27.11.2012 free
Comportamenti vessatori in farmacia
il datore di lavoro risarcisce il danno anche in assenza del fine persecutorio del mobbing
Il fatto
La Corte d’appello partenopea ha respinto la domanda proposta dalla dipendente di una farmacia diretta ad ottenere la condanna del titolare al risarcimento del danno esistenziale, del danno derivante dall'anticipato pensionamento e di ogni altro pregiudizio patito in conseguenza di comportamenti ritenuti vessatori posti in essere in ambito lavorativo e tali da determinare uno stato depressivo culminato in un tentativo di suicidio.
La conferma della sentenza del Tribunale di Napoli favorevole al datore di lavoro, ha indotto la dipendente ad impugnare il provvedimento dinanzi alla Corte di Cassazione.
Il diritto
Il mobbing designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo: ai fini della configurabilità del mobbing devono quindi ricorrere molteplici elementi.
Seppure le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un complesso unitario e non risultino complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti costituzionalmente tutelati.
La Suprema Corte nell’accogliere uno dei motivi di ricorso proposti dalla dipendente, ha affermato che nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito (la Corte d’appello nel caso specifico), pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati anche se non accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che potrà essere chiamato a risponderne nei soli limiti dei danni a lui imputabili.
Esito del giudizio
La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte rinviando nuovamente alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.
[Avv. Rodolfo Pacifico – www.dirittosanitario.net]
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente - che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi |
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