma di assistenza obbligatoria, ha espressa natura indennitaria a ristoro della lesione all'integrità biologica (psico-fisica) della persona. Si tratta di prestazione tabellare di natura certamente non previdenziale, in quanto erogata in presenza dei soli presupposti del nesso di causalità tra attività trasfusionale e di somministrazione di emoderivati e il danno alla salute. L'erogazione appare assimilabile alla pensione privilegiata erogata ex artt. 64-67 DPR 1092/1973 ai militari di leva che riportino lesioni od infermità per fatti di servizio ed alle pensioni di guerra di cui al DPR 915/1978. Anche nel caso delle provvidenze di cui alla legge 210/1992 ci troviamo, infatti, di fronte a prestazioni indennitarie destinate, così come il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., alla tutela del medesimo bene giuridico costituito dall'integrità biologica della persona fisica.
Non vi è prova però dell'effettivo riconoscimento del beneficio e del suo ammontare. In assenza prova del quantum dell'aliunde perceptum nessuna decurtazione può essere operata sull'importo riconosciuto a titolo di risarcimento. In relazione alle domande risarcitorie proposte dai genitori del (...) può essere riconosciuta solo quella del danno morale. Per quanto riguarda il padre si rileva che nessuna prova concreta è stata offerta del dedotto danno non patrimoniale biologico-esistenziale e del danno patrimoniale, in quanto le circostanze capitolate in prova testimoniale rilevano solo ai fini di un generico disagio nella vita familiare con l'adozione di cautele al fine di evitare contagi ed il trasferimento del padre in altra città senza essere accompagnato dalla famiglia con necessità di pendolarismo di fine settimana tra (XB) e (X). Si tratta di circostanze che non comportano un'effettiva incisione e danno nella vita relazionale, sociale ed affettiva della persona che giustifica il risarcimento della specifica voce di danno non patrimoniale.
In relazione alla madre, oltre quanto osservato per il padre, si rileva che non vi è prova che l'attrice abbia lasciato il lavoro per accudire il figlio il quale risulta svolgere attività lavorativa. Sul danno biologico permanente che la madre afferma subito a causa della necrosi ansioso depressiva endoreattiva si rileva come la relazione medica prodotta con l'atto introduttivo è generica non evidenziando né la prescrizione né l'esecuzione di alcuno specifico trattamento psicoterapico o farmacologico. Neppure l'attrice ha affermato in sede di anamnesi in occasione della CTU di essersi sottoposta ad accertamenti diagnostici e a trattamenti farmacologici o psicoterapici per la cura della depressione e dell'ansia. Si tratta di documentazione che dovrebbe essere in possesso e nella disponibilità dell'attrice ed acquisibile al processo, eventualmente con ordine di esibizione, atteso che l'attrice ha riferito in sede di anamnesi all'ausiliario del CTU dottor (C) a periodi di congedo per malattia, dette assenze per malattia non sono però provate e quanto rilevato in sede di visita dal dottor (C), costituito essenzialmente da sintomi riferiti dalla parte in sede di un singolo colloquio di cui non si conosce la durata, non appare idoneo a fornire la prova di una stato malattia tale da incidere in modo permanente sulla integrità biologica del soggetto mentre neppure sono documentati specifici periodi d'inabilità temporanea derivanti dalla sindrome predetta.
In conclusione entrambi i genitori hanno diritto al risarcimento del danno morale attesa la gravità della malattia epatica contratta dal minore, in quanto incidente su grave malattia i cui esiti impediscono la somministrazione dell'unico farmaco idoneo ad ostacolarne l'aggravamento. Tenuto conto delle circostanze di fatto predette l'esistenza di una particolare sofferenza morale dei genitori del minore già colpito da grave encefalopatia deve ritenersi provata, detto danno, tenuto conto del danno alla salute subito dal congiunto e delle conseguenti sofferenze morali dei genitori può essere equitativamente e congruamente determinato nella misura di Euro 60.518,62 pari ad un quarto del danno morale liquidato al figlio. Sugli importi complessivi di Euro 726.223,50 per il (...) e di Euro 60.518,62 per ciascuno dei genitori, devalutati con l'applicazione del coefficiente foi ISTAT dei prezzi al consumo in vigore riferiti all'epoca del contagio identificabile nel dicembre 1981 (3,2388) a Euro 224.226,10 per il primo ed Euro 18.685,51 per gli altri, via via ed anno per anno rivalutati, sono dovuti dalla data del contagio, da ricondursi al 15 dicembre 1981 in cui somministrato il plasma, gli interessi compensativi al saggio legale. Ciò al fine di garantire ai danneggiati l'integrale risarcimento del danno anche da lucro cessante per ritardata liquidazione e ristoro del danno. Le spese di lite sono liquidate in dispositivo con riferimento al quantum riconosciuto e seguono la soccombenza del convenuto ministero cui devono essere poste definitivamente a carico anche le spese di CTU.
P.Q.M.
Definitivamente pronunciando, ogni contraria domanda deduzione od eccezione respinta, così provvede:
condanna il Ministero della Salute al pagamento in favore di (...) a titolo di risarcimento del danno della somma di Euro 726.223,50 oltre interessi al saggio legale sull'importo originario di Euro 224.226,10, via via ed anno per anno rivalutato, dal 15 dicembre 1981;
condanna il Ministero della Salute al pagamento a titolo di risarcimento del danno in favore di (...) e di (...) della somma di Euro 60.518,62 ciascuno oltre interessi al saggio legale sull'importo di Euro 18.685,51 via via ed anno per anno rivalutato dal 15 dicembre 2001;
rigetta nel resto le domande proposte;
pone definitivamente a carico del ministero convenuto le spese di CTU;
condanna il ministero convenuto al rimborso delle spese di lite liquidate in Euro 985,00 per spese oltre anticipi al CTU ed Euro 734,46 per spese, oltre anticipi al CTU, ed Euro 17.000,00 per diritti e onorari oltre spese generali ed accessori di legge.