05.05.2005 free
TRIBUNALE di MILANO - (sul corretto adempimento dell'obbligo di informazione da parte del chirurgo)
§ - Il consenso dev’essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento. Esso non è dunque un atto puramente formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito, fonte appunto di responsabilità (www.dirittosanitario.net)
sentenza n. 3520/05
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MILANO SEZIONE V CIVILE
In persona del Giudice Istruttore, in funzione di Giudice Unico, dott. Damiano Spera, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa civile iscritta al R.G. n. 46808/01, promossa da omissis
- SVOLGIMENTO DEL PROCESSO -
Con atto di citazione datato 16.07.2001, la sig.ra M.T.T. esponeva: - che in data 3.06.1996, veniva ricoverata presso l’Istituto Europeo di Oncologia Divisione di Senologia per essere sottoposta ad intervento chirurgico di “quadrantectomia alla mammella destra, nonché dissezione ascellare omolaterale con incisione separata” per carcinoma della mammella allo stadio T1; - che l’intervento succitato veniva eseguito in data 4.06.1996; - che, prima dell’intervento chirurgico, la dott.ssa S.M. sottoponeva alla sig.ra T. un modulo di consenso informato da sottoscriversi da parte della stessa; - che, in tale occasione, la dott.ssa M. forniva alla signora T. informazioni sommarie e lacunose in ordine all’intervento e alle cure successive; - che successivamente all’intervento, conclusosi con esito positivo, la sig.ra T., su indicazione della dott.ssa V.G., veniva sottoposta a cura farmacologica mediante prescrizione del farmaco Kessar, prodotto e distribuito in Italia dalla Pharmacia & Upjohn s.p.a.; - che, in conseguenza della cura prescrittale, la T. lamentava sintomi dolorosi di intolleranza al farmaco, pertanto le veniva consigliato dal dott. B. di abbinare al Kessar altro medicinale (Maalox) che ne rendesse tollerabile l’assunzione;
- che la T. non verificava alcun miglioramento e, anzi, pativa forti dolori per intollerabilità al suddetto farmaco, veniva affetta da vasculite (processo di natura iatrogena derivante da reazione a immunocomplessi) ed inoltre, durante il trattamento con il farmaco citato, verificava l’insorgenza di iperplasie endometriali; - che il principio attivo del suddetto medicinale (tamoxifene) comporta, quali conseguenze collaterali, proprio quelle da cui veniva affetta la T.; - che, tuttavia, nelle note illustrative del farmaco non era in alcun modo specificata la possibilità di insorgenza delle patologie lamentate dalla T.; - che l’Istituto Oncologico Europeo, e la Pharmacia & Upjohn s.p.a. non potevano ignorare la potenziale pericolosità dell’uso del Kessar; - che il consenso prestato dalla paziente, non accompagnato dalle necessarie informazioni che avrebbero dovuto essere rese alla stessa, era di fatto inidoneo a consentire l’attività medico chirurgica; - che, in particolare, la T. non fu resa edotta della circostanza che le sarebbe stato praticato un intervento particolarmente invasivo e invalidante mediante il quale le sarebbero stati asportati trentatré linfonodi, laddove nel periodo in cui ella fu operata (ovvero nell’anno 1996) era ormai consolidata prassi operatoria, in interventi di quadrantectomia alla mammella, l’asportazione del solo “linfonodo sentinella”, in luogo del completo svuotamento del cavo ascellare (dissezione ascellare omolaterale), che invece le fu praticato; - che l’intervento eseguito sulla paziente con le modalità sopra descritte aveva notevolmente, quanto ingiustificatamente, causato esiti negativi alla stessa, quali la sensibilizzazione e l’assottigliamento doloroso del lembo cutaneo del braccio, ed aveva altresì aggravato il decorso post operatorio della stessa. Conveniva pertanto in giudizio l’Istituto Europeo di Oncologia s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, nonché i Dott.ri M., L., Z., V., G., B., oltre alla Pharmacia & Upjohn s.p.a. e concludeva affinché il Tribunale li condannasse al risarcimento di tutti i danni subiti, quantificati complessivamente nella somma di un miliardo di Lire.
Si costituiva l’I.E.O. e i medici convenuti, nonché la Pharmacia & Upjohn s.p.a. i quali concludevano per il rigetto delle domande. In particolare l’I.E.O. e l’equipe di medici eccepivano di avere adeguatamente informato la paziente circa l’intervento chirurgico cui sarebbe stata sottoposta, ottenendone l’informato consenso; la seconda negava ogni responsabilità per i danni lamentati dall’attrice. In seguito alla cessione di ramo d’azienda da parte della Pharmacia & Upjohn s.p.a., si costituiva in giudizio, quale successore a titolo particolare della stessa, la Pharmacia Italia s.p.a. dichiarando di fare proprie tutte le difese della prima. Il G.I. ammetteva parzialmente le prove dedotte dalle parti e disponeva consulenza tecnica d’ufficio. All’esito dell’istruttoria, le parti precisavano le conclusioni come in epigrafe trascritte; disposto lo scambio delle sole comparse conclusionali, all’udienza di discussione del 15.12.2004, la causa veniva assegnata in decisione, ai sensi dell’art. 281 quinquies cpv. c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE –
Ritiene il Tribunale che le domande proposte dall’attrice debbano essere integralmente rigettate. Con l’atto introduttivo del presente giudizio l’attrice ha convenuto l’I.E.O. - in persona del legale rappresentante pro-tempore - e i medici dello stesso, nonché che la Pharmacia & Upjohn s.p.a. (ora Pharmacia Italia s.p.a.). Quanto alle responsabilità ascritte ai medici e all’I.E.O., l’attrice ha contestato di avere prestato il “consenso informato” all’intervento, lamentando che i curanti sarebbero venuti meno al dovere di informazione relativo alle modalità dello stesso e al trattamento farmacologico successivo, con particolare riguardo agli effetti collaterali del farmaco prescritto (Kessar). L’attrice ha lamentato che, a fronte delle richieste di chiarimenti avanzate nei confronti della dott.ssa M., che le aveva sottoposto il modulo del consenso informato, quest’ultima si sarebbe limitata a rispondere che non si sarebbe proceduto all’intervento in mancanza della firma sul modulo e, all’ulteriore richiesta della paziente di spiegazioni sul contenuto del citato modulo, avrebbe risposto che in esso non v’era "niente di speciale". Per quanto riguarda i profili di responsabilità ascritti alla Pharmacia Italia s.p.a., l’attrice ha fatto valere in giudizio l’omissione da parte della stessa di informazioni essenziali sugli effetti collaterali del Kessar, non adeguatamente riportate sul foglietto illustrativo allegato al medicinale.
Con riguardo al primo profilo di responsabilità - segnatamente al mancato consenso informato sulle modalità dell’intervento e sugli effetti collaterali del trattamento farmacologico successivo - deve in primo luogo evidenziarsi che è principio consolidato in giurisprudenza che il medico non possa più intervenire sul paziente senza averne ricevuto prima il consenso, presupposto indefettibile per un corretto esercizio dell’ars medica. Il diritto del paziente di formulare un consenso informato all’intervento si evince dagli artt. 2, 13 e 32 cpv. della Costituzione. Il consenso deve essere consapevole al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l’intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall’art. 32 cpv. della Costituzione - a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge -, quanto dall’art. 13 Costituzione, che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall’art. 33 della Legge 23 dicembre 1978, n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.).
Il diritto in esame appartiene ai diritti inviolabili della persona, ed è espressione del diritto all’autodeterminazione in ordine a tutte le sfere ed ambiti in cui si svolge la personalità dell’uomo, fino a comprendere anche la consapevole adesione al trattamento sanitario (con legittima facoltà di rifiutare quegli interventi e cure che addirittura possano salvare la vita del soggetto). Il consenso dev’essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento. Esso non è dunque un atto puramente formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito, fonte appunto di responsabilità. Incombe dunque sul medico un preciso obbligo di ottenere il consenso del paziente, dopo averlo preventivamente informato (Cass. n. 7027/2001). L’informazione dev’essere relativa alla “natura dell’intervento medico e chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi” (Cass. n 364/1997; Cass. n. 10014/1994): il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa.
Circa la natura di tale obbligo deve precisarsi che, superato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il suo mancato assolvimento darebbe luogo a responsabilità di natura precontrattuale (Cass. n. 10014/94), esso deve più correttamente inquadrarsi negli obblighi di natura contrattuale. Infatti l’attività professionale medica si qualifica come prestazione complessa che comprende una fase diagnostica e una terapeutica, ed è proprio successivamente alla prima fase e precedentemente alla seconda che si colloca l’obbligo di informazione, volto ad ottenere la partecipata adesione del paziente alla terapia e ai trattamenti propostigli. Ne consegue che l’onere probatorio circa l’assolvimento del dovere di informazione grava sul medico (Cass. n. 7027/2001): sarà dunque sufficiente la mera allegazione dell’inadempimento da parte del creditore-paziente; graverà, invece, sul convenuto debitore-medico l’onere di fornire la prova dell’avvenuto assolvimento dell’obbligo contrattuale posto a suo carico, secondo i principi generali in materia di onere della prova nell’adempimento delle obbligazioni (recentemente ribaditi dalla Corte di Cassazione a S.U. con sentenza n. 13533/01.
Nel caso di specie risulta ritualmente acquisito agli atti il modulo del consenso informato, sottoscritto dalla paziente prima dell’intervento. Nel testo si legge "Confermo di aver avuto un colloquio durante il quale mi è stata esposta la natura della mia malattia, il tipo di intervento proposto con i benefici e gli eventuali rischi ad esso connessi e, in caso di intervento chirurgico, il tipo di anestesia prevista. Sono altresì stato informato delle eventuali opzioni terapeutiche previste per il mio caso. Sono consapevole che durante il trattamento e nel corso dell’intervento chirurgico possano rendersi necessarie, a giudizio del medico, procedure addizionali o diverse da quelle che mi sono state preliminarmente illustrate. Confermo di aver ricevuto informazioni esaurienti e di aver ottenuto risposta a tutte le mie domande. Comprendo che vi sono potenziali rischi associati a procedure diagnostiche e terapeutiche e che eventuali reazioni avverse non sono sempre prevedibili. Sono anche informato che per le mie condizioni cliniche o per le mie necessità terapeutiche potrebbe essere necessario ricevere uno o più trasfusioni di sangue omologo/emocomponenti/emoderivati. Sono consapevole che tale pratica terapeutica non è esente da rischi (inclusa la trasmissione del virus dell’immunodeficienza e dell’epatite). Sono stato altresì informato della possibilità o meno di praticare l’autotrasfusione nel mio caso […]". Il modulo, così come formulato, non è in alcun modo idoneo a ritenere assolto da parte dei medici l’onere di informazione. Infatti esso è sintetico, non dettagliato, e indica solo genericamente che la paziente sarà sottoposta ad un intervento chirurgico. In esso non si indica affatto di quale intervento si tratti e, pur facendosi menzione dei “benefici, dei rischi, delle procedure addizionali o diverse”che possano rendersi necessarie a giudizio del medico, non si precisa quali siano i rischi specifici, ovvero le diverse possibili procedure, di tal ché, non può ritenersi che il paziente, anche solo dalla semplice lettura di tale modulo, possa avere compreso effettivamente le modalità ed i rischi connessi all’intervento, in modo da esercitare consapevolmente il proprio diritto di autodeterminarsi in vista dello stesso.
Inoltre l’attrice ha allegato: la non adeguata informazione circa l’invasività dell’intervento e circa gli effetti collaterali del Kessar; in particolare avrebbe subito un intervento più invasivo (quadrantectomia e linfoadenectomia ascellare radicale) e più invalidante rispetto a quello prospettatole (quandrantectomia e sola biopsia del linfonodo sentinella); pertanto il consenso non sarebbe stato del tutto carente, ma avrebbe riguardato un intervento diverso. A sostegno delle proprie doglianze ha prodotto diversi certificati medici, nei quali viene diagnosticata vasculite iatrogena (doc. 13, fascicolo di parte attrice) e lievi iperplasie endometriali (doc. 5), pregiudizi venuti successivamente meno con la sospensione del farmaco. Il procuratore dei convenuti ha sottolineato che la circostanza che l’attrice si sia limitata a sottoscrivere solo le prime due parti del modulo - relative all’intervento e alle possibili trasfusioni di sangue - e non la terza - relativa al consenso alle riprese fotografiche - andrebbe valutata, quantomeno, come indizio di “vigile attenzione e di dettagliata conoscenza” dei contenuti del modulo, il che mal si concilierebbe con addebiti di lacunosità e sommarietà dei sanitari a questo riguardo. Ritiene questo giudice che tale rilievo non meriti pregio, atteso che non vi è alcuna omogeneità di contenuto tra le prime due parti del modulo e l’ultima, per cui, dalla mancata sottoscrizione dell’autorizzazione alle riprese fotografiche da parte della paziente, non può in alcun modo inferirsi la sua piena consapevolezza e adesione al tipo di intervento e al programma terapeutico propostole.
Nel rendere l’interrogatorio formale, i medici dell’I.E.O. e, in particolare la dott.ssa M., hanno dichiarato che è “prassi” dell’Istituto, prima di far sottoscrivere il modulo al paziente, illustrargli dettagliatamente la procedura chirurgica programmata, descrivendogli il tipo di intervento da effettuare. Tuttavia nessun medico interrogato (eccetto la dott.ssa M.) era presente al momento in cui fu prestato il consenso da parte dell’attrice, né tantomeno era presente la teste E.D’A. (caposala), la quale ha potuto anch’essa riferire solo sulla “prassi” seguita dai medici dell’I.E.O. In mancanza di prova circa l’assolvimento dell’obbligo di informazione in relazione allo specifico intervento per cui è causa, tale onere gravante sui medici non può ritenersi assolto. Ne discende che la mancata richiesta del consenso deve valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del citato diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione. Con riguardo al consenso sull’intervento diverso e meno invasivo, i CTU hanno spiegato, attraverso una completa acquisizione e valutazione dei dati di fatto, che nel 1996 “il metodo fondato sulla sensibilità diagnostica di un solo linfonodo era ancora nel pieno della fase sperimentale (che poi si rivelò accreditabile scientificamente) e, dunque, non poteva essere eseguito sulla paziente come strumento operativo dotato di fondamento scientifico, […] lo studio del linfonodo sentinella poteva e doveva essere eseguito solo associato alla linfoadenectomia radicale per incrementare le conoscenze sulla sua sensibilità ma non con presidio terapeutico definitivamente accolto e quindi proponibile in termini terapeutici e prognostici concreti su una paziente. […] All’epoca dei fatti non era proponibile né attuabile una procedura limitata alla sola rimozione del linfonodo sentinella in quanto non ancora sostenuta da una validante evidenza scientifica che si realizzò in epoca ampiamente successiva".
A tale proposito il consulente tecnico di parte attrice ha riportato nella sua relazione lo stralcio di un articolo scientifico, redatto nel 1996 dai professori V. e Z., nel quale si può leggere che “[…] il linfonodo sentinella, se non coinvolto, può indicare che la completa dissezione ascellare non è necessaria” e ancora che “[…] un’ampia resezione dovrebbe, nella maggior parte dei casi, essere associata a radioterapia per sterilizzare il letto tumorale e da completa dissezione ascellare per rimuovere ogni linfonodo metastatico e fornire complete informazioni prognostiche”. Tale citazione non può che confermare quanto sopra esposto dai CTU, e cioè che i due medici convenuti consideravano positivamente la tecnica del linfonodo sentinella ma che l’assoluta bontà di tale metodo non era comprovata scientificamente. Infatti dalla stessa letteratura scientifica citata dal CT di parte attrice può facilmente evincersi che non vi era, all’epoca dei fatti, omogeneità di vedute circa l’effettiva validità scientifica del metodo del “linfonodo sentinella” (“Coburn e Bland, in Curr. Opin. Oncol. 1995, ritenevano che la biopsia del linfonodo sentinella richiedesse ulteriore conferma prima di essere universalmente accettata”). Il consulente tecnico dell’attrice ha altresì osservato che “la vasta dissezione linfonodale ascellare è stata contemporanea all’escissione del linfonodo sentinella”, ma anche tale osservazione è destituita di fondamento, attesa la precisazione al riguardo dei CTU, secondo la quale “la procedura di valutazione anche del linfonodo sentinella effettuata sulla sig.ra T., non comportò per la stessa alcuna modifica di trattamento o di tecnica rispetto a quanto atteso e previsto per casi consimili all’epoca dei fatti”. Quanto alla mancata informazione circa i pregiudizi subiti dall’attrice, quali effetti collaterali del trattamento con il Tamoxifene (principio attivo del Kessar), in particolare: orticaria, pirosi, vasculite iatrogena e iperplasie endometriali, la dott.ssa M., in sede di interrogatorio formale, ha dichiarato che “Alla paziente viene detto che seguiranno altri trattamenti che vengono indicati ma che vengono decisi solo dopo il referto istologico” pertanto non viene precisato se “il trattamento sarà medico, ormonale, chemioterapico o radiante, in quanto le informazioni vengono date successivamente all’esame istologico […]. Non è possibile anticipare quale sarà la terapia complementare”.
Tale dichiarazione - seppure giustificata da comprensibili ragioni di umana sensibilità, anche al fine di non traumatizzare ulteriormente la paziente - implica confessione circa la mancata completa informazione sull’intervento e sui suoi effetti collaterali. È acclarato dunque l’inadempimento da parte dei medici convenuti e dell’I.E.O. circa l’obbligazione relativa al consenso informato. Ritiene questo giudice che l’inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del medico incida in via diretta sul diritto della paziente all’autodeterminazione in ordine alle scelte che attengono alla propria salute e che tale lesione vada pertanto riconosciuta autonomamente rispetto alla lesione del diritto alla salute, che nella specie non si è verificata. Essa rientra nella previsione di cui all’art. 2059 c.c., volta a ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona, secondo la recente interpretazione della Cassazione (sentenze n. 8827/03 e n. 8828/03) e della Consulta (sentenza n. 233/03). Pertanto, secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., oltre al danno morale soggettivo (quale transeunte perturbamento dell’animo) e al danno biologico (quale lesione dell’integrità psicofisica della persona) dev’essere risarcito anche il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale, nei quali rientra il diritto di autodeterminazione.
Ma qual è il danno-conseguenza risarcibile?
Alla comprovata lesione dell’interesse di rango costituzionale relativo all’autodeterminazione non consegue ipso iure un danno risarcibile. Non si può infatti ritenere che il danno lamentato dalla paziente sia in re ipsa, nel senso che sarebbe coincidente con la lesione dell’interesse protetto (Cass. n. 8827/03), essendo invece necessaria l’allegazione e la prova dell’entità dello stesso che deve comunque essere apprezzabile per poter dare luogo a risarcimento. Ha correttamente ritenuto la Suprema Corte: “non è l’inadempimento da mancato consenso informato che è di per sé oggetto di risarcimento, ma il danno conseguenziale, secondo i principi di cui all’art. 1223 c.c.” (sentenza n. 14638/2004, nella quale però si trae l’apodittica illazione che “se non sussiste un rapporto causale tra l’aggravamento delle condizioni del paziente o l’insorgenza di nuove patologie e l’intervento sanitario, non può darsi luogo ad alcun risarcimento del danno”). Ai fini di una corretta liquidazione del danno in esame e al fine di contemperare i principi che presiedono all’onere di allegazione e di prova con l’esigenza di evitare duplicazioni ed automatismi risarcitori, appare essenziale distinguere le ipotesi in cui la lesione del diritto all’autodeterminazione si affianchi o meno alla lesione del diritto alla salute, discriminando le ipotesi in cui si ravvisi, in pari tempo, colpa medica.
Possono prendersi in considerazione, a tale riguardo, le seguenti ipotesi, tutte comunque caratterizzate da acclarato inadempimento dell’obbligo di informazione in capo al sanitario: a) in presenza di accertata colpa medica da cui consegua danno alla salute, idoneo criterio è liquidare (oltre al danno biologico), con un’unica voce, sia il danno morale soggettivo che il danno da lesione del diritto di autodeterminazione; b) in mancanza di colpa medica, ma in presenza di danno biologico (per complicanze, statisticamente prevedibili, decorso post-operatorio e quant’altro), preminente dev’essere l’indagine volta a verificare se, nella fattispecie concreta, sussistessero o meno alternative diagnostiche o terapeutiche, ovvero farmacologiche, sulle quali sia altresì mancata l’informazione adeguata da parte del medico. In questa specifica ipotesi il danno risarcibile dovrà tenere conto, in primo luogo, della percentuale di possibilità che il paziente, correttamente informato, avrebbe optato per un diverso trattamento sanitario; in secondo luogo, del rischio connesso all’intervento non eseguito, concretandosi il danno nella perdita delle chances favorevoli, correlate alla possibilità di esito positivo dell’intervento non posto in essere (principi del resto già parzialmente adottati dall’ordinamento francese). Infatti la “chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale” (Cfr. Cass. n. 4400/2004).
In ogni caso l’omesso consenso informato non può elidere il rischio connesso sia all’intervento posto in essere (senza colpa medica), ma sul quale non vi era stata adeguata informazione, e sia agli altri interventi - alternativi ed eventuali - non valutati dal paziente. A questi fini, tuttavia, non vengono prese in considerazione le alternative terapeutiche talmente risolutive per la salute del paziente - seppure in termini di “alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale” - che la loro mancata prospettazione assume rilievo non in termini di difetto di informazione, bensì in termini di colpa professionale (Cass. Pen. S.U. n. 30328/2002); c) può darsi infine che, all’esito dell’intervento cui non era stato dato il consenso informato da parte del paziente, in assenza di colpa medica, non consegua alcun pregiudizio alla salute dello stesso, anzi, addirittura, consegua un miglioramento delle sue condizioni psicofisiche (si pensi all’ipotesi in cui l’omessa esecuzione dell’intervento non consentito avrebbe cagionato la morte o una grave menomazione del soggetto). In tale ultimo caso non sussiste in radice la possibilità di ravvisare alcun danno biologico.
Individuate le ipotesi statisticamente più ricorrenti, per determinare i criteri di risarcimento del danno-conseguenza, è opportuno richiamare i principi già adottati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 184/86, per applicarli all’ipotesi in cui sia stato leso il diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione: il criterio di liquidazione dev’essere, per un verso, egualitario ed uniforme (al fine di evitare che, a parità di casi analoghi il giudice liquidi importi notevolmente differenti) e, per altro verso, elastico e flessibile, per adeguare la liquidazione del danno alle peculiarità della fattispecie concreta. Nel perdurante vuoto normativo, le recenti “Tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale”, adottate dal Tribunale di Milano, hanno confermato l’adesione a questo indirizzo giurisprudenziale allorché vengano lesi altri interessi di rango costituzionale della persona, oltre al danno biologico. Infatti, qualora la lesione di questo ulteriore interesse si accompagni a quella del bene salute, il criterio risarcitorio preferibile è apparso quello di “portare fino a 2/3 della somma liquidata a titolo di danno biologico l’entità massima del risarcimento attribuibile per il danno non patrimoniale (diverso dal biologico) unitariamente inteso - patema d’animo contingente + pregiudizi diversi derivanti dalla lesione di un interesse costituzionalmente protetto - ove, oltre al danno morale soggettivo, risulti un’ulteriore significativa compromissione di un interesse protetto, diverso dal diritto alla salute”.
Premessa indefettibile dell’esposto criterio è il punto d’invalidità, (pressoché univocamente) offerto dalla medicina legale.
Appare evidente, quindi, che tale criterio di liquidazione possa essere opportunamente utilizzato dal giudice per la liquidazione del danno da lesione del diritto di autodeterminazione nella citata ipotesi sub a) e, con ulteriori opportuni temperamenti, nell’ipotesi sub b).
Nell’ipotesi sub c), invece, non v’è alcuna lesione del bene salute del soggetto; tuttavia, in assenza di criteri uniformi adottati dall’ufficio giudiziario, il giudice non può comunque sottrarsi all’obbligo di motivazione, ai fini della liquidazione del danno, a pena di nullità della sentenza per omessa o insufficiente motivazione e per violazione di legge in relazione agli artt. 1223 e 2059 c.c. Nel caso sub c), dunque, per la liquidazione del danno il giudice può ricorrere ad un criterio di equità pura, che regoli cioè, solo la fattispecie concreta in esame (criterio generalmente adottato agli albori del danno biologico), ma che può tuttavia tradursi in apodittiche e (ancora una volta) immotivate statuizioni: “dal mancato consenso informato non può non conseguire un danno nella misura di €...”; oppure “nella fattispecie concreta, tenuto conto delle modalità e delle peculiarità della fattispecie, si stima equo liquidare la somma di € 10.000” (e perché non € 50.000 o € 100.000?). Pertanto il giudice, in tutte le ipotesi in cui sia accertata la lesione del diritto di autodeterminazione, deve esattamente individuare sia il danno risarcibile che un congruo criterio risarcitorio (ciò vale vieppiù nell’ipotesi sub c). Sarà poi compito della cultura giuridica l’esame dei motivati precedenti giurisprudenziali, da cui poter trarre non semplici automatismi tabellari, ma più univoci criteri direttivi nella liquidazione del danno non patrimoniale in esame.
In definitiva, anche in relazione al danno-conseguenza risarcibile in esame, devono applicarsi le regole ed i principi sull’onere di allegazione e prova del danno subito, selezionando le conseguenze risarcibili dell’illecito, rispetto a quelle non risarcibili, in base ai criteri della causalità giuridica: l’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’illecito, ma viene inteso nel senso che la risarcibilità dev’essere estesa anche ai danni mediati e indiretti, purché costituiscano effetti normali del fatto illecito, secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (Cass. S.U. n. 9556/02). È tuttavia necessario che chi si assume leso nel proprio diritto ad autodeterminarsi provi le circostanze rilevanti che giustifichino il risarcimento del danno ex art. 1223 e 2059 c.c. Infatti “è sempre necessaria la prova dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato” (Corte Costituzionale n. 372/94). La Suprema Corte ha ribadito che ogni qualvolta sia provata la lesione di un interesse costituzionale della persona devono essere risarciti il danno morale soggettivo (pecunia doloris o patema d’animo) e i pregiudizi ulteriori e diversi, derivanti da tale lesione, nei quali rientra il diritto di autodeterminazione. È dunque onere della parte provare che, dalla lesione - nella specie dal mancato assolvimento dell’obbligo di informazione - siano derivate conseguenze pregiudizievoli di cui si chiede il ristoro e tali conseguenze “in relazione alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini di intensità e protrazione nel tempo”. Il danno in questione dev’essere quindi allegato e provato; tuttavia, trattandosi di “pregiudizio che si proietta nel futuro (diversamente dal danno morale soggettivo contingente) […] sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obiettivi che sarà onere del danneggiato fornire” (Cass. n. 8827/2003).
Anche nella fattispecie concreta, dunque, grava sull’attrice un preciso onere di allegazione e di prova. Ai fini della formazione del convincimento del giudice si deve rilevare: - in primo luogo, non è stata accertata colpa medica e si è verificato un indubbio miglioramento delle condizioni di salute della paziente, che, affetta da carcinoma mammario, è poi definitivamente guarita a seguito dell’intervento. La fattispecie concreta rientra dunque nella menzionata ipotesi sub c); - in secondo luogo, l’intervento praticato fu comunque eseguito secondo la tecnica operatoria più accreditata all’epoca dello stesso e dunque l’astratto diritto dell’attrice di autodeterminarsi in vista di un possibile intervento “diverso” e meno invasivo non può trovare tutela in mancanza della stessa possibilità che, all’epoca dei fatti, fosse praticato un intervento chirurgico alternativo a quello posto in essere; - in terzo luogo, nella fattispecie concreta non sussiste, neppure in astratto, ipotesi di reato (Cass. n. 8827/03; Corte Cost. n. 233/03). Peraltro la denuncia di reato sporta dall’attrice il 9/03/2000 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova nei confronti dei medici convenuti si è risolta in una archiviazione del procedimento, in quanto il G.I.P ha ritenuto di non ravvisare nei fatti denunciati gli estremi di alcun reato, anche sulla base della considerazione “che comunque esiste una sproporzione tra il male lamentato ed il male che affliggeva la signora T. e che occorreva fronteggiare ad ogni costo”;
- in quarto luogo, la circostanza che, a fronte della lesione del diritto di autodeterminazione della paziente - diritto che attiene alla sfera più intima e intangibile della persona umana, particolarmente vulnerabile soprattutto in occasione di eventi drammatici, quali quello che hanno colpito l’attrice - ella nel 1998, in epoca ampiamente successiva all’intervento per cui è causa - allorché aveva certamente già acquisito la piena consapevolezza delle modalità dell’intervento che aveva subito abbia nuovamente accordato la sua fiducia all’I.E.O., per curare altre patologie da cui veniva affetta, e si sia anche sottoposta alle visite di controllo al seno, determinandosi solo nel 2001 ad agire in giudizio contro lo stesso Istituto; - in quinto luogo, quanto ai pregiudizi diversi allegati dall’attrice (pirosi, orticaria, vasculite, iperplasie endometriali), alcuni dei quali di lieve entità (quali le iperplasie endometriali, sub doc. 5), derivanti dall’uso del Kessar, deve precisarsi che, come illustrato nella relazione peritale “il trattamento adiuvante con Tamoxifene 20 mg die per cinque anni, rappresenta la terapia standard per donne con tumori alla mammella con recettori positivi. La terapia adiuvante può infatti prevenire le recidive e migliorare la sopravvivenza delle donne operate e risultate con recettori positivi”. È ben vero che i benefici del Tamoxifene devono essere considerati alla luce dei suoi effetti collaterali ma, come riportato nella letteratura indicata nella relazione tecnica, in generale gli effetti collaterali del farmaco sono di gran lunga superati dai vantaggi, pertanto la “comprovata efficacia del Tamoxifene giustifica il suo uso anche a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Quanto agli effetti collaterali, infatti, essi “sono di modestissima portata, ampiamente rientranti nelle eventualità attese durante tale terapia; essi, come ben comprensibile, non sono paragonabili per rischio e compromissione a quelli, più comunemente segnalati, di aumento delle possibilità di tromboembolismo venoso e di tumori dell’endometrio. La comprovata efficacia del Tamoxifene giustifica il suo uso anche a fronte di tali effetti sfavorevoli”. Inoltre tali effetti collaterali sono cessati con la sospensione del farmaco ed, in ogni caso, come precisano ancora i CTU “seguendo un itinerario decisionale razionale scientificamente fondato, il referto di lieve iperplasia endometriale (10 mm) segnato all’ecografia del 13-12-96 in donna in età post menopausale [nata il 7.6.1930], con genitali interni in fase involutiva e senza sintomi, non rappresentava un riscontro che giustificasse la sospensione del farmaco la quale, peraltro, si realizzò dopo sei mesi di trattamento”;
- in sesto luogo, infine, l’attrice - affetta da carcinoma alla mammella e comunque sottoposta ad intervento chirurgico di tipo conservativo (quadrantectomia) e non al più devastante e demolitivi intervento di mastectomia – non ha mai allegato anche la remota possibilità, a fronte del rischio probabile della vita, di rifiutare l’intervento, se le fosse stato prospettato che, oltre all’asportazione del solo linfonodo sentinella, le sarebbero stati asportati tutti i linfonodi. Sarebbe stato onere dell’attrice (se non provare che avrebbe fatto una scelta diversa) quanto meno allegare circostanze che rendessero plausibile la possibilità che, se adeguatamente informata, ella avrebbe rifiutato l’intervento. Nella fattispecie concreta l’attrice non ha, inoltre, allegato alcuno specifico patema d’animo o sofferenza, né transeunte né permanente, e non ha neppure prospettato l’insorgenza di pregiudizi ulteriori e diversi comunque riconducibili all’omesso consenso informato.
Alla luce di tutte le argomentazioni esposte, ritiene il Tribunale che la lesione dell’interesse protetto, ovvero del diritto di autodeterminazione, abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale - inteso sia come danno morale soggettivo (pretium doloris della lesione subita) che quale pregiudizio ulteriore e diverso (derivante dalla predetta lesione) - ma che tale danno sia ontologicamente trascurabile e, comunque, di entità economica non apprezzabile. Quanto alla responsabilità della Pharmacia Italia s.p.a., l’attrice ha lamentato che nelle note riportate sul foglietto illustrativo del Kessar non vi sarebbe stata una corretta informazione circa i suoi effetti collaterali. Tali doglianze sono destituite di fondamento. In primo luogo, e per le ragioni già esposte con riguardo alla responsabilità dei medici, deve ribadirsi la correttezza della prescrizione del farmaco citato, anche a fronte dei suoi pregiudizi collaterali; deve altresì ribadirsi come i pregiudizi lamentati dall’attrice fossero comunque di modesta rilevanza (quanto alla pirosi, all’orticaria e alle iperplasie). Per quanto attiene alla vasculite, in uno stralcio del Grug Eruption Reference Manual del 1997, relativo al Tamoxifene (prodotto in giudizio dall’attrice) si segnalano reazioni cutanee molto rare (circa il 2-3 % dei casi) e tale casistica non può in alcun modo dimostrare la riconducibilità delle patologie lamentate dall’attrice all’uso del Kessar; in ogni caso lo stesso medico curante della T. propose “l’assunzione di una terapia diversa da quella esterna per risolvere la situazione” (doc. 13 fasc. attrice).
Con riguardo alla carenza di informazioni sul foglietto illustrativo allegato al farmaco, deve rilevarsi che in esso sono specificamente riportati gli effetti indesiderati noti, quali gli effetti sull’endometrio, la possibile comparsa di iperplasia, polipi e carcinoma, e precisamente “effetto estrogenico paradosso che il Tamoxifene può esplicare sull’endometrio, […], vampate di calore, […], episodi di recrudescenza del dolore osseo e a livello della eteroplasia e/o incremento morfologico e sintomatico della malattia a livello locale, […]”. Tale foglietto illustrativo contiene tutte le voci prescritte dal D.Lgs. n. 540/92 in materia di etichettatura e foglietto illustrativo dei medicinali per uso umano, e confermate a livello europeo dalla direttiva 2001/83/CE. In particolare in esso sono riportate sia le indicazioni terapeutiche, sia le controindicazioni e le precauzioni di impiego, ovvero le interazioni con altri farmaci, le avvertenze speciali e gli effetti indesiderati. Nessuna responsabilità è dunque ascrivibile in capo alla Pharmacia Italia s.p.a. Pertanto, alla luce delle considerazioni suesposte, le domande dell’attrice devono essere integralmente rigettate.
Quanto esposto è assorbente rispetto alle altre domande, eccezioni ed istanze istruttorie proposte dalle parti. Concorrono giusti motivi, alla luce delle ragioni della decisione, per porre a carico delle parti, in ragione di un quarto ciascuna (i medici in solido tra loro), le spese della consulenza tecnica d’ufficio e per dichiarare integralmente compensate tra tutte le parti le spese processuali. La presente sentenza è dichiarata provvisoriamente esecutiva ex lege.
- P.Q.M. –
Il Tribunale di Milano, definitivamente pronunciando, così provvede:
- rigetta le domande proposte dall’attrice;
- rigetta le altre domande, eccezioni ed istanze proposte dalle parti;
- pone le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico delle parti in ragione di un quarto ciascuna;
- dichiara integralmente compensate tra le parti le spese processuali;
- dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.
Milano, 24.03.2005
Il Giudice Istruttore in funzione di giudice unico dr. Damiano SPERA