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TRIBUNALE di MESSINA - (sulla responsabilità del direttore sanitario, nei confronti di pazienti di un ospedale psichiatrico ; sulla omissione di assistenza, da cui derivi mortificazione fisica e morale)
Tribunale di Messina in composizione monocratica sezione II – sentenza 28/3/2003 – giudice De Marco
Risponde del reato di maltrattamenti il direttore sanitario di un ospedale psichiatrico che, consapevole dello stato in cui versano i pazienti – sporcizia e mancata assistenza continuativa – non intervenga esercitando i propri poteri di vigilanza e direzione. In tal caso si configura il reato di maltrattamenti, nella misura in cui tale stato di abbandono determini sofferenze morali e materiali nei soggetti passivi.
omissis
Con esposto del 27/9/94 C. , in qualità di medico e presidente del comitato dei cittadini per i diritti dell’uomo, rappresentava di avere accompagnato il sen. R. in una visita ispettiva presso l’ospedale M.. Segnalava, quindi, di avere riscontrato il profondo decadimento della struttura (struttura fatiscente… muri scrostati e con profonde infiltrazioni di acqua … servizi igienici carenti … sovraffollamento di letti … assenza di qualsiasi tipo di manutenzione sia ordinaria che straordinaria … assenza di arredi ), oltre a profondi deficit assistenziali (servizi igienici … intrisi di escrementi … escrementi presenti sui letti, sui materassi, sui pavimenti ove i degenti li calpestavano scalzi, su alcuni muri. L’odore era pesante, sino ad essere insopportabile nel 1° reparto uomini … assenza di un vero programma di recupero riabilitativo o educativo … pazienti vestiti di cenci degni di accattoni … letti sporchi e fetidi … presenza di lacci di contenzione, mentre, in una precedente visita del 22/2/93 era stato trovato un degente legato ad una panca …presenza di vermi e scarafaggi), con condizioni igienico sanitarie pessime e indegne per la vita umana. Nella relazione che accompagnava l’esposto si lamentava più che la scarsità, la professionalità e la mentalità del personale paramedico che ritengono per lo più “normale” la situazione descritta. Coloro che tentano di parlare vengono isolati e colpiti, c’è un clima generale di paura.
In tale nosocomio, di cui l’imputato risultava direttore sanitario, invero, venivano all’epoca ricoverati malati di mente, per lo più non in grado di badare a sè stessi.
Anche l’Assessorato Regionale alla Sanità si era interessato di tale nosocomio.
In proposito D. , in atto responsabile del …., riferiva di avere effettuato delle ispezioni presso la struttura M..
Una di queste era stata eseguita nel 1994, e di essa riconosceva la relazione in atti, a suo tempo inoltrata all’Assessorato. In tale circostanza le condizioni generali erano apparse notevolmente carenti in tutti i reparti. Le carenze erano tanto di ordine strutturale, quanto di tipo assistenziale, essendo stata riscontrata assenza di igiene, presenza di liquami, ecc.
Una successiva ispezione – di cui pure riconosceva la relazione in atti – era stata eseguita nel 1997, questa volta su indicazioni ministeriali volte alla verifica della attuabilità del progetto obiettivo psichiatrico nazionale. Tale ispezione era stata annunziata al direttore generale della USL, dott. P., il quale aveva partecipato ad una parte della stessa.
In tale caso erano stati presenti all’accesso, oltre all’imputato, anche il responsabile del settore di medicina mentale, due funzionari del ministero, nonché altro dipendente dell’assessorato, la sig.ra T.. Rispetto all’ispezione del 1994 le condizioni apparivano migliorate in tutti i reparti, con l’eccezione del primo reparto maschile, dove erano ospitati pazienti che a patologie psichiatriche aggiungevano deficit fisici, quindi pazienti assolutamente non autosufficienti, con necessità di assistenza continua, individuale ed altamente qualificata.
Qui, ancora una volta, erano state rilevate precarie condizioni strutturali e carenze di ordine igienico-sanitario, sia nei locali che sui pazienti. Questi ultimi, in particolare, erano stati rinvenuti sporchi, con escrementi ed urine nei letti ed in terra. Condizioni che, tuttavia, il teste non sapeva dire da quanto tempo persistessero. In esito a tale sopralluogo era stata inoltrata all’Assessore ed alla Procura una relazione, mentre una contestazione era stata formulata nei confronti del direttore sanitario. Un ultimo accesso era stato effettuato, successivamente, unitamente al dott. D., alla sig.ra T. e ad altri componenti del Comitato Tecnico Scientifico, quando, però, in attuazione della nuova normativa, ormai gran parte della struttura era stata smantellata, restando ricoverati nella stessa solo alcuni pazienti, collocati in un reparto ristrutturato. Le condizioni, pertanto, erano sensibilmente migliorate.
Precisava, quindi, che nel complesso il nosocomio presentava delle carenze strutturali, in ordine alla rimozione delle quali la competenza apparteneva certamente all’azienda e non al direttore sanitario. La struttura, inoltre, nel 1994, presentava delle carenze in organico relativamente al personale paramedico, ed in particolare veniva segnalata l’assenza di 75 infermieri professionali e di 12 ausiliari.
In proposito chiariva che le piante organiche venivano definite a livello regionale e, in base a queste, erano le aziende ad attivarsi per provvedere alla copertura dei posti. Talora il concorso veniva effettuato per la singola struttura, talora in generale per tutta l’azienda sanitaria. In ogni caso all’interno della singola struttura era il direttore sanitario a disporre della distribuzione delle risorse umane. Specificava, infine, che all’epoca il servizio di salute mentale si articolava in varie strutture territoriali, facenti capo alle varie unità sanitarie locali.
Analoghe circostanze venivano riferite da T. , assistente sanitaria presso …. La stessa confermava la propria presenza in occasione dell’ispezione verificatasi nel 1994, eseguita a seguito di una segnalazione, in conseguenza della quale l’Assessore aveva istituito una apposita commissione. In tale occasione era stato redatto verbale di sopralluogo ispettivo, del quale riconosceva copia in atti. In particolare era stata constatata l’esistenza di un vero disastro in tutti i sensi. Le strutture erano più che fatiscenti, con condizioni ambientali inconcepibili; alcuni reparti erano in condizioni pessime dal punto di vista igienico sanitario. In un reparto pure i bagni erano in condizioni pessime. La maggior parte dei pazienti erano nudi, la sporcizia era dovunque.
In questa circostanza si era accertato che su 280 posti circa di infermieri, previsti in pianta organica, solo 180 erano le unità in sevizio. All’epoca la USL competente per territorio era retta da un commissario, il dott. C., al quale erano state fatte le contestazioni, mentre il dott. M. si era difeso sostenendo di avere più volte richiesto interventi strutturali, mentre imputava il deficit igienico alla mancanza di personale e di mezzi (quali detersivi) per la gestione quotidiana. Altra ispezione era stata effettuata, in occasione della deliberazione circa la chiusura degli ospedali psichiatrici. Era stato istituito, nell’occasione, un nucleo regionale che doveva procedere alla verifica delle condizioni per l’attuazione del progetto obiettivo. L’esito dell’ispezione era stato sintetizzato in una relazione, la cui copia riconosceva in atti. Ricordava che in tale occasione era stato presente, oltre al dott. M., anche il dott. P. ed il dott. Gennaro della USL 5, nonché gli ispettori ministeriali. Le condizioni della struttura riscontrate, quanto meno per il reparto I uomini, non erano mutate: ancora una volta, infatti, erano stati trovati pazienti nudi, senza scarpe, sporchi, con feci e urine in terra ed indosso. Si trattava, in particolare, dei pazienti peggiori, cioè con patologie oltre che mentali, anche fisiche.
Non ricordava se presso il reparto, fosse presente personale infermieristico e medico. Quanto agli altri reparti verosimilmente le condizioni erano migliorate. Precisava che, per quanto a sua conoscenza, il direttore sanitario dell’ospedale è colui che ha la responsabilità della gestione del personale e delle situazioni igienico sanitarie.
Dalla documentazione in atti risulta una prima relazione di sopralluogo ispettivo inoltrata all’Assessore alla Sanità in data 4/10/94, relativa al sopralluogo effettuato in data 29 e 30 settembre alla presenza del direttore sanitario dr. M.. Si evidenziava come presso il nosocomio fossero ricoverati n. 378 pazienti suddivisi in 7 reparti, dei quali 4 maschili. Al di là delle carenze strutturali e della vetustà degli ambienti e dei locali, si segnalavano anche gravi carenze igieniche ed assistenziali. In particolare nel reparto I donne, di cui primario era il dott. A., e presso il quale erano ricoverate 46 pazienti assistite da 20 infermieri e da dieci ausiliari suddivisi in cinque squadre, si constatava … nello stesso ambiente, dove soggiornavano la maggioranza delle ricoverate, parte delle quali risultava essere priva di indumenti e/o di calzature nonché sudicia e trasandata, si avvertiva un penetrante odore di urina. Anche presso i bagni si constatavano carenti condizioni di igiene. Così presso il dormitorio si constatava come la pulizia di detto ambiente risultava essere stata effettuata in maniera som data la presenza agli angoli di notevole luridume.
Analoga situazione concerneva il reparto I uomini, diretto dal dott. Fischietti, il quale ospitava n. 70 ricoverati assistiti da 24 infermieri e 7 ausiliari suddivisi in cinque squadre. In particolare, tra l’altro, tutti i degenti soggiornavano presso il cortile all’interno del reparto, con abbigliamento inadeguato, trasandato e sudicio, mostrando un aspetto complessivamente poco curato. Molti di essi erano nudi o privi di indumenti intimi o di calzature. Notevole il livello di sporcizia dello stesso spazio, ove venivano anche riscontrate feci di recente emissione direttamente sul pavimento. Ancora peggiore la situazione dei bagni dove, al di là delle pessime condizioni strutturali, il pavimento … si presentava in pessime condizioni igieniche per la presenza oltrechè di liquami e feci anche di scarafaggi. E, in altro locale bagno, sul pavimento, anch’esso molto sporco, si rilevava la presenza di resti di probabili tagli di capelli. Inoltre si notava la presenza indisturbata di gatti nei dormitori, nonché penetrante odore di urina.
Quanto agli altri reparti, al di là delle condizioni strutturali, talora precarie, la situazione igienico-assistenziale appariva complessivamente sufficiente. Si evidenziava, comunque, che a fronte di una previsione di n. 254 unità infermieristiche ne risultavano presenti 189 unità; parimenti a fronte di n. 77 unità di personale ausiliario, ne erano in servizio 65 unità. Risulta quindi agli atti la copia informale di una asserita relazione a firma dell’imputato sulla emergenza del settembre 94 redatta in seguito al blitz effettuato dal sen. R.… e da parte di una delegazione del Comitato dei Cittadini per i diritti dell’Uomo guidata dal presidente C.. Nella stessa, dopo elencate sommente le carenze strutturali, si rappresentavano le soluzioni d’urgenza già adottate quali: accorpamento delle comunità terapeutiche assistite; trasferimento di alcuni ricoverati; immediato intervento per pulizie straordinarie con appalto a ditte esterne; immediati interventi tecnici sia attraverso i servizi della USL, sia con appalti da affidare a ditte private; accelerazione delle forniture di abbigliamento e di materiale di gare già svolte e la proposizione per nuovi acquisti; accelerazione del concorso per caposala e per infermieri professionali, nonché eventuale assunzioni trimestrali di ausiliari attraverso l’ufficio di collocamento; assegnazione di alcuni coadiutori amministrativi provenienti da altri servizi della usl; disinfestazione e derattizzazione; eventuale trasferimento di ricoverati in strutture periferiche; rinnovazione del contratto per la manutenzione del verde. Venivano quindi elencate le carenze di organico, individuate in n. 65 infermieri (su un totale di 238) e n. 11 ausiliari (su un totale di 72).
Esistono poi copie delle relazioni per l’anno 1995 con le quali, sempre l’imputato, illustrava le condizioni strutturali del nosocomio ed i progetti futuri, anche in previsione della chiusura che avrebbe dovuto avvenire entro il 31.12.96. Una seconda relazione ispettiva veniva inoltrata all’assessorato in data 25/10/97 con riferimento all’indagine conoscitiva disposta dal Ministero della Sanità eseguita il giorno 23 ottobre presso la struttura dell’Ospedale M., in occasione della quale era stato visionato il reparto I uomini che ospitava pazienti handicappati non autosufficienti, constatandosi che gran parte dei pazienti risultava essere privo di indumenti e in pessime condizioni igieniche personali, mentre gli ambienti della degenza diurna risultavano, oltre che fatiscenti strutturalmente, essere maleodoranti e oltremodo sporchi per la presenza di feci e liquami sul pavimento su cui peraltro giacevano alcuni dei pazienti. Tale circostanza veniva contestata al direttore generale ed ai responsabili del settore e del servizio di assistenza ospedaliera psichiatrica, quest’ultimo il dott. M., al quale si evidenziava come tale situazione risultava essere inaccettabile dal punto di vista assistenziale ed igienico sanitario nonché lesiva della stessa dignità umana dei soggetti ricoverati.
A fronte delle contestazioni il direttore generale, dott. P., si difendeva con nota del 28/10/97 con la quale si elencavano una serie di attività poste in essere dalla data di insediamento (1/2/97), al fine di dare attuazione al progetto obiettivo tutela salute mentale (istituzione di dipartimenti, organizzazione di servizi, istituzione di residenze sanitarie assistite, ecc.), mentre nulla veniva riferito in ordine alle condizioni igieniche riscontrate, se non che le contestazioni erano state sostanzialmente trasmesse al dirigente medico responsabile dott. M.. Questi, come risulta dalla documentazione in atti, avrebbe risposto con nota, del 3/11/97, del seguente tenore: in risposta a quanto richiesto con lettera n. prot. 46/215 del Direttore Generale in …[illegibile] contestata la situazione igienico sanitaria del 1° U il sottoscritto dott. C. M. …[illegibile] quanto segue: quanto rilevato durante l’ispezione del 23.10.97 in sede di sopralluogo con i funzionari …[illegibile] e del Ministero della Sanità è stato denunciato reiterate volte con lettere, che sono a disposizione degli Organi Superiori, da parte prima dell’ex direzione sanitaria ed in seguito da …[illegibile] Servizio Assistenza Psichiatrica Ospedaliera. Colgo l’occasione per informare le SS. che il Reparto comunque è stato definitivamente …[illegibile] giusta disposizione prot. 45/215 del 27/10/97. Segue un elenco di protocolli (n. 5) relativi a lettere inviate agli Organi Superiori dell’Azienda e del Settore. In sede istruttoria il dott. P., già direttore generale della …, riferiva, quindi, di avere constatato, non appena giunto in Messina che, in base alla normativa vigente, l’ospedale psichiatrico non avrebbe dovuto più esistere, ed in tal senso vari atti deliberativi erano stati emanati. Malgrado ciò l’ospedale M. continuava ad esistere ed a quel momento vi erano ricoverate circa 270 persone. Egli stesso aveva visitato i reparti ed aveva dato disposizioni per la chiusura. Così vennero progressivamente attivate, entro la fine del marzo 1998, varie residenze assistite nella Provincia. A tale ultima data l’ospedale venne chiuso.
Al suo arrivo aveva constatato che l’ospedale presentava gravi carenze strutturali, carenze sulle quali, atteso il programma di chiusura a breve termine, si ritenne di non potere intervenire. Tali carenze erano state rappresentate dal dott. M.. Riferiva, quindi, che nell’ospedale esistevano due tipi di pazienti: alcuni particolarmente gravi, in condizioni di vita quasi vegetativa, i quali erano stati trasferiti nei reparti ristrutturati; gli altri, invece, erano stati gradualmente avviati alle residenze assistite.
Sosteneva che le condizioni igieniche non appartenessero alla competenza del direttore generale, ma a quella della direzione sanitaria ed ai primari. In particolare il direttore sanitario dovrebbe controllare e coordinare l’opera dei primari. Tuttavia, in più di una occasione, erano state formulate doglianze in ordine alle modalità in cui il personale manteneva i pazienti. Contestazioni erano state fatte al personale parasanitario, soprattutto per assenteismo; tre medici erano stati sospesi in quanto non avevano assicurato la dovuta assistenza nei confronti dei pazienti – rinvenuti sporchi, nel letto con urine e non cambiati, ecc. – Per quanto a sua memoria il dott. M. aveva rappresentato in una circostanza una carenza di organico. Tuttavia egli aveva fatto rilevare come la pianta organica non poteva più essere ritenuta attuale, dal momento che l’organico originariamente previsto era notevolmente superiore rispetto ai pazienti ormai ricoverati, i quali erano in numero costantemente decrescente a seguito dei vari trasferimenti presso le strutture assistite.
Ricordava l’ispezione condotta dal personale dell’Assessorato, della quale era stato informato nell’imminenza. In tale circostanza egli aveva rappresentato il progetto di chiusura dell’ospedale, mentre uno degli ispettori gli aveva riferito di avere visionato alcuni reparti e di avere constatato le condizioni pessime dei bagni. A seguito di tali considerazioni erano stati eseguiti interventi di pulizia, e in generale si provvide ad eliminare le carenze igieniche, operazioni svolte in parte con personale del M., in parte mediante ditte esterne. Non ricordava la contestazione datata 28/10/97 di cui gli veniva mostrata copia. Parimenti non aveva memoria di segnalazioni scritte inviate dal dott. M. in ordine alle condizioni igieniche, segnalazioni che, peraltro, erano state effettuate oralmente, così come era stato richiesto un intervento mediante imprese di pulizia. Non ricordava, infine, di avere ricevuto la nota che gli veniva esibita, datata 4/2/97, con la quale si chiedeva l’invio di una ditta specializzata onde provvedere alla pulizia del reparto I uomini. In tale nota, in particolare, si legge: dovendo dare immediata soluzione ai gravi problemi, più volte segnalati dai sanitari del 1° reparto uomini, nelle more che lo stesso, di competenza della Medicina di Base, venga da essa presa in carico, secondo le normative vigenti, si richiede con atti deliberativi urgentissimi, che il reparto, composto da soggetti con handicap psicofisici e geriatrici, che, come già segnalato in una mia del 9 novembre 1994 prot. 3972 al capo dell’ufficio provveditorato: “a differenza di tutti gli altri pazienti, presentano incontinenza sfinterica, distruggono facilmente indumenti e suppellettili vari, sporcano le pareti con le proprie feci ecc.” venga affidato ad una ditta di pulizie esterna. Ciò si rende necessario in virtù della impossibilità di garantire una maggiore dotazione di personale ausiliario al reparto (in atto 4 su 5).
Non ricordava se fosse stato conferito appalto ad una ditta esterna, tuttavia sosteneva che, in generale, per l’ospedale M. così come per ogni ospedale, la pulizia doveva essere assicurata dal personale ausiliario. Riconosceva la nota del 28/4/97 con la quale si faceva presente che il personale addetto alle pulizie degli 11 reparti … è dato da 47 unità che si occupano della pulizia per una complessiva superficie di m.q. 10.000 circa … in locali per la gran parte fatiscenti che non permettono l’utilizzo dei macchinari di pulizia esistente già in presidio. Pertanto si rappresentava che … in considerazione della tipologia dei pazienti, per la quasi totalità incontinenti, non si riesce a garantire una adeguata assistenza igienico sanitaria anche per la carenza di personale infermieristico. Escludeva che il dott. M. avesse mai rappresentato che vi erano feci sulle pareti o sul pavimento o nei letti, o che pazienti fossero legati nel letto, ma solo, al più, aveva richiesto che venissero garantite condizioni migliori. E concludeva sostenendo che: «… la realtà è che 180 personale parasanitario e gran parte dei medici viveva in una concezione manicomiale, in cui la società si difendeva di questi soggetti e questi soggetti andavano a essere custoditi in un luogo alieno …». Il m.llo V., nel 1994 dipendente del NAS dei Carabinieri, ricordava di avere effettuato un accesso presso l’ospedale M. in data 9/11/94, su delega di un magistrato. In proposito riconosceva la relazione esibitagli. In tale occasione, alla presenza del direttore sanitario, aveva esaminato tutti i padiglioni dove erano ricoverati oltre 400 pazienti tra uomini e donne. Si erano constatate gravi condizioni strutturali. Alcuni pazienti si trovavano nudi o vestiti male, altri erano in terra, altri seminudi e scalzi; in alcuni reparti vi era un odore nauseabondo, anche se la pulizia era stata effettuata.
G. , all’epoca commessa presso l’ospedale psichiatrico, precisava di avere svolto la propria attività presso la direzione sanitaria, e di avere assunto, di fatto, anche funzioni di dattilografa, acquisendo, in tal modo, cognizione della varia corrispondenza. Asseriva, quindi, che, per quanto a sua conoscenza, al momento del suo insediamento il dott. M. aveva denunciato le varie carenze dell’ospedale. Quotidianamente, poi, lo stesso visionava i vari reparti del nosocomio, dai quali pervenivano continue richieste. Sosteneva che l’imputato, nel proprio lavoro, trattava tutti i pazienti con amore, come fossero propri figli. In alcuni casi provvedeva anche con mezzi propri a fare fronte alle esigenze ospedaliere. Con riferimento alla pulizia chiariva che le esigenze erano notevoli, dal momento che i pazienti, in ragione delle loro condizioni, sporcavano in continuazione. Sicchè il personale ausiliario, anche per le ferie e le malattie, non sempre era in grado di fare fronte a tali situazioni. Pertanto, in tali casi, soprattutto se vi era una carenza di personale dovuta a malattia o ferie, si chiedeva l’intervento di ditte per la pulizia straordinaria. Tali interventi, tuttavia, venivano disposti dall’amministrazione solo in via del tutto eccezionale, ed in particolare quando si era a conoscenza della imminenza di una visita ispettiva.
Riferiva, quindi, che il reparto I° uomini era quello in cui erano ricoverati pazienti vecchi, fisicamente malati, oltre che infermi di mente. Per questo motivo nello stesso venivano impiegati anche ausiliari di altri reparti. I turni di servizio del personale, in particolare, erano predisposti dalla direzione, dal dott. M. e dal dott. G.. Ammetteva di avere visto frequentemente le pareti ed i pavimenti sporchi di feci, circostanze nelle quali il personale ausiliario provvedeva alle pulizie. In proposito riferiva, tuttavia, che i malati mentali sporcavano in continuazione. Il dott. G., a suo tempo con compiti di organizzazione all’interno dell’ospedale M., precisava di essersi occupato, tra l’altro, dei servizi dei vari reparti. In tale contesto sosteneva che il reparto 1° uomini, per la peculiarità dei degenti, era potenziato rispetto agli altri reparti. Malgrado ciò nello stesso, nella migliore delle situazioni, si poteva disporre solo di due ausiliari per ogni singolo turno.
Erano proprio gli ausiliari, in particolare, ad occuparsi dell’igiene nei singoli reparti, sotto la vigilanza e la direzione dei medici e, nell’ultimo periodo, dei capo-sala. Chiariva, infine, che solo in epoca successiva a quella in contestazione erano stati avviati dei procedimenti disciplinari nei confronti di alcuni medici. Si trattava, tuttavia, di situazioni in cui il personale era più che sufficiente alla bisogna. In esito all’istruttoria dibattimentale l’imputato deve essere riconosciuto colpevole del reato ascritto. Preliminarmente si deve ribadire l’infondatezza e, comunque, l’inammissibilità dell’eccezione di nullità formulata, peraltro tardivamente, dalla difesa dell’imputato, la quale ha contestato l’omessa citazione della persona offesa. Come già evidenziato in corso di udienza, nel caso di specie una simile eccezione non appare corretta, dal momento che, in base agli atti prodotti, le asserite persone offese non risultano puntualmente individuate e, comunque, compiutamente identificabili; né l’identificazione è stata fornita dalla difesa dell’imputato. Invero è noto come a norma dell’art. 419 c.p.p. l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare deve essere notificato alla persona offesa solo qualora risulti agli atti l’identità ed il domicilio. Analoga e coerente disciplina è prevista per il decreto che dispone il giudizio, nel quale, a norma dell’art. 429 c.p.p., deve essere indicata la persona offesa dal reato qualora risulti identificata.
Ne consegue che nel caso in cui la persona offesa non sia stata identificata – a maggior ragione in una situazione analoga a quella per cui si procede, in cui le persone offese non appaino neppure puntualmente individuabili tra i diversi pazienti all’epoca dei fatti ricoverati presso la struttura dell’ospedale M. – nessun avviso deve essere inoltrato. Per mera completezza deve aggiungersi come, sebbene l’art. 178 c.p.p. preveda a pena di nullità la citazione a giudizio della persona offesa, tale nullità, ai sensi dell’art. 182 c.p.p. può essere eccepita soltanto dalla medesima persona eventualmente pretermessa, e non dall’imputato che non ha interesse all’osservanza della disposizione violata, anzi dalla omessa citazione può, al limite, trarre solo un vantaggio. Ciò tanto più che l’art. 468 c.p.p. gli attribuisce la facoltà di richiederne la citazione quale teste (cfr. Cass. 4/12/97; Cass. 3/6/98, 6443; Cass. 24/9/99, 12530). Sicchè, in ogni caso, la relativa eccezione non potrebbe essere sollevata dall’imputato. Sgomberato il campo da tale questione occorre chiarire la natura del reato contestato. Il delitto di maltrattamenti è costituito da una condotta necessariamente abituale che si estrinseca in una serie di atti criminosi, realizzati in momenti successivi che, per se considerati, possono anche non avere rilevanza penale (cfr. Cass. 17/4/95, 4636). Gli stessi, tuttavia, devono essere avvinti da un nesso di abitualità, collegati nel loro svolgimento dall’unica intenzione criminosa, ancorchè implicita od eventuale, di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo, di arrecare, cioè, abituali sofferenze (cfr. Cass. 14/6/76, Cass. 29/1/83; Cass. 28/2/92, 2130).
Ciò che distingue, infatti, il reato di maltrattamenti da un mero fascio di illeciti o di condotte individuali è proprio rappresentato dall’abitualità del comportamento e quindi dall’unitarietà della condotta, pur nella pluralità delle manifestazioni, le quali costituiscono, dunque, estrinsecazione di un sistema di vita abitualmente doloroso ed avvilente (cfr. Cass. 17/4/96, 4015). Ciò trova il suo corrispondente nell’atteggiamento psichico: il dolo, infatti, ancorchè generico, deve concretizzarsi in modo unitario ed uniforme, tale da evidenziare nell’agente l’intenzione di avvilire e sopraffare la vittima, riconducendo in tal modo ad unità i singoli momenti che, ancorchè non singolarmente previsti, siano implicitamente voluti come conseguenza di un tipo di atteggiamento e di rapporto con la vittima (cfr. Cass 19/11/94, 3965). Quello che rileva, pertanto, nel delitto in esame è, appunto, l’abitualità del comportamento oppressivo. Ciò spiega perché, ai fini del delitto in questione, vengano in rilievo comportamenti che, per sé presi, possono anche essere non punibili (umiliazioni, ecc.), ovvero non perseguibili (ingiurie, minacce, percosse, ecc.): infatti il disvalore è determinato proprio dalla loro sistematicità, e quindi dalla particolare lesione al bene giuridico che deriva dalla realizzazione di un sistema di vita fatto di sofferenza, privazione, umiliazione, determinante uno stato di disagio continuo e penoso, ed incompatibile con normali condizioni di esistenza, reso possibile o, comunque, favorito dal rapporto di vigilanza, di custodia ed, in generale, di sottoposizione esistente tra l’agente e la vittima (cfr. Cass. 27/4/95, 4636; Cass. 12/9/96, 8396; Cass. 1/2/99, 3580). In tal senso non è rilevante la durata della condotta complessiva, dal momento che il reato può sussistere anche in relazione a fatti verificatisi in un tempo limitato (cfr. Cass. 9/1/92; Cass. 9/12/92); ma l’intensità, e quindi la ripetitività del comportamento, con una frequenza sintomatica dell’unitaria intenzione.
Il reato tutela la dignità morale e fisica della persona. Ne consegue che sono idonei ad integrarne gli estremi non solo le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni, ma qualunque altro comportamento, commissivo od omissivo (cfr. Cass. 28/2/95), che sia idoneo a ingenerare nella vittima sofferenze fisiche o morali, privazioni, umiliazioni, che costituiscano fonte di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con normali e dignitose condizioni di esistenza. Rientrano, dunque, nello schema di tale delitto anche gli stati di vessazione continua, di umiliazione, di scherno, di disprezzo, di vilipendio, di asservimento, di privazione, di abbandono, di offesa alla dignità, idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali (cfr. Cass. VI, 1/2/99, 3570; Cass. VI, 7/6/96, 8396; Cass. VI, 28/2/95, 4636; Cass. VI, 29/5/90, 16661; Cass. VI 12/10/89, 1857; Cass. III, 15/3/85, 4905; Cass. V, 9/6/83, 7787).
Venendo al caso in esame, alla luce delle superiori considerazioni, appare evidente come i pazienti ricoverati presso l’ospedale M., ed in particolare quelli ricoverati nel reparto I° maschile e, in misura minore, nel reparto I° femminile, nell’arco temporale oggetto del presente processo, come risulta dai resoconti effettuati dai testi, vivessero in condizioni disumane (inconcepibili le definisce il teste T.), in uno stato di sporcizia, di abbandono, e di mancanza di assistenza; privi di abiti, costretti, di fatto, a giacere su letti sporchi o su pavimenti luridi; ad utilizzare servizi igienici totalmente carenti; a vivere in mezzo agli scarafaggi. In una condizione di mortificazione permanente, idonea a cagionare nelle vittime uno stato di maltrattamento, fatto di umiliazioni e privazioni. L’illecito è stato contestato in forma di reato omissivo improprio. La relativa nozione muove dalla c.d. clausola di equivalenza disciplinata dell’art. 40 cpv. c.p., in base alla quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. In sostanza all’agente viene attribuita la responsabilità per un evento, non in base ad un comportamento positivo posto in essere in violazione di un divieto, ma in conseguenza dell’omesso compimento di un’azione, imposto da un comando, avente, solitamente, origine extrapenale.
Deve osservarsi che l’art. 40 cpv. c.p. non costituisce una norma incriminatrice autonoma e diretta, tale, cioè, che la relativa violazione dell’obbligo integri di per sé reato. Essa, invece – e non a caso è parte di un articolo intitolato al rapporto di causalità – costituisce una disciplina giuridica del nesso di causalità, riconoscendo la sussistenza di quest’ultimo, tra un evento ed un qualsiasi comportamento omissivo, qualora sia ravvisabile un astratto comportamento attivo il quale, ove realizzato, avrebbe potuto evitare l’evento medesimo (cfr. Cass. 5/11/83, 9176). Sicchè tale norma non può essere utilizzata come fonte autonoma di incriminazione, ma può unicamente inserirsi, nell’ambito di reati di evento, quale criterio normativo di attribuzione dell’evento stesso. Ne consegue che, perché un reato descritto in forma commissiva, possa, attraverso il filtro dell’art. 40 c.p., proporsi nella forma omissiva, è necessario che l’ipotesi base si configuri come reato di evento a condotta libera, tale che, cioè, il legislatore incentri la lesività sull’evento prodotto; dovendosi, invece, ritenere incompatibile la clausola di equivalenza con tutti quegli illeciti la cui verificazione dipende da una condotta specificamente descritta dalla norma o espressamente riferibile ad un soggetto determinato, ovvero nei casi in cui sia la stessa formula incriminatrice di base ad attribuire rilevanza penale ad alcune specifiche condotte omissive, con ciò escludendo tutte le altre.
La clausola in esame, inoltre, posta l’equivalenza tra inerzia e condotta positiva ai fini del nesso di causalità, limita ulteriormente l’estensione del punibile alle sole ipotesi in cui l’agente aveva l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Perché, dunque, la causazione ed il mancato impedimento di un evento siano penalmente equivalenti, è necessaria la individuazione dello specifico obbligo giuridico di impedire l’evento. A tal fine, ovviamente, anche avuto riguardo alla natura penale delle conseguenze ed ai principi di legalità e determinatezza che devono governare il diritto penale (25 Cost.), non è sufficiente fare riferimento al generale principio del neminem laedere o ad una generica posizione di garanzia, né, tanto meno ad un generico potere di impedire l’evento, ma è necessario individuare un obbligo giuridico specifico, derivante da una norma che ponga l’agente in una posizione di protezione, garanzia e salvaguardia rispetto al bene protetto, la quale, tra l’altro, può derivare da una norma di legge riconducibile a qualunque ramo del diritto, civile, penale o amministrativo o dalla esistenza di particolari rapporti giuridici (cfr. Cass. 14/4/83, 2619; Cass. 23/6/89; Cass. 21/5/90). Ricostruita in tale ottica la nozione di reato omissivo improprio appare evidente come questa sia compatibile con la fattispecie di cui all’art. 572 c.p.. L’illecito in questione, infatti, come sopra evidenziato, è a condotta libera, potendosi realizzare mediante qualsiasi comportamento idoneo ad ingenerare la mortificazione fisica o morale nella vittima. E dunque anche mediante la condotta omissiva del direttore sanitario, il quale non intervenendo sul personale allo stesso sottoposto o dallo stesso coordinato, abbia consentito il prodursi dell’evento lesivo. Tanto più che, come di seguito si dirà, in capo al direttore sanitario deve riconoscersi la sussistenza di una posizione di garanzia, in ragione degli obblighi specifici di direzione e vigilanza sullo stesso gravanti.
Tuttavia, più correttamente, ferme restando le modalità della condotta contestata, questa avrebbe dovuto essere qualificata direttamente sotto specie di concorso nel reato di maltrattamenti, in virtù della clausola generale di cui all’art. 110 c.p. Ed infatti, nel caso di specie, appare evidente come le condotte con le quali sono state inflitte ai pazienti le sofferenze, sono derivate, direttamente, dal comportamento del personale medico e paramedico direttamente preposto al reparto, e solo mediatamente dalla condotta del direttore sanitario, il quale, pur essendo a conoscenza della stessa – come di seguito si dirà – ed avendo l’obbligo di intervenire per porvi rimedio, non lo fece. Invero la cura dei pazienti era affidata al personale paramedico – infermieri, ausiliari, ecc. – ed al primario del reparto. L’omessa assistenza dei pazienti, dunque, derivava da una condotta diretta posta in essere da costoro, i quali, evidentemente, non provvedevano (quanto meno con la dovuta continuità) alle pulizie, al cambio della biancheria, al controllo sui pazienti, a vestire e curare costoro, ecc. Al direttore sanitario di una struttura ospedaliera, tuttavia, a norma, tra l’altro, del d.lv. 502/92, compete specificamente l’organizzazione tecnico-funzionale ed il buon andamento dei servizi igienico-sanitari, quindi il controllo e l’assicurazione delle condizioni igienico-sanitarie all’interno dell’ospedale (cfr. Cass. 31/5/91), perciò, tra l’altro, la costante verifica circa la regolarità e l’efficienza dell’assistenza agli infermi e la vigilanza sul comportamento del personale addetto ai relativi servizi. Lo stesso ha il compito di organizzare adeguatamente il servizio e di vigilare sul corretto svolgimento dello stesso, nonché, ovviamente, di intervenire onde porre rimedio alla insufficienza o inadeguatezza delle procedure assistenziali, ed in particolare, nel caso in esame, nelle ipotesi in cui gli infermi di mente siano lasciati in balia di se stessi, in pessime condizioni igieniche e sanitarie, costituendo l’omesso intervento una violazione dei valori etico-sociali tutelati dalla norma in questione (cfr. Cass. 20/11/2001; Cass. 22/11/89; Cass. 21/10/92).
Pertanto, nel caso in cui, come in ipotesi, il personale addetto trascuri volontariamente i propri compiti di assistenza, così determinando, come nel caso di specie, sofferenze morali e fisiche continuative nei pazienti sottoposti – non in grado, per le condizioni psico-fisiche di attuare comportamenti compensativi – il direttore sanitario che consapevolmente non sia intervenuto esercitando i propri poteri-doveri di vigilanza e di intervento, per correggere, eliminare e sanzionare tali condotte, concorre nelle stesse, essendo il proprio contegno determinante ai fini della integrazione del reato, cioè della realizzazione di quelle condizioni di sofferenza e di mortificazione che ne costituiscono l’essenza. In proposito deve ribadirsi come la fattispecie contestata sia a condotta libera. La stessa, pertanto, può realizzarsi non solo mediante condotte commissive, ma anche meramente omissive quando le stesse determinino, come nel caso concreto, non un mero stato di abbandono, ma qualcosa di più, caratterizzato, appunto, da privazioni e mortificazioni, cioè da un persistente disagio atto ad arrecare sofferenza morale e fisica nei confronti di soggetti a vario titolo sottoposti all’autorità dell’agente o affidate allo stesso (cfr. Cass. VI, 17/10/94).
In particolare il reato appare realizzabile anche nei confronti di persone affidate, per ragioni di cura, ad una struttura di assistenza. Ne consegue che, ove i soggetti preposti a tale struttura, cui sono attribuiti i poteri direttivi ed organizzativi ed i conseguenti oneri di protezione, omettano di intervenire, tollerando consapevolmente il verificarsi di condotte e situazioni illegittime, integranti la materialità del reato e, quindi, il perpetrarsi di sofferenze morali e fisiche nei confronti dei degenti, anche costoro risponderanno di tale condotta, la cui verificazione, infatti, è eziologicamente riconducibile anche alla loro inerzia; sicchè il mancato esercizio dei poteri-doveri incombenti sul direttore sanitario implica concorso nella condotta illecita (cfr. Cass.VI, 17/10/94; Cass.VI, 16/1/91; Cass.VI, 30/5/90).
Nel caso in esame l’imputato, come sopra evidenziato, aveva un obbligo preciso, legalmente determinato, derivante dalla propria posizione e dalla qualifica rivestita, di intervenire al fine di garantire condizioni umane di degenza per i pazienti, cosa che non risulta abbia fatto. Lo stesso, peraltro, per le argomentazioni sopra svolte non potrebbe esimersi da tale responsabilità in base alla considerazione che il responsabile del reparto è il primario, dal momento che, comunque, come sopra evidenziato, il direttore sanitario costituisce il vertice della struttura ospedaliera, cui fanno capo tutti i poteri di direzione ed organizzazione, ed al quale, da questo punto di vista, è subordinato tutto il personale, medico e paramedico: sicchè lo stesso ha un preciso compito di intervento, sia in eventuale sostituzione del primario inadempiente, sia in termini di stimolo o, eventualmente, di sanzione, oltre che di direzione e coordinamento. Di fronte all’atteggiamento illecito del primario o del restante personale medico o paramedico, che si sottragga agli obblighi di assistenza nei confronti dei soggetti sottoposti, il direttore sanitario, consapevole di tali condotte, avrebbe dovuto intervenire, pretendendo l’adempimento degli obblighi di legge, e sanzionando e denunciando le violazioni. Anche ciò non risulta che, nel caso concreto, sia stato fatto. Le carenze e le condizioni riscontrate nel caso in esame vanno assai al di là di mere inefficienze organizzative o di negligenze individuali e circoscritte. Emerge, infatti, come sopra osservato, un quadro di abbandono cronico dei pazienti, soprattutto quelli più difficili, che per le condizioni fisiche e mentali avrebbero richiesto una più puntuale assistenza. Tali pazienti sono risultati lasciati a sè stessi, non accuditi, non puliti, non vestiti, fatti vivere in condizioni assolutamente disumane, in una sorta di logica marginalizzante, che finisce col trasformare l’ospedale psichiatrico più in luogo di reclusione e neutralizzazione, che di cura. È evidente come pur in presenza di deficit fisici e mentali non si è legittimati a negare al paziente quel minimo di dignità personale che può essere rispettata solo nell’assistenza e nella cura. Abbandonare il paziente nella sporcizia, tra gli scarafaggi ed i liquami, senza abiti e biancheria, equivale a costringerlo a vivere in condizioni subumane ed a distruggere quella dignità che pure è in esso presente.
Non si verte, peraltro, in una situazione di mero abbandono del paziente – che pure sarebbe penalmente rilevante a norma dell’art. 591 c.p. – ma di omesso intervento per garantire le condizioni minime di vivibilità e dignità. Era, in particolare, compito del personale medico e paramedico, sul quale l’imputato aveva l’obbligo di vigilanza, provvedere a garantire le condizioni igieniche minime negli ambienti in cui i pazienti erano ricoverati. Era compito di costoro provvedere alla pulizia, alla cura, alla fornitura di biancheria e vestiario pulito, così come alla vestizione ed all’igiene dei pazienti. Cose che non risulta siano state fatte. Al contrario la persistente condizione di sporcizia ed abbandono è riprova del fatto che tali attività venissero effettuate in maniera saltuaria ed inadeguata. La stessa documentazione fotografica, per quanto frammentaria, appare confermare tale assunto, nella misura in cui taluna di dette situazioni viene documentata senza che si rilevi la presenza di personale intervenuto per porvi tempestivamente rimedio.
Alla luce della modesta attività di indagine rifluita nell’istruttoria dibattimentale non è dato sapere se e in che misura siano imputabili al direttore sanitario le carenze strutturali pure documentate (peraltro la produzione in atti ha evidenziato l’esecuzione di alcuni interventi manutentivi, o, comunque, il relativo impegno di spesa), non essendo emerso in che misura lo stesso potesse ovviare a tali condizioni con propri poteri di spesa o con la disponibilità di altri locali ed altre strutture; così come non è dato sapere come concretamente sia stato impiegato il potere di spesa eventualmente facente capo allo stesso.
Non vi è dubbio, invece, che allo stesso debba essere imputata, quanto meno a titolo di concorso, la responsabilità per le assolute carenze igieniche ed assistenziali, per lo stato di mortificante abbandono in cui versavano i ricoverati e per le condizioni igieniche in cui questi ultimi erano costretti a vivere, dal momento che certamente a quest’ultimo faceva capo il potere di organizzazione del personale e, quindi, del servizio. Né può essere validamente invocata dall’imputato una sorta di ignoranza della situazione. Per la vastità delle proporzioni e la ripetitività, tale condizione, infatti, non può essere ricondotta esclusivamente ai responsabili dei singoli reparti, ed in particolare, soprattutto, del reparto I uomini – che, peraltro, non si comprende perché, sono rimasti estranei alle contestazioni – ma era certamente nota al direttore sanitario.
A ciò aggiungasi che lo stesso era stato informato ameno sin dal 1994, epoca in cui questo aveva assistito all’ispezione. Secondo quanto dichiarato dai testi lo stesso, inoltre, accedeva frequentemente ai reparti e spesso aveva avuto modo di vedere le tragiche condizioni in cui i pazienti si trovavano a vivere. Malgrado ciò, nel 1997, dopo trascorsi tre anni, le condizioni non erano mutate, anzi, come si evince dalle relazioni, addirittura (se possibile) peggiorate. La persistenza di tale situazione, ad anni di distanza, peraltro, esclude che questa possa essere risultata il frutto di circostanze occasionali, o comunque saltuarie, come tali al di fuori del controllo del vertice dell’ospedale. Al contrario si desume che l’imputato, pur a conoscenza della situazione, pur avendo l’obbligo di intervenire, pur avendo i poteri relativi e pur essendo responsabile dei pazienti affidati al nosocomio di cui era il direttore, nulla abbia fatto; anzi abbia continuato ad accettare tale situazione, tollerandola consapevolmente, come una sorta di modello organizzativo, per cui tali pazienti, verosimilmente i più deboli ed indifesi, venivano sostanzialmente trascurati, accuditi in maniera saltuaria, tardiva ed inadeguata, con conseguente inflizione agli stessi di mortificazioni e sofferenze.
Né tale situazione può essere giustificata con la mera carenza di personale, la quale, infatti, mai può legittimare uno stato di abbandono e di degrado talmente vasto; né, tanto meno, può giustificare la commissione di reati. Ove, infatti, condizioni strutturali talmente gravi e profonde avessero dovuto produrre una simile situazione sarebbe stato onere del direttore sanitario quello di chiudere i reparti, di chiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria e di pretendere dagli organi competenti l’adozione di provvedimenti straordinari. Nel caso in esame non solo non risulta che simili iniziative siano state adottate, ma, per vero, non vi è neanche alcun elemento di prova che possa ricondurre le condizioni riscontrate a tali problemi di personale. Lo stesso dott. P. ha sostanzialmente confermato come le carenze fossero solo formali ed apparenti, dal momento che la pianta organica era parametrata su un numero di degenti notevolmente superiore a quello in realtà esistente presso il nosocomio al momento dei fatti, cioè circa 270 persone (nel 1997) a fronte di circa 2600 in origine[1]. Circostanza confermata anche dal dott. G., sebbene lo stesso abbia osservato come alla riduzione dei pazienti non abbia fatto fronte una corrispondente riduzione della superficie dei reparti[2]. Quest’ultima considerazione, tuttavia, appare affatto priva di pregio, dal momento che la capacità assistenziale dovrebbe essere determinata in ragione del numero di assistiti e non della eventuale disponibilità di superficie di locali, tanto più che, all’occorrenza, nulla avrebbe potuto impedire proprio al direttore sanitario di limitare l’uso degli ambienti, così da renderne più agevole il controllo o la pulizia. Tali considerazioni appaiono ancor più pregnanti ove si abbia riguardo al rapporto esistente, nel 1994, tra personale paramedico e degenti. In particolare dalla relazione in atti si evince che all’epoca erano ricoverati n. 378 pazienti, a fronte di 189 infermieri e 65 ausiliari in servizio. A prescindere dalla divisione in turni si desume, complessivamente, il rapporto di un paramedico ogni 1,49 pazienti. Tuttavia nei reparti più delicati, con pazienti che avevano più bisogno di assistenza, il rapporto, piuttosto che aumentare, diminuisce. Al reparto primo femminile erano addetti 20 infermieri e dieci ausiliari, a fronte di 46 pazienti ricoverate: dunque un rapporto di un paramedico per ogni 1,53 pazienti. Peggio nel reparto primo maschile, dove erano addetti 24 infermieri e sette ausiliari, a fronte di 70 ricoverati, dunque con il rapporto di un paramedico per ogni 2,26 pazienti. Difficile, dunque, comprendere come nei reparti più delicati l’assistenza non venisse proporzionalmente aumentata. Dette considerazioni, peraltro puramente indicative e necessariamente generiche e superficiali, confermano, comunque, come il riferimento alle eventuali carenze di personale non può essere idoneo a spiegare e, tanto meno a giustificare in termini di evento inevitabile, le condizioni riscontrate.
Quindi, poiché non risulta che l’imputato abbia adottato provvedimenti atti a garantire la dignità dei pazienti – volti, in particolare, a sollecitare il personale medico e paramedico competente ad un più puntuale rispetto della dignità dei pazienti – deve ritenersi che tale contegno sia stato dallo stesso quanto meno consapevolmente tollerato, come l’accettazione di una condizione che, tanto, le vittime, per le loro condizioni fisiche e mentali, non avrebbero mai potuto né denunciare né fare rilevare.
La responsabilità dell’imputato, del resto, si desume anche dalle missive in atti, parte prodotte dall’accusa, parte dalla difesa. Non sfugge, in particolare, come nelle relazioni asseritamente inoltrate dal direttore sanitario ci si limiti, sostanzialmente, ad una mera elencazione di carenze strutturali e di personale, ed alla elencazione di attività compiute, con riferimento ad altri profili, ed alla progettazione in corso. Nelle stesse giustificazioni del 3/11/97, nulla, in realtà, viene detto per spiegare le carenze riscontrate, limitandosi l’imputato a riferire che quanto rilevato in corso di ispezione sarebbe stato già oggetto di numerose lettere. Anche da tale atteggiamento, sostanzialmente elusivo, si desume come, in realtà, lo stato di degrado fisico e morale in cui versavano i pazienti sia stato non solo conosciuto dal direttore sanitario, ma anche ampiamente (quanto meno) tollerato ed accettato.
È evidente come tali condizioni, da un punto di vista giuridico, non possano ricondursi alla fattispecie di cui all’art. 591 c.p., ma, correttamente, sono state qualificate come violazione dell’art. 572 c.p. Invero, la situazione in cui i pazienti sono stati costretti a vivere, era certamente idonea a provocare uno stato di profonda umiliazione, di mortificazione fisica e morale. omissis -------------------------------------------------------------------------------- [1] «… fu fatta questa rappresentazione e fu detto come quell’organico previsto quando... qua mi dicono che una volta il M. ebbe 2 mila e 600 ricoverati per modo di dire, ai tempi andati, però fortunatamente e quando arrivai io non c’era questa massa di soggetti e quindi si fece questo raffronto, come richiesta mi mancano determinate cose, mi ricordo anche assistenza sociale, si parlò di assistenza sociale mi ricordo e io ebbi a... no, opporre ad argomentare, nel senso di dire: sì, dobbiamo vedere (incomprensibile) come lo dobbiamo vedere in funzione delle persone esistenti col concetto sempre, che le persone se ogni giorno qualcuno poteva essere dimesso era meglio perché adempivamo a quello che era un dettato normativo.» «… io ricordo che quando cominciai a occuparmi di questa struttura, parecchie erano le cose che bisognava fare e che strutturalmente non e che era ben messo, parecchi erano gli interventi che erano stati fatti precedentemente e parecchi erano anche gli atti deliberativi che degradavano la chiusura dell’ospedale, ma in effetti c’erano quando arrivai io circa 270 persone ancora, quando arrivai a MESSINA.» [2] P.M.: ci dice oggi il Dottore P., il direttore generale dell’USL che sentite le rimostranze del Dottore M. circa l’inadeguatezza del personale, fece una valutazione di congruità dicendo: “se il personale è più o meno lo stesso da tanti anni e se i pazienti si sono ridotti quasi a un decimo di quello che erano se non ho capito male, di quello che erano anni prima, evidentemente la congruità del personale è rispettata”. Lei su queste valutazioni del Dottore P., ci può dire qualcosa di diverso? G. N.: Vostro Onore, le posso dire una cosa che mi viene… mi scusi l’espressione se mi viene un sorrisetto sotto i baffi, P. dice il vero, ma sa che cos’è? Si sono ristretti i pazienti, ma non i reparti i 2 mila metri quadri dei primi uomini c’erano sempre, il personale era sempre quello, cioè si sono ridotti i pazienti, ma non ridotte le strutture sul piano dell'estensione, ha capito?