21.01.2005 free
CORTE di CASSAZIONE - ( sulla responsabilita' del medico in ordine alla prescrizione di medicinali a base di morfina per uso non terapeutico)
§ - Riveste le connotazioni del particolare valore morale e sociale la condotta del medico, che sia pure al solo fine di una "terapia di mero mantenimento" abbia praticato una terapia a base di sostanze stupefacenti, qualora sia provato che, in mancanza di tale "impropria terapia", il paziente sarebbe stato indotto a far ricorso al circuito del narcotraffico, in tal modo o altrimenti, arrecando grave vulnus alla propria salute o alla propria condizione umana e sociale. La valutazione della condotta del medico, quale che sia stato il percorso terapeutico seguito, non può prescindere da una precisa, ragionevole e necessariamente empirica valutazione causale, quando l'obiettivo terapeutico sia stato conseguito; la eventuale origine causale alternativa deve essere rigorosamente provata, e deve essere tale da escludere, senza ragionevole dubbio, che la guarigione sia ascrivibile alla cura praticata ( www.dirittosanitario.net)
Cass. pen. Sez. IV 28 aprile 2004, n. 31339
Svolgimento del processo
TL è stato tratto a giudizio innanzi al GUP di Milano il quale, con sentenza in data 21 dicembre 2000, lo ha ritenuto responsabile di violazione della disciplina in materia di sostanze stupefacenti e di falsità ideologica di cui all'art. 481 c.p., per avere, nella sua qualità di medico, prescritto al paziente PM l'assunzione di medicinali a base di morfina cloridrato per uso non terapeutico, con cadenza settimanale, dal 1994 al 1999, ed in particolare, negli anni 1997-1999 per aver erogatotali prescrizioni a nome della di lui madre, pur consapevole che tali medicinali fossero in realtà destinati alla assunzione da parte del figlio tossicodipendente. Quel primo giudice, ritenuta l'ipotesi meno grave di cui al quinto comma dell'art. 73, D.P.R. 309/90, con la continuazione sia interna, che in relazione alla contestazione di cui all'art. 481 c.p., e concesse le attenuanti generiche, condannava l'imputato alla pena finale di anni uno e mesi quattro di reclusione, e multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
La Corte di Appello di Milano, investita della impugnazione da parte dell'imputato (rimasto contumace) sia sul piano della integrazione dell'elemento oggettivo del reato, che dell'elemento soggettivo, cheancora dell'affermata ingiustizia del diniego di applicazione della attenuante di cui all'art. 62 n. 1 c.p., riteneva di confermare integralmente quella prima sentenza. In punto di fatto, l'imputato, nella qualità di medico curante del P.M., giovane tossicodipendente che si era rivolto a lui al fine di pervenire alla disassuefazione dallo stato di dipendenza nel quale versava, aveva provveduto ad erogare nel tempo (per la durata di cinque anni) dosi costanti del preparato farmaceutico (morfina cloridrato), negli ultimi due anni intestando le prescrizioni alla madre del paziente stesso, sicchè il P. aveva fatto a meno di porre in essere i comportamenti noti, per comune esperienza, e per i quali tali soggetti si rivolgono al mondo dello spaccio (nel caso lo stupefacente sostituito era l'eroina) espesso sono indotti a commettere reati di varia natura per reperire il danaro sufficiente a procurarsi la droga in quantità e qualità sempre maggiore, fino a compromettere definitivamente anche la propria salute fisica e talora, e non di rado, giungendo a morte lenta o per overdose.
Le dosi di farmaco venivano regolarmente acquistate sempre presso la stessa farmacia ove, in occasione di controlli per un diverso ed affatto estraneo traffico illegale di ricette farmaceutiche finalizzate alla erogazione di sostanze stupefacenti tra extracomunitari (sia medici che assuntori), e per il quale si provvide a procedere separatamente, gli investigatori rilevarono anche tale evidente circostanza concernente le ricette rilasciate in favore del P. e della di lui madre (anziana pensionata e sofferente), così intraprendendo le relative indagini che condussero all'odierno processo. Dalle sentenze emesse nei due gradi di giudizio è emerso incontrovertibilmente che:
- il Dottor T. non si fece mai corrispondere alcunchè per le prescrizioni per cui è imputazione; - egli accettò di effettuare le prescrizioni, nel tempo, unicamente al fine di sottrarre il giovane all'eroina, al giro degli spacciatori ed alla sorte cui, in mancanza, sarebbe stato destinato (testimonianza della madre del giovane, .., accreditata dai Giudici di merito, nonchè del farmacista..); E' emerso anche che le prescrizioni non furono effettuate nè in funzione di un preciso programma terapeutico individualizzato (del quale non fu rinvenuta traccia e del quale l'imputato non offrì mai elementi di conoscenza), e che la dosi non vennero prescritte nè in misura decrescente e nè per breve tempo (in funzione di un programma a scalare (come da insegnamento pressochè costante di questa Corte, ma da ultimo non più condiviso da alcuni giudici di merito, come peraltro segnalato in ricorso. V. per tutte Sez. 4^, 29 settembre 1995, n. 10270, Moncalvi). La sentenza di primo grado, richiamata per relationem da quella di secondo grado, ha affermato che, se è pur vero che il P. portò a compimento positivamente il suo obiettivo di sottrarsi alla dipendenza da stupefacenti, tale sua disassuefazione fu dovuta all'intervento delle forze dell'ordine che interruppero la "cura", e non già per decisione del Dottor T. a seguito di constatato raggiungimento di tale esito della cura stessa (pag. 19 di sentenza).
La sentenza di appello, qui impugnata, negò per altro le ragioni critiche dell'appellante in punto di denegata applicazione della attenuante di cui all'art. 62, n. 1 c.p.. sulla considerazione "che la somministrazione di sostanze stupefacenti, sia pure sotto forma disciroppo contenente morfina base, o la falsa intestazione di una ricetta per l'acquisto di tale sostanza, possa essere considerato "un valore avvertito dalla prevalente coscienza collettiva" e ricevere "l'incondizionata approvazione della società", è mero assunto della difesa sfornito di prove; che poi il medico abbia addirittura agito per "salvare la vita dell'imputato" come si sostiene per invocare la concessione dell'attenuante, non è stato minimamente dimostrato" (pag. 27 di sentenza). Per completezza, va anche detto che, sul piano dell'elemento oggettivo, la Corte non ha negato che, a seguito dei noti esiti referendari del 1993, ed alla abrogazione del comma primo dell'art. 72 D.P.R. 309/1990, la valutazione della finalità terapeutica della somministrazione (non riservata alle strutture pubbliche a ciò destinate, ma riservata a qualsiasi esercente la professionesanitaria) è "aperta" dal punto di vista del relativo protocollo, sebbene rigorosamente finalizzata all'esito della disintossicazione del paziente. Onde questa Corte, in sentenza Moncalvi ante citata, ha interpretato tale previsione nel senso innanzi detto, e cioè del previo programma terapeutico individualizzato, e della somministrazione a scalare e vincolata a tempi brevi.
Sul connesso ma diverso piano dell'elemento soggettivo, e premesso che per l'integrazione della fattispecie sia richiesto il dolo generico, la Corte di merito ha stabilito che la consapevolezza di perseguire una finalità (di "mantenimento" del paziente) diversa da quella resa legittima dalla norma stessa, il Dott. T. avesse evidenziato con le accertate finalità, sia pur apprezzabili, di sottrarre il giovane al circuito della droga e a probabile morte per intossicazione o per overdose. Ricorre l'imputato e deduce cinque motivi di ricorso, ulteriormente esplicitati con memoria depositata in data 7 aprile 2004. Con il primo motivo denuncia illogicità della motivazione in ordine alla affermata responsabilità per il capo A) della rubrica (reato in materia di stupefacenti) sottolineando come apodittica e travisante i fatti processuali appaia l'affermazione secondo la quale la guarigione del paziente sia intervenuta in concomitanza con la interruzione della "cura" dovuta all'intervento della polizia giudiziaria; così non accreditando la testimonianza della madre, Signora .., che pur ritenuta teste credibile su altri punti della vicenda, tuttavia non è presa in considerazione (senza alcuna motivazione) allorchè afferma che la guarigione del figlio fu dovuta proprio alla cura incriminata, e che le ulteriori prescrizioni del farmaco rilasciate dopo l'anno 1997 a lei personalmente -in quanto terapia antidolore-fossero realmente a lei destinate per lenire idolori che le derivavano dagli esiti di ferite riportate in subite rapine all'ufficio postale ove lei aveva lavorato; di più, evidenziando, il ricorrente, la apoditticità della affermazione e della Corte e del GUP, sul punto, posto che nessuna prova vi è che l'intervento operativo di P.G. (sequestro di atti ed interruzione delle prescrizioni) e non l'esito terapeutico, siano state la causa della definitiva interruzione di assunzione di sostanza stupefacente da parte del giovane Pasqualini.
Con il secondo motivo di ricorso denuncia violazione delle norme di cui ali artt. 83 e 73, comma quinto. D.P.R. 309/1990, avendo la sentenza di appello ritenuto integrato il reato (nei termini della imputazione) per la mancanza della prescrizione "a scalare" nel caso di specie, stante che tale regola terapeutica non è assolutamente fissata dalla normacontestata all'imputato, norma che contempla unicamente l'effetto finale della terapia, consistente nella disassuefazione del tossicodipendente, e dunque nella sua guarigione; lasciando libero il medico di individuare il percorso terapeutico necessario a tal fine, ed in relazione alla conoscenza dello specifico paziente e del suo stato patologico. Dimodochè, nel caso di specie, la somministrazione praticata dal Dottor T. non potesse considerare abusiva, cioè altra rispetto alla finalità terapeutica, non essendo supportata da diverse e comprovate ragioni da parte dell'accusa, che non fossero quelle specifiche dell'intervento terapeutico. Nè quella successiva al 1997 non destinata realmente alla madre (ad onta della imputazione di falso che gli veniva contestata), stante che il figlio non ne aveva -come già accertato in prima sentenza- più bisogno essendo guarito. Con il terzo motivo di ricorso denuncia illogicità della motivazione in relazione alla asserita assenza di un programmaterapeutico, che la Corte ha ritenuto provata dalla mancata produzione di una specifica tesi difensiva, sul punto, da parte dell'imputato; dovendo invece l'accusa provare, semmai, tale mancanza; il che non è stato. Così violando la norma dell'art. 530 c.p.p. in punto di approdo del giudizio in seguito a mancata prova dell'accusa su un punto costitutivo della imputazione. Ed in ogni caso l'assunto non corrisponde al vero in quanto nel corso del processo il prof. Lodi, noto tossicologo, fu proprio lui a spiegare, per conto dell'imputato essendone il consulente tecnico di parte, come il trattamento riservato dall'imputato al paziente P. dovesse considerarsi "terapeutico".
Con il quarto motivo di ricorso denuncia violazione di legge penale (in ordine al reato in materia di stupefacenti) sul punto dellaindividuazione dell'elemento soggettivo del reato. Posto infatti che la commissione del reato di falsa prescrizione della sostanza farmaceutica alla madre per il figlio non può ritenersi per sè circostanza rilevante ai fini della individuazione del dolo nel reato cui agli artt. 83 e 73 D.P.R. 309/1990, la dichiarata intenzione dell'imputato di tamponare la situazione del tossicodipendente mediante la somministrazione di terapia di mantenimento, in sè non corretta (per le stesse dichiarazioni del prof. Lodi e della letteratura medica da questi riferita), e la regola di esperienza secondo la quale il paziente guarisce per le cure praticategli (in forza di rapporto causale scientificamente indiscutibile) e non già per l'intervento della polizia, sono tali da avvalorare una diversa consapevolezza dell'imputato che nel praticare la cura sapeva bene diperseguire il fine terapeutico negato dalla sentenza per errore di giudizio. Si chiede inoltre come possa la Corte sostenere l'assenza del fine terapeutico, inoltre, quando essa stessa ha negato, ed anche il GUP, una diversa ed alternativa finalità delle prescrizioni praticate dall'imputato.
In fine, e come quinto motivo, denuncia illogicità della motivazione per aver denegato il riconoscimento della circostanza attenuante dell'aver agito, in relazione ad entrambi i reati contestati, per ragioni di particolare valore morale e sociale; e ciò non solo per la insufficienza, se addirittura non mancanza di motivazione, quanto meno per aver evidenziato nel fine dell'aiuto al tossicodipendente ad uscire dal tunnel della droga, nell'aver agito in modo disinteressato ed a fini esclusivamente altruistici, nell'aver fornito un apporto psicologico non solo al paziente ma anche alla famiglia e nell'aver portato il malato a guarigione, salvandogli la vita, le ragionidell'agire dell'imputato che non possono non integrare l'ipotesi attenuante de qua.
Con memoria depositata in data 7 aprile 2004, il ricorrente specifica ulteriormente le incongruenze e le contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, poste a base dei motivi originari di ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e deve essere accolto sotto il profilo del difetto di motivazione. Conviene, per ragioni di ordine logico, esaminare in primo luogo le censure di cui al secondo motivo di ricorso del T., e successivamente quelle di cui al motivo primo del medesimo atto di impugnazione. Il quadro normativo entro il quale deve essere sussunto il fatto contestato all'imputato, è delimitato, come stabilito dai Giudici di merito (posto che le due sentenze debbono essere prese inconsiderazione in un unico contesto logico integrato, stante non solo la trasposizione integrale della prima sentenza nel corpo della seconda, ma anche i molteplici richiami a tale prima sentenza da parte del secondo Giudice nell'ambito delle propria motivazione), dagli artt. 43, 72, 73 ed 83 D.P.R. n. 309/1990.
In particolare, l'art. 43 del detto D.P.R., richiamato dal primo Giudice (segnatamente a pag. 27 di sentenza, trascritta a pagg. 14-16 di sentenza di appello, nella duplice numerazione risultante in fascicolo) non risulta di utilità alcuna nel caso di specie, concernendo una serie di modalità relative alle prescrizioni dei farmaci a base di sostanze stupefacenti, tendenti a realizzare un sistema di garanzie ed a consentire i necessari controlli sulle attività del medico. Ma non interessano, tali modalità, in alcunmodo la fattispecie qui dedotta, non essendovi, in relazione al reato di cui al capo a) della rubrica, alcun nesso o implicazione in merito alle modalità della contestata condotta. Interessano, invece, le disposizioni di cui agli art. 72 (quanto alle finalità terapeutiche che debbono essere proprie delle prescrizioni farmacologiche a base di sostanze stupefacenti), e 73 ed 83 in ordine ai relativi reati ed al sistema sanzionatorio in caso di prescrizioni farmacologiche di detto tipo, ma erogate a fini non terapeutici. Linea di confine fra il lecito è l'illecito è dunque quella tracciata dalla norma di cui all'art. 72 D.P.R. n. 309/1990, nella formulazione successiva alla abrogazione, con D.P.R. n. 171/1993 (a seguito del noto esito referendario) dell'originario primo comma. Tale norma, facendoeccezione al divieto di uso di sostanze stupefacenti e psicotrope individuate dallo stesso D.P.R. in tabelle allegate, ne consente l'uso terapeutico in preparati, a condizione che tali preparati siano debitamente prescritti (qui chiamando in causa il precedente art. 43 per le ragioni ante prima accennate) con riferimento alle necessità di cura riferite alle particolari condizioni patologiche del paziente. Oggetto di tutela di tale sistema normativo è evidentemente la salvaguardia della salute delle persone, genericamente minacciata dall'uso indiscriminato di sostanze stupefacenti, ma, in casi di specifiche patologia, perseguibile, per contro, attraverso un uso ponderato di esse, che la norma definisce "terapeutico"; id est: curativo.
Nessuna altra indicazione specifica fornisce il D.P.R. in questione, così affermando la regola della "libertà di terapia", e dunque secondo "scienza e coscienza" del medico. E' noto il principio giuridico, in tema di protocolli terapeutici, della valutazione "ex ante", e dunque della scelta di uno specifico "protocollo" in base alla diagnosi della patologia ed agli esiti scientificamente apprezzati di uno specifico protocollo rispetto a quella patologia. Tale regola esige, nel caso di specie (della cura della tossicodipendenza) che il fine che la specifica terapia si propone, sia quello della uscita dalla condizione di tossicodipendenza; fine che, secondo una regola di esperienza comune più che clinica, questa Corte ebbe a ritenere perseguibile solo attraverso la somministrazione di farmaci a base di sostanza stupefacente, in dose decrescente e per un tempo ragionevolmente limitato, e sulla base di un programma terapeutico personalizzato (Sez. 4^, n. 10270/1995, Moncalvi). Il citato insegnamento, ormai ampiamente risalente nel tempo, non può per altro ritenersi di portata assoluta, posto che ilsistema normativo esaminato, limitando la eccezione (in tema di somministrazione consentita di sostanze stupefacenti) al solo "uso terapeutico", non può, per vero, subire altro limite (quale è quello dell'indicato criterio di cui a Cass. n. 10270/98 ante citato) che non il fine insito nella specifica finalità della guarigione del paziente mediante disassuefazione.
Rebus sic stantibus, il Giudice deve limitarsi a verificare se, sul piano dell'elemento soggettivo, questo sia stato il fine prefissatosi dal medico nel praticare un trattamento (nel caso, della tossicodipendenza; ma la terapia a base di tali sostanze riguarda anche altre patologie, ed in special modo, la tanto controversa - sul piano etico - terapia del dolore; e di cui è testimonianza la stessa prescrizione, ritenuta illogicamente falsa, fatta dopo il 1997 dall'imputato in favore della madre del P.) a base di sostanze stupefacenti, e se, sul piano della causalità, ed allostato della scienza medica, tale trattamento sia o non coerente a quanto la stessa scienza ritenga foriero di risultati in termini di "guarigione". Quanto innanzi, con riferimento al caso specifico dedotto in processo, ed escluso il profilo concernente l'elemento soggettivo sul quale i Giudici di merito non sembrano dubitare, stante l'affermata assenza di ogni altro interesse, da parte dell'imputato, che non fosse la cura della tossicodipendenza, o, quanto meno, l'impedire al paziente il ricorso ai circuiti del narcotraffico onde evitarne la rovina fisica e morale, ed, alla fine del percorso, anche la morte, non può che concernere la utilità della cura praticata nella ragionevole e quasi certa prospettiva (secondo le note regole di giudizio individuate in tema di colpa omissiva medica, ma di portata e valore generale, da queste SS.UU. 30328, 10/07/2002, Franzese). Ora, non può non considerarsi che l'unico esperto tossicologo, il Prof. Franco Lodi, cui fannoriferimento le sentenze dei Giudici di merito, ha dichiarato (come emerge dalle sentenze stesse) che "qualsiasi medico curante può utilizzare liberamente ogni farmaco sostitutivo, ancorchè stupefacente, purchè abbia giustificazione terapeutica nella tossicodipendenza", così di fatto riconnettendo, nello specifico, le prescrizioni praticate dal Dottor T., al fine di "curare" il paziente ... Nè gli stessi Giudici hanno potuto evitare di prendere in considerazione la affermazione dello stesso Prof. Lodi nel senso che "le modalità di verifica e di controllo dello stato di tossicodipendenza ... di fatto non rappresentano più un riferimento obbligato e lasciano al medico curante la scelta dei criteri valutativi di accertamento che ritenga più opportuni" (pagg. 13 e 14 di sentenza di primo grado).
Dunque, ed in mancanza di elementi scientifici che, acquisiti al processo, provino il contrario, e quali che siano le metagiuridiche considerazioni di sentenza tendenti a svalutare la portata scientifica di tali affermazioni in considerazione della qualità di "consulente" di parte del Prof. Lodi (ma non per questo aprioristicamente da ritenere teste "compiacente") e la natura di "piuttosto ... memoria difensiva" della sua relazione, resta affermata e provata (perchè il teste è l'unico ad essere qualificato i maniera specifica nel qui dedotto processo; non smentito nè da prova contraria, nè da rincontri obiettivi e nemmeno da massime di comune esperienza) la libertà di diagnosi del medico curante, e la corrispondente libertà di terapia. Spetterà -qualora la terapia non abbia conseguito l'esito disintossicante voluto- semmai all'accusa provare, in qualunque stadio della terapia, la insussistenza del fine terapeutico, nel caso concreto, e dunque la ipotizzabilità del reato di cui al combinato disposto degli artt. 73ed 83 D.P.R. n. 309/1990. Non basta certo la mera ed apodittica affermazione di "non particolare risolutività" della resa "consulenza" per fondarvi un giudizio di responsabilità penale, come nel giudizio in questione, asseverato poi dalla stessa Corte di merito che si è supinamente adagiata sulle valutazioni di quel primo Giudice, senza per altro rispondere puntualmente alle censure formulate in atto di appello (e dunque riproposte innanzi a questa Suprema Corte sotto il profilo della violazione di legge penale).
Si impone, dunque, in accoglimento della specifica censura, un nuovo giudizio che dia conto delle ragioni poste a base della ritenuta inattendibilità delle affermazioni del Prof. Lodi, ed in particolare delle ragioni per le quali il trattamento terapeutico praticato dall'imputato al fine di conseguire la disassuefazione dall'uso disostanze stupefacenti (originariamente eroina) del paziente PM (fine poi conseguito) non rispecchiasse i caratteri di un protocollo scientifico adeguato al fine che lo stesso art. 72 D.P.R. 309/1990 si propone. In relazione al motivo primo di ricorso, va osservato che, a fronte della testimonianza della madre del P., ..., e particolarmente della dichiarazione resa in data 20 aprile 2000, e secondo la quale il di lei figlio P. non necessitò più, sin dall'anno 1997, della somministrazione del farmaco a base di morfina cloridrato (successivamente prescritta a lei in funzione di cura del dolore, e contrariamente ad ogni processo logico rimproverata sub specie di falso al Dottor T.) perchè ormai guarito ("... grazie a questo sciroppo mio figlio non si buca più..."; "... è dal 1997 che non prescrive più lo sciroppo di morfina per mio figlio, ma lo prescrive solo per me per i dolori ...": v. pag. otto di sentenza di primo grado), la sentenza impugnata, (che pure sul punto ricalca totalmente quella di primo grado), presenta il grave deficit motivazionale prospettato da parte ricorrente.
Ed infatti, la affermazione secondo la quale il P. (la cui guarigione non è messa in dubbio da nessuna delle due sentenze di merito) cessò in maniera sicura di assumere sostanze stupefacenti - sia per le mancate prescrizione del Dottor T., essendo queste cessate nei suoi confronti fin dal 1997, sia per il mancato, ed unico ipotizzabile in tali casi, alternativo ricorso al circuito del narcotraffico - solo per l'intervento della Polizia Giudiziaria e non per sua autonoma scelta o "in considerazione di ragionate (e verificabili) motivazioni del sanitario" (pag. 20-22 di sentenza diappello), non si fonda su alcun elemento probatorio, ma su una arbitraria presunzione fondata sulla convinzione della non terapeuticità della cura praticata dal Dottor T.. La quale, in quanto mera ipotesi, collide non soltanto con le opposte valutazioni rese con pieno valore di prova dal Prof. Lodi (e di cui s'è qui prima riferito), ma anche con quanto dichiarato dalla stessa madre del P. (del pari qui innanzi riferite) non ritenuta dai primi Giudici teste falso o inattendibile. Persino, tale assunto della Corte, collide con la massima di comune esperienza secondo la quale la dipendenza patologica dall'assunzione di sostanze stupefacenti è tale, in re ipsa, da imporre il ricorso reiterato ed inevitabile alla continua assunzione di sostanze Stupefacenti, senza che alcuno strumento dissuasivo alternativo possa valere. Perchè, se così non fosse, tale alternativo strumento, idoneo a far cessare lo stato di tossicodipendenza, e dunque la patologia stessa (nel caso dequo, l'intervento della P.G.), si candiderebbe a strumento terapeutico, alternativo a quello obtorto collo consentito dalla norma di cui all'art. 72 D.P.R. n. 309/1990 mediante ricorso alle stesse sostanze stupefacenti; strumento terapeutico alternativo che certo il legislatore della norma non avrebbe mancato di considerare in alternativa alla previsione di cui all'art. 72 citato.
Nel caso qui dedotto, i Giudici di merito non hanno indicato la prova della capacità ... risolutiva (e terapeutica) dell'intervento della Polizia Giudiziaria, sì da poter negare la alternativa tesi secondo la quale la guarigione fu dovuta proprio alla cura praticata dall'imputato. Anzi, appare inevitabile (allo stato della carente motivazione) la considerazione secondo la quale -dovendosi escludere (perchè irrazionale) il nesso causale fra intervento della PoliziaGiudiziaria e guarigione del P.- tale guarigione non possa che essere conseguenza proprio dalla cura del T. che così - sia pure con un non inammissibile giudizio "ex post"- si porrebbe come antecedente causale alternativo e credibile di tale guarigione, per la sua così evidente connotazione di "terapeuticità" reclamata dal ricorrente. Deve essere conseguentemente anche riveduto il giudizio sulla attendibilità della tesi difensiva, corroborata dalla testimonianza della madre del Pasqualini, in ordine al reato di falso, posto che, essendo il Pasqualini guarito fin dal 1997, non trova più fondamento razionale alcuno la presunzione dei Giudici di merito in base alla quale -disattesa la tesi difensiva secondo la quale tali dosi erano poi destinate ad uso della donna per le ragioni ivi indicate, e disattesa la stesa teste .., per ogni altro aspetto ritenuta credibile- le prescrizioni del farmaco,successive alla guarigione del paziente P., fossero destinate a costui (che non ne aveva più alcun bisogno) e non già alla madre, per le ragioni indicate dalla difesa del T., in funzione di finalità che non trovano più spiegazione alcuna nella motivazione della sentenza.
In fine, ed in ordine alla negata applicabilità della attenuante di cui all'art 62, n. 1 c.p. alla intera condotta contestata all'imputato, non può negarsi che debbano considerarsi fondate le censure del ricorrente: Quale minus rispetto alle argomentazioni precedentemente svolte e certo maggiormente adeguate alle carenze strutturali della impugnata sentenza, e già per le stesse valutazioni svolte in sentenza impugnata in ordine alla quanto meno "provata ... volontà del medico di 'tamponarè la situazione..." (pag. 21-23 di sentenza), non potevanegarsi alla condotta del Dottor T. unitariamente finalizzata sia pure a fronteggiare una grave situazione di tossicodipendenza da eroine, quel "valore avvertito dalla prevalente coscienza collettiva" in che consiste anche il sottrarre vittime al tunnel della droga ed ai "venditori di morte", come, con ellittica e puntuale espressione, vengono definiti gli spacciatori di droga. E che tale valore abbia universale riconoscimento trova ulteriore riscontro in specifiche norme in materia, quale il comma settimo dell'art. 73 D.P.R. n. 309/1990 o nella norma di cui a quel successivo art. 81. Infatti, in considerazione di tali norme, è difficile non inquadrare nell'ambito delineato dall'art. 62 n. 1 c.p. la condotta "terapeutica di mero mantenimento", in quanto idonea a spezzare la dipendenza che legal'assuntore al circuito dello spaccio, sia pur temporaneamente (poichè la "qualità della vita", come ogni altro valore della vita stessa, ha una misura spiccatamente temporale).
La sentenza va dunque annullata anche in parte qua, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, diversa Sezione, per nuovo giudizio che dovrà attenersi agli enunciati principi che qui si sintetizzano: - la disciplina attuale in materia di sostanze stupefacenti somministrate per uso terapeutico non prevede procedure o protocolli legali, ma affida la diagnosi e la specifica articolazione terapeutica al singolo medico-libero professionista, con il solo limite dato dalle conoscenze scientifiche del momento;
- il giudice, allorchè è chiamato a valutare la condotta del medico, deve verificare tale condotta alla luce delle leggi scientifiche divulgate in letteratura, non potendo sostituire a talileggi proprie personali intuizioni disancorate dai risultati della ricerca scientifica; a meno che non si tratti di compiere tale valutazione per mezzo di massime di comune esperienza che, per la loro generalità, egli è chiamato a conoscere ed applicare, e ferma restando la libertà di convincimento che egli esercita alla stregua di qualunque altro giudizio di qualsivoglia altro settore della esperienza umana, dovendone dare conto in motivazione; - la valutazione della condotta del medico, quale che sia stato il percorso terapeutico seguito, non può prescindere da una precisa, ragionevole e necessariamente empirica valutazione causale, quando l'obiettivo terapeutico sia stato conseguito; la eventuale origine causale alternativa deve essere rigorosamente provata, e deve essere tale da escludere, senza ragionevole dubbio, che la guarigione sia ascrivibile alla cura praticata;
- la prescrizione di farmaci a base di sostanze stupefacenti, dettata al di fuori di un progetto terapeutico di contrasto alla tossicodipendenza, non può che trovare ragione in altre forme di intervento terapeutico note in esperienza scientifica (come la terapia del dolore); senza di che viola la disciplina di cui al D.P.R. n. 309/1990 sub specie criminis. Ma il relativo giudizio non può fondarsi automaticamente sulla esclusione della finalità terapeutica, nè sottrarsi, come per ogni altro delitto, alla ricerca puntuale dei suoi elementi costitutivi, e particolarmente del dolo. - riveste le connotazioni del particolare valore morale e sociale la condotta del medico, che sia pure al solo fine di una "terapia di mero mantenimento" abbia praticato una terapia a base di sostanze stupefacenti, qualora sia provato che, in mancanza di tale "impropria terapia", il paziente sarebbe stato indotto a far ricorso al circuito del narcotraffico, in tal modo o altrimenti, arrecando grave vulnus alla propria salute o alla propria condizione umana e sociale.
P.Q.M.
Letto l'art. 623 c.p.p.;
Annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano Così deciso in Roma, il 28 aprile 2004.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2004