06.10.03 free
CORTE dei CONTI - ( sulla responsabilita' della ostetrica, oltre a quella del medico ginecologo, nella attivita' di assistenza al parto)
Massima :
Nell’attività di assistenza al parto, oltre la responsabilità dei medici ginecologi, sussiste anche quella dell’ostetrica che, pur non potendo effettuare scelte di stretta competenza medica (quale quella di eseguire o meno l’intervento cesareo), si ingerisce nella effettuazione di una prestazione sanitaria che non solo è vietata dalle norme regolanti l’attività professionale di tale categoria, ma per la quale è espressamente previsto l’obbligo di richiedere l’intervento del medico.
Sentenza 27 settembre 2002 n. 676
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità promosso dal Procuratore Regionale per la Toscana nei confronti dei sig.ri: - M. A., rappresentato in giudizio e difeso dagli avv.ti Michele Mancini e Vittorio Fidolini; -Z. M., rappresentata in giudizio e difesa dagli avv.ti Giuliano Lastraioli e A. Fioravanti; - P. E., rappresentata in giudizio e difesa dagli avv.ti Emanuela Manini e Gaetano Viciconte; visto l’atto di citazione, iscritto al n. 50565/REL del registro di Segreteria, notificato in data 3 aprile 2001 alla sig.ra Z. e, in data 4 aprile 2001, al sig. M. e alla sig.ra P.; uditi, nella pubblica udienza del 13 giugno 2001 con l’assistenza del Segretario, dott. Paola Altini, il relatore Consigliere Pina M. A. La Cava, il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Acheropita Mondera Oranges e gli avv.ti. Michele Mancini, Vittorio Fidolini, Giuliano Lastraioli ed Emanuela Manini per i rispettivi convenuti; esaminati gli atti e i documenti di causa; ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
FATTO
Con l’atto di citazione in epigrafe, che trae origine da una iniziale denuncia effettuata (con nota n. 23880 del 14 luglio 1998) del Direttore Generale della ASL n. 11 di Empoli, il Procuratore Regionale per la Toscana, previo espletamento del prescritto invito a dedurre, ha citato i sig.ri M. A., Z. M. e P. E., personale sanitario, in qualità di medici ginecologi, i primi due, e ostetrica, la terza, dell’Ospedale di Empoli (ex USL n. 18), a comparire di fronte a questa Sezione Giurisdizionale per ivi sentirsi condannare al pagamento dell’importo complessivo di lire 1.212.516.527 (corrispondenti agli attuali 616.212,53 euro), o di quella diversa somma che dovesse risultare nel corso di causa, oltre gli interessi legali, e spese di giudizio, a titolo responsabilità amministrativa per danno causato all’erario della suddetta ASL n. 11 di Empoli (ex USL n. 18), in quanto condannata, con sentenza n. 3526 del 1996 del Tribunale di Firenze, al risarcimento dei danni subiti dal neonato N. N. al momento della nascita, avvenuta appunto presso il Presidio Ospedaliero di Empoli il giorno 30 agosto 1987.
Quanto più specificamente ai fatti di causa, i suddetti hanno prestato la loro assistenza sanitaria alla sig.ra D. T., che si era recata presso quell’ospedale a partorire il secondogenito N. N.. Più precisamente il dott. A. M., che all’epoca rivestiva il ruolo di aiuto con funzioni di primario, ha provveduto all’accettazione e all’assistenza durante la permanenza in corsia, mentre la dott.ssa M. Z. e l’ostetrica E. P., hanno invece prestato la loro opera professionale durante il travaglio e il parto, che si svolse per via vaginale, ma che, presentandosi con la complicanza della distocia, comportò la necessità di particolari manovre per disimpegnare la spalla del neonato (nato con un peso di Kg. 4,5) cui seguirono importanti lesioni traumatiche a carico del plesso brachiale sinistro (comportanti rilevanti postumi permanenti invalidanti della futura capacità lavorativa).
La Procura fonda la pretesa di condanna per responsabilità amministrativa dei convenuti - come inequivocabilmente si evincerebbe dalla relazione del c.t.u. del giudizio civile (il medico-legale dott. Pesci)- essenzialmente sulla negligenza e imperizia dei sanitari che prestarono assistenza al parto della sig.ra D., mettendo, in particolare, in evidenza: -che il personale sanitario avrebbe dovuto intervenire con il taglio addominale, che si rendeva necessario sia per le dimensioni del feto e sia per il fatto che il primogenito della partoriente aveva subito un trauma analogo alla clavicola per distocia da spalla; -che non si sarebbe tenuto conto, in proposito, della richiesta di parto cesareo che l’interessata, in ragione della precedente esperienza negativa, avrebbe avanzato; -che durante la fase del parto sarebbero state usate manovre talmente violente da cagionare il netto distacco dei nervi dell’arto superiore sinistro del neonato.
Parte attrice, inoltre, quanto alla determinazione del danno, precisa che dall’iniziale importo di lire 1.512.516.527, costituente il risarcimento dovuto ai sensi della citata sentenza civile, devono essere detratte lire 300.000.000, importo rimborsato dalla SAI Assicurazioni in data 9 luglio 1998 (e costituente l’intero massimale di polizza come riportato nell’atto di quietanza in atti), e che dell’importo residuo costituente il danno erariale sono stati attualmente versati lire 350.000.000. In proposito vi sarebbero in atti i relativi mandati di pagamento, nonché la delibera n. 30 del 20 ottobre 1997 con la quale il Commissario Liquidatore della ex USL 18 di Empoli ha provveduto all’aggiornamento in bilancio della situazione debitoria della Amministrazione sanitaria, per gli anni 1994 e precedenti alla data del 31 agosto 1997, tra le cui voci figurano anche gli importi relativi alle spese legali e agli interessi di cui alla sentenza civile del Tribunale di Firenze n. 3526 del 1996.
Conclusivamente la Procura, contraddicendo le prospettazioni difensive, ha chiesto la condanna di tutti e tre i convenuti, ma in misura prevalente del dott. M. e della dott.ssa Z., ai quali andrebbe addebitato il 90% del danno erariale di cui trattasi (quindi lire 1.091.264.876), in ragione del 50% ciascuno, pari a lire 545.632.438, e, in misura minore, della sig.ra P., alla quale andrebbe addebitato il restante 10 % del danno (pari a lire 121.251.652). Tutti i convenuti si sono costituiti in giudizio con le memorie difensive dei rispettivi difensori. Nell’atto difensivo del dott. A. M., rappresentato in giudizio dall’avv. Michele Mancini e Vittorio Fidolini:
1. . si eccepisce, preliminarmente, la mancata partecipazione nel giudizio civile conclusosi con la condanna dell’Amministrazione sanitaria, per cui la relativa sentenza, non essendo stata pronunciata nei confronti del suddetto sanitario, sarebbe priva di efficacia e non opponibile allo stesso; 2. . si eccepisce, altresì, la intervenuta prescrizione quinquennale atteso che i fatti di causa risalirebbero all’agosto del 1987 e il primo atto interruttivo (la costituzione in mora effettuata con lettera A.R. della ASL n. 11 di Empoli) è del 16 giugno 2000 (di cui è stata acquisita in atti la relativa copia); 3. . nel merito, in contrasto con l’assunto della Procura e con la perizia del c.t.u., ritenuta inutilizzabile e priva di efficacia vincolante, si richiamano le argomentazioni, esposte nella relazione in atti, del Primario della Divisione ostetrica, prof. Lamberto Noci, e quelle della perizia di parte prodotta in questa sede, del prof. Mauro Merchionni. In particolare si fa riferimento al fatto che il parto ebbe un andamento regolare, che la richiesta di taglio cesareo della partoriente è irrilevante di fronte al giudizio discrezionale del medico e, soprattutto, che il dott. M. non partecipò al parto e vide la sig.ra D. una sola volta in corsia e che, infine, non era reperibile; per cui nessuna responsabilità professionale potrebbe essergli addebitata, competendo ad altri sanitari le scelte del caso;
4. . peraltro, secondo la difesa in questione, nella fattispecie si configurerebbe una chiara ipotesi di “mala gestio” per la lentezza e i ritardi con cui sarebbe stato gestito il giudizio civile; ciò avrebbe, tra l’altro, fatto lievitare anche l’importo finale del risarcimento. Al riguardo si chiede, in via preliminare, che venga disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Presidente pro-tempore della ex USL n. 18 di Empoli, nella persona del sig. Marco Capecchi, e che venga dichiarata la responsabilità amministrativa di costui per mala gestio;
5. . si conclude, infine, per l’assoluzione del convenuto e, in via subordinata, per l’acquisizione, in via istruttoria, di ulteriore documentazione e di una relazione peritale d’ufficio ai fini dell’accertamento delle singole responsabilità e, nella denegata ipotesi contraria, per l’applicazione di una notevole riduzione dell’addebito in ragione di tutte le argomentazioni svolte e considerato, tra l’altro, che sarebbe stato pagato solo una parte dell’importo dovuto. Nell’atto difensivo della dott.ssa M. Z., rappresentata in giudizio dagli avv.ti Giuliano Lastraioli e A. Fioravanti:
1. . si eccepisce, parimenti al precedente atto, la mancata partecipazione nel giudizio civile e la inopponibilità della sentenza, nonché la intervenuta prescrizione quinquennale in riferimento al tempo del “fatto dannoso” che non può, secondo tale difesa, individuarsi nell’erogazione del risarcimento, ma solo nel “comportamento trasgressivo”. A parte la considerazione, sotto tale ultimo aspetto, che il danno erariale si sarebbe concretizzato già al momento della adozione della delibera USL n. 1932 del 5 dicembre 1989, relativa all’assunzione dell’onere di spesa per l’incarico difensivo nella causa civile in questione; 2. . anche per tale difesa si configura, nel caso di specie, un’ipotesi di “mala gestio” del contenzioso civile, con la conseguente necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti non solo del sig. Marco Capecchi, come Presidente pro tempore della ex USL n. 18 di Empoli, ma anche dei funzionari addetti al contenzioso in esame; 3. . si contesta, poi, la regolarità formale del parere tecnico d’ufficio del dott. Pesci, acquisito nel corso del giudizio civile (il quale rinvierebbe ad una perizia non giurata del dott. Messina) e si evidenzia, in particolare, il fatto che le manovre di disimpegno del feto furono effettuate dalla ostetrica senza l’intervento del medico; secondo la tesi difensiva la relazione del prof. Noci, responsabile della Divisione, nonché la perizia di parte della dott.ssa Mariarosaria Di Tommaso, prodotta in questa sede, scagionerebbero con dovizia di argomentazioni l’operato della convenuta;
4. . si conclude, infine, per l’assoluzione della dott.ssa Z. e, in via subordinata, per l’applicazione della massima riduzione dell’addebito, anche in considerazione del fatto che non sarebbe intervenuto il pagamento dell’intero addebito.
Nell’atto difensivo dell’ostetrica E. P., rappresentata in giudizio dagli avv.ti Emanuela Manini e Gaetano Viciconte, viene effettuata una diffusa esposizione dei fatti di causa che contrasta con quanto sostenuto dalla convenuta Z., e secondo la quale, in sostanza, sarebbe stato tale sanitario ad assistere in prima persona la partoriente, mentre l’ostetrica avrebbe solo assistito e coadiuvato il medico, dal quale, peraltro, avrebbe ricevuto le disposizioni tecniche del caso. La sig.ra P., perciò, si sarebbe comportata in conformità alle norme regolamentari di cui al D.P.R. n. 163/1975, relative all’esercizio della professione di ostetrica, secondo cui l’ostetrica che assiste al parto deve, tra l’altro, richiedere l’intervento del medico “… ogni qualvolta rilevi fattori di rischio per la madre e il feto… ovvero quando accerti distocie…” (art. 4), e a quelle corrispondenti del D.M. del 15 settembre 1975, come emergerebbe dal fatto che fu la dott.ssa Z. a compilare la cartella clinica nella parte relativa alla storia clinica del parto. Si sostiene, poi, che detto sanitario non disconosceva la situazione di difficoltà e di pericolo della partoriente, atteso che la assistette nei due giorni precedenti il parto e dispose la somministrazione di farmaci specifici al caso della patologia verificatasi. Tale tesi sarebbe confermata anche dalla perizia di parte prodotta, del prof. Giancarlo Maltoni, il quale sostiene che l’ostetrica in quella situazione avrebbe potuto coadiuvare il sanitario solo con manovre manuali. La difesa richiama, tra l’altro, la giurisprudenza di questa Corte e della Corte di Cassazione sulla funzione solo ausiliaria dell’ostetrica in situazione di patologia del parto e conclude con la richiesta di non addebitabilità di alcuna responsabilità della sua assistita.
Nell’odierna pubblica udienza il Sostituto Procuratore Generale, dopo aver preliminarmente rilevato come negli atti difensivi dei convenuti vi sia un reciproco addebito di responsabilità con argomentazioni che non hanno un riscontro concreto, ha ribadito le argomentazioni su cui si fonda la chiamata in giudizio di tutti i convenuti ed ha sostenuto, inoltre, l’infondatezza della eccezione di prescrizione (sulla base della rilevanza, come fatto dannoso, della sentenza civile del 1996 di condanna del presidio sanitario al risarcimento) e della eccezione relativa alla inopponibilità della sentenza civile (attesa la autonomia del giudizio contabile da quello civile, sulla base della pacifica giurisprudenza della Corte). Ha, pertanto, concluso confermando la richiesta di condanna di tutti i convenuti nei termini di cui all’atto di citazione. I difensori del dott. M., intervenuti entrambi nella discussione orale, hanno, viceversa, ribadito le eccezioni e le argomentazioni, sia di rito che di merito, che stanno alla base della richiesta di assoluzione del loro assistito, già ampiamente esposte nell’atto difensivo, con particolare riferimento al fatto che il danno è derivato dalla difesa irragionevole dell’amministrazione della USL nel giudizio civile, del quale i convenuti non avevano nemmeno conoscenza e che si fonderebbe, peraltro, su una perizia redatta in assenza di contraddittorio. Hanno, poi, sottolineato alcuni elementi ritenuti determinanti, quale la riconosciuta, in dottrina scientifica, imprevedibilità della macrosomia e della distocia, l’assenza nel reparto di un ecografo e la conseguente impossibilità di una diagnosi precoce, nonché la circostanza, sulla quale non vi sarebbe contestazione, secondo cui il dott. M. non era presente alla fase del travaglio, perché non in servizio, per cui non può essere addebitata allo stesso la mancata determinazione nella scelta medica del parto cesareo, la qualcosa interromperebbe ogni nesso di causalità.
Parimenti l’avv. Manini, intervenuto per la sig.ra P., ha insistito sulle argomentazioni di cui agli atti difensivi prodotti, ivi compresa la perizia di parte, e, in particolare, ha sottolineato ulteriormente l’attività solo di ausilio prestata dalla sua assistita nell’ambito delle proprie mansioni. Ha contestato, poi, la tesi attorea per contraddittorietà nel senso che, se nel caso di specie si afferma la sindacatorietà del comportamento dei sanitari, non si può, poi, prospettare pari responsabilità anche del personale subordinato che non ha partecipato alle scelte mediche adottate dai primi. L’avv. Lastraioli, infine, intervenuto per la dott.ssa Z., richiama parimenti gli atti prodotti e, insistendo per una nuova perizia, sottolinea in particolare l’inattendibilità della relazione del prof. Noci, non presente all’epoca dei fatti, in quanto non prodotta in sede civile. Contesta, poi, alcuni elementi in fatto, sostenendo al riguardo che il precedente parto della sig.ra D. non era stato distocico e che nel parto in questione, nel momento in cui la suddetta affidò il disimpegno del feto all’ostetrica, la distocia non si era ancora presentata e che, comunque, non prese parte alla manovra.
DIRITTO
La fattispecie all’esame di questa Sezione attiene alla richiesta di condanna per danno erariale relativo al pregiudizio economico subito dalla ASL n. 11 di Empoli (ex USL n. 18), in quanto condannata, con sentenza n. 3526 del 1996 del Tribunale di Firenze, al risarcimento dei danni subiti dal neonato N. N. al momento della nascita, avvenuta presso il Presidio Ospedaliero di Empoli il giorno 30 agosto 1987. Prima di entrare nel merito della vicenda, deve questo giudice esaminare, preliminarmente, le eccezioni sollevate dalle difese come riportato in narrativa. Quanto alla richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti del Presidente pro-tempore della ex USL n. 18 di Empoli, nella persona del sig. Marco Capecchi e di dichiarazione di responsabilità amministrativa di costui per mala gestio, avanzata dalla difesa M. e della analoga richiesta della difesa Z., riferita anche ai funzionari addetti alla trattazione del contenzioso in esame, il Collegio ritiene che debba essere respinta in quanto, come correttamente rappresentato dalla Procura, non può configurarsi responsabilità a carico di nessuno dei predetti soggetti per mancanza di nesso causale tra la funzione di rappresentanza in giudizio, per il primo, e l’esercizio della attività d’ufficio svolta dai secondi, non potendosi individuare in tali funzione e attività l’origine dell’azione risarcitoria che ha portato alla condanna dell’Ente al pagamento in sede civile e che costituisce, oggi, il danno erariale di cui si discute in questa sede giudiziaria. Né, peraltro, tali funzioni e attività possono aver avuto alcuna incidenza sulla determinazione del quantum del danno risarcito, la cui determinazione in sede civile è stata operata e rapportata a parametri tecnici che prescindono dalla gestione processuale di parte.
Anche l’eccezione di prescrizione si appalesa infondata e deve essere respinta in quanto, per la prevalente giurisprudenza di questa Corte, dalla quale il Collegio non ritiene di discostarsi, il dies a quo della prescrizione non può che decorrere dalla data in cui diviene certa, oltre che quantitativamente identificabile, la diminuzione patrimoniale per l’Amministrazione: nel caso concreto, cioè, non vi è una coincidenza cronologica tra il comportamento dell’agente e il “fatto dannoso” richiesto dalla legge, in quanto il requisito della certezza del danno (in base al quale l’azione di responsabilità può essere legittimamente proposta) si realizza non prima della sentenza di condanna in sede civile, perché solo da tale momento sorge l’obbligo per l’amministrazione di pagare (Sez. I giur. n. 233 del 15 maggio 1990, n. 333 del 15 novembre 1991 e n. 62 del 30 aprile 1993 - Sez. II giur. n. 79 del 2 aprile 1993 - Sez. giur. Puglia n. 85 del 20 giugno 1995 - Sez. giur. Lazio n. 12 del 16 novembre 1994 e n. 2 del 6 febbraio 1995). Per cui, pur essendo la vicenda risalente all’agosto del 1987, la sentenza civile di condanna della USL in questione al risarcimento del danno a favore dei genitori di N. N., è del 2 dicembre 1996, a fronte della costituzione in mora del convenuti da parte della Azienda ASL 11 Empoli che risulta notificata (come da relativa relata in atti) il 20 giugno 2000, nonché della notifica dello stesso atto di citazione intervenuta nell’aprile 2002, quindi sempre entro il termine quinquennale previsto.
Riguardo, inoltre, a quanto eccepito dalla difesa del dott. M. e da quella della dott.ssa Z., circa la mancata partecipazione dei convenuti al giudizio civile e, conseguentemente, al fatto che la P.R. fonderebbe il proprio assunto essenzialmente sulla sentenza di condanna dell’Ente e sull’assunzione di responsabilità che da essa deriverebbe, il Collegio ritiene, intanto, che tali aspetti attengano all’esercizio di uno ius postulandi, legittimo in altra sede (in occasione del giudizio civile), ma senza alcuna rilevanza in questa sede giudiziaria.
L’eccezione è, infatti, infondata perché altri contenziosi o procedimenti, o anche la loro eventuale conclusione transattiva, non sono che presupposti di fatto, assumono cioè solo valore indicativo del danno eventualmente addebitabile al convenuto e, comunque, di essi non si esaminano i relativi profili giuridici o i rapporti obbligatori che ne scaturiscono; per cui nessun pregiudizio, ai fini che qui interessano, deriva dalla mancata partecipazione del convenuto ai predetti giudizi o accordi, potendo lo stesso proporre tutte le eccezioni e le argomentazioni difensive in sede di giudizio di responsabilità (Sez. giur. Campania n. 6 del 1° marzo 1993).
La contestazione mossa, peraltro, appare in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, ai fini dell’affermazione di responsabilità, non necessitano postulazioni di parte ma “dati di fatto”. Il Giudice contabile, infatti, al pari di ogni altro organo giudicante, non è vincolato alla qualificazione, giuridica o del fatto, data alla vicenda dalle parti, o dal procedimento e dagli esiti di altri giudizi, ma nella sua autonomia, nella conoscenza delle leggi e nella cognizione dei fatti, quale emerge dalla documentazione in atti e dalla valutazione delle prove che in concreto le parti stesse hanno prodotto, può anche discostarsene, appartenendo la decisione di riconoscimento di responsabilità solo al libero convincimento del Collegio giudicante (Sez. I giur. n. 163 dell’11 luglio 1963 e n. 34 del 27 aprile 1972 - Sez. giur. Sicilia n. 57 del 7 agosto 1991). Peraltro, sulla diversità e sulla autonomia del giudizio contabile da quello civile la giurisprudenza di questa Corte - ricordata anche dal P.M. - è copiosa e conforme (Sez. giur. Lombardia n. 34/R del 19 aprile 1994 – Sez. giur. Veneto n. 36/E.L. del 22 gennaio 1997 – Sez. II n. 100 del 23 settembre 1996 - Sez. III n. 25 del 3 febbraio 1998 - Sez. giur. Toscana n. 1269/2000 del 18 luglio 2000).
Occorre ancora premettere che non si ravvisano elementi meritevoli di ulteriore approfondimento per procedere alla integrazione istruttoria prospettata dalla difesa dei medici convenuti (alla quale, peraltro, il P.M., nella discussione orale, si è opposto). Secondo questo Giudice, infatti, gli elementi documentali e probatori, acquisiti al fascicolo processuale, si appalesano, anche sotto l’aspetto del necessario ausilio tecnico peritale, non solo sufficienti, ma adeguatamente chiarificatori della vicenda e del comportamento di ciascuno dei convenuti, ai fini del decidere anche sull’eventuale apporto causativo di ciascuno nella determinazione del danno.
Passando al merito, la tesi accusatoria si fonda, in sostanza, per quanto attiene alla posizione del dott. M. e della dott.ssa Z., sulla estrema negligenza e ingiustificata mancanza della doverosa attenzione e perizia professionale di entrambi nel prestare la assistenza sanitaria alla partoriente, che comportava effettivamente il possesso di una particolare specializzazione, ma che doveva rientrare, comunque, nel rispettivo bagaglio di conoscenza, preparazione e qualificazione professionale, in quanto medici specialisti preposti alla struttura ospedaliera di cui si avvalsa la sig.ra D. per il parto; il che, per la P.R., integra ancora più marcatamente (e in pari misura) gli estremi di un comportamento gravemente colposo degli stessi. Per quanto attiene, poi, alla posizione dell’ostetrica P., parimenti ritenuta responsabile nella prospettazione di parte attrice, seppure con un apporto causativo del danno decisamente inferiore, la stessa, contravvenendo a precise norme che disciplinano le mansioni e il comportamento della qualifica rivestita, avrebbe effettuato un intervento e una prestazione sanitaria che non le competeva, in quanto da riservare esclusivamente al sanitario, peraltro presente.
Tanto premesso, il Collegio condivide pienamente l’assunto accusatorio in quanto trova fondamento nell’esame dei fatti e della documentazione in atti, nonché nel conseguente giudizio, sul comportamento tenuto dai suddetti nell’effettuazione della rispettiva prestazione sanitaria, quale emerge dal raffronto tra quello in concreto tenuto e i parametri di una normale diligenza e perizia professionale, necessarie al fine di impedire ragionevolmente ogni conseguenza lesiva, poi verificatasi. Occorre al riguardo evidenziare che, nel caso di specie, non rileva se, su un piano puramente tecnico e generale, fosse prevedibile la macrosomia fetale o la distocia (il che in linea teorica, come si afferma in quasi tutte le perizie in atti, è quantomeno difficile non esistendo al riguardo precise tecniche di rilevamento), né se sia stata o meno effettuata correttamente, nella fase espulsiva del parto (e perciò ritenuta inevitabile), la speciale manovra per disimpegnare la spalla del feto; in realtà si deve accertare se i sanitari che hanno prestato la assistenza e le prestazioni professionali alla partoriente, fin dal momento del ricovero presso l’Ospedale di Empoli, abbiano operato con il dovuto impegno e la perizia professionale propria della funzione medica svolta: rispettivamente, il dott. M., all’epoca facente funzioni di primario, quale responsabile della accettazione e della corsia, e la dott.ssa Z., quale responsabile durante le fasi del travaglio e del parto.
Sul punto, occorre porre l’attenzione - prescindendo dalle diverse e a volte apodittiche e contrastanti argomentazioni delle difese e delle perizie prodotte in atti- su alcuni inconfutabili fatti che emergono dagli atti (segnatamente, dalla cartella clinica del ricovero e del parto in questione, nonché dalla ricostruzione della vicenda, operata dal prof. Noci, nella relativa relazione medica, anche sulla base delle dichiarazioni degli stessi convenuti) che portano a valutare come un attento e responsabile esame dell’insieme dei dati clinici ed anamnestici a disposizione avrebbe dovuto indurre i sanitari ad una più adeguata prestazione medica (nel senso, peraltro, segnalato dalla perizia tecnica del prof. Pesci), connotata, cioè, come deve essere di norma nello svolgimento di una attività professionale (e ancora di più nel settore sanitario), da massimo impegno e perizia professionale. Non è dato, invece, riscontrare, ciò nel concreto, nonostante, come di seguito riportato, emergessero precise indicazioni per eseguire preventivamente il taglio cesareo. Al ricovero provvide, infatti, in data 28 agosto 1987 alle ore 9.30, con diagnosi di “Travaglio di parto”, il dott. M. che registrò, tra i dati della accettazione, “Liquido amniotico scarso”, quale esito della praticata amnioscopia, e, in anamnesi, che vi era stato un primo parto di una bambina di Kg. 4, sul quale è verosimile che l’interessata abbia fornito tutti gli elementi necessari, ivi compresa la circostanza che quel parto era avvenuto con l’applicazione della ventosa ostetrica, e che abbia manifestato l’addotta richiesta di essere sottoposta ad intervento cesareo (su tale precedente, comunque, il medico avrebbe dovuto accertare più approfonditamente la storia clinica). Da quanto annotato, infine, nella storia della gravidanza in corso –aspetto di non poco rilievo per il suddetto medico ai fini del decidere le scelte sanitarie più adeguate- emergeva anche che la gestante era alla 41^ settimana + 6 giorni di gravidanza e che la data presunta del parto era prevista per il 17 agosto 1987, data che all’epoca del ricovero era già trascorsa da ben 11 giorni (non pochi trattandosi di una secondipara).
L’insieme dei suddetti indicativi dati sullo stato della gravidanza, perciò, avrebbe richiesto maggiore perizia professionale nella diagnosi e doverosi accertamenti clinici e di prevenzione terapeutica, nonché una attenta valutazione sulle scelte sanitarie, anche nell’ottica di un possibile intervento cesareo. Risulta, invece, che il sanitario dispose il solo ricovero in corsia e che furono eseguiti esami di routine solo il giorno successivo al ricovero. La ovvia conoscenza degli stessi dati, nonché dell’andamento del travaglio, come riportati nella cartella clinica, connotano di grave imperizia e trascuratezza professionale anche la prestazione sanitaria della dott.ssa Z. che assistette la partoriente nella fase del travaglio e del parto. Alla stessa, come ulteriore aggravante, va addebitata la responsabilità di aver disposto (secondo quanto riferito dallo stesso medico e riportato nella relazione del prof. Noci) o di aver, comunque, consentito (il che è ininfluente ai fini della assunzione della relativa responsabilità) che personale non medico (nella specie l’ostetrica P.) effettuasse la speciale e difficile manovra per il disimpegno della spalla del feto, una volta presentatasi in sede di parto; manovra che la legge riserva espressamente al medico in quanto, pur nella innegabile rarità del manifestarsi di tale evento (come le perizie in atti conformante affermano), solo costui ha la necessaria competenza tecnica e scientifica per impedire o limitare la eventualità delle complicanze.
Quanto, infine, alla ostetrica convenuta, alla quale certamente non competeva la scelta medica di eseguire o meno l’intervento cesareo, alla stessa va peraltro addebitata “l’ingerenza” nella effettuazione di una prestazione sanitaria (nella specie la manovra di trazione per il disimpegno della spalla del feto), che non solo è vietata dalle norme di settore, ma per la quale è espressamente previsto l’obbligo di richiedere l’intervento del medico ove non presente. In narrativa, infatti, è stata ricordata la speciale disposizione (art. 4) del regolamento di esercizio della relativa professione di cui al D.P.R. n. 163/1975, secondo cui “…l’ostetrica che assiste al parto deve richiedere l’intervento del medico ogni qualvolta rilevi fattori di rischio per la madre e il feto…ovvero quando accerti distocie…”. Peraltro, la stesso art. 4, all’ultimo comma, espressamente vieta “…all’ostetrica di praticare interventi manuali o strumentali, fatta eccezione per quelli consentiti dalle istruzioni tecniche sull’esercizio professionale…”, emanate dal Ministero della sanità, tra le quali certamente non figura quella in esame. Accertato quanto sopra, risulta con ragionevole chiarezza la sussistenza della lesione riportata dal bambino e la riferibilità di questa alla condotta dei convenuti che hanno prestato l’assistenza sanitaria presso l’Ospedale di Empoli, per cui, contrariamente a quanto sostenuto dalle rispettive difese, è di tutta evidenza, secondo questo giudice, il nesso di causalità esistente tra il comportamento dei suddetti convenuti e il danno che ne è derivato, essendo il primo il presupposto fattuale, logico e giuridico del pagamento del risarcimento del danno ai coniugi N..
Per addivenire ad un addebito di responsabilità, poi, resta da valutare ancora, quanto all’accertamento sull’esistenza anche dell’elemento soggettivo, se la fattispecie integri gli estremi della colpa grave, come prescritto dalle modifiche, introdotte, in materia di responsabilità di soggetti convenuti davanti al giudice contabile (da ultimo, decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito in legge 20 dicembre 1996, n. 639, a modifica dell'art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994). Ciò in quanto, pur trattandosi di fatti risalenti ad epoca precedente alla entrata in vigore di detta normativa d’urgenza, si tratta di norma applicabile anche ai giudizi in corso, per espressa previsione del legislatore che ha voluto realizzare, in tal modo, l’intento di estendere la limitazione di responsabilità, in precedenza prevista per alcuni soggetti addetti a particolari attività, a tutti i casi sottoposti alla cognizione di questa Corte. Riguardo al predetto elemento soggettivo della colpa grave, ritiene il Collegio che nell’attività professionale, quale quella di cui si discute, non diversamente da qualsiasi altra attività, è possibile discriminare, nell’ambito delle condotte antidoverose, quelle che manifestano un’inescusabile “negligenza” o “imperizia” e una “particolare superficialità” e, cioè, quei comportamenti non improntati a quel grado minimo di “doverosa attenzione, impegno e ponderazione” a cui tutti i soggetti che svolgono mansioni di interesse collettivo e pubblico (e a maggior ragione in materia di sanità pubblica) dovrebbero riferirsi, e quelle azioni o prestazioni prive delle “doverose cognizioni e capacità”, che ogni soggetto, nel ramo di attività cui è addetto, è tenuto ad avere per evitare il verificarsi di danni ingiusti (SS.RR. n. 313 del 14 settembre 1982 - Sez. giur. Sicilia n. 1359 del 20 ottobre 1983 - Sez. II giur. n. 189 del 17 settembre 1984).
C’è del resto da considerare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini della determinazione del grado della colpa, deve il giudice, nell’esame dei fatti, tener conto di tutte le circostanze e gli elementi della fattispecie nella quale si è verificato l’evento lesivo e, quindi, dannoso, onde stabilire il quantum di divergenza nella specie esistente tra la condotta teoricamente doverosa o corretta e quella in concreto tenuta. Ciò detto, si ritiene che, nel caso di specie, debba riconoscersi connotazione di gravità alla condotta posta in essere da tutti i convenuti che, per la negligenza, la trascuratezza e l’imperizia medica profusa, hanno determinato il ricorso alla speciale manovra del parto, resasi ormai indispensabile, e, quindi, le lesioni che ne sono seguite. Tale convincimento trova conforto nella perizia tecnica d’ufficio del prof. Pesce redatta in tal senso e acquisita nel corso del giudizio civile e, soprattutto, come già evidenziato, trova conferma nei dati documentali della vicenda. Le contrarie considerazioni peritali di parte, non si ritengono pertanto condivisibili, in quanto, pur se teoricamente esatte, non si appalesano compatibili con i dati di fatto del caso concreto.
Nessun dubbio, infine, può sorgere circa l’esistenza e il quantum del danno erariale come determinato dalla Procura Regionale negli attuali euro 616.212,53, corrispondenti alle precedenti lire 1.212.516.527, in quanto dall’iniziale importo di lire 1.512.516.527, costituente il risarcimento dovuto ai sensi della sentenza civile, è stata detratta la somma rimborsata, corrispondente all’intero massimale (ex 300.000.000 di lire) della polizza assicurativa. La suddetta somma - come riportato in fatto- trova raffronto nei relativi mandati di pagamento, nonché nella delibera n. 30 del 20 ottobre 1997 con la quale il Commissario Liquidatore della ex USL 18 di Empoli ha provveduto all’aggiornamento in bilancio della situazione debitoria della Amministrazione sanitaria, per gli anni 1994 e precedenti alla data del 31 agosto 1997, tra le cui voci figurano anche gli importi relativi alle spese legali e agli interessi di cui alla sentenza civile del Tribunale di Firenze n. 3526 del 1996.
Giova in questa sede, comunque, evidenziare che in riferimento al suddetto complessivo importo, per il quale erano stati inizialmente versati lire 350.000.000, nelle more del presente giudizio, sono intervenuti i restanti pagamenti, sia del residuo capitale e spese legali di condanna, che degli interessi (con mandati nn. 7 e 8 del 6 luglio 2001). Ciò è stato formalmente comunicato, alla Procura Regionale, dalla ASL n. 11 di Empoli con nota n. 25775 del 19 luglio 2001, acquisita al fascicolo processuale. Conclusivamente, pertanto, il descritto comportamento dei convenuti, improntato ad una marcata negligenza, trascuratezza e imperizia medica, nonché in violazione della normativa regolamentare della professione di ostetrica, configura per questa Sezione, in adesione alla domanda attrice, condotta gravemente colposa dei convenuti, ai quali, pertanto, va addebitato, a titolo responsabilità amministrativa, il danno degli attuali complessivi 616.212,53 euro (corrispondenti alle precedenti lire 1.212.516.527), subito dalla ASL n. 11 di Empoli in conseguenza della condanna intervenuta in sede civile al risarcimento del danno subito dal feto nella vicenda in questione.
Questa Sezione, inoltre, ritiene che emergono dagli atti, così come evidenziati nella presente sentenza, significativi elementi per individuare il maggiore apporto causale, nella determinazione del danno, dei medici in questione rispetto a quello dell’ostetrica, secondo la richiesta (seppure in diversa percentuale) dalla Procura. Più precisamente, va individuato nella misura del 30% del suddetto importo, l’apporto causale del dott. M. A., e nella misura del 55% dello stesso complessivo danno, quello della dott.ssa Z. M.. Il restante 15% va, quindi, addebitato alla ostetrica P. E., con l’applicazione, per quest’ultima, del potere riduttivo, di cui all’art. 52 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, nella misura della metà di quanto dovuto. Il Collegio ritiene, al riguardo, che nei confronti dell’ostetrica, diversamente che per i medici, per i quali non è stato ravvisato nessun significativo e rilevante elemento per addivenire anche nei loro confronti alla richiesta riduzione dell’addebito, rilevano alcune circostanze che consentono di esercitare il potere in questione. E’ ragionevole, infatti, ritenere che l’ostetrica, in quella circostanza di particolare gravità, pur contravvenendo ai precisi obblighi del suo ruolo ed esorbitando la sfera professionale di competenza, abbia inteso sopperire alla necessità e all’urgenza del caso e, per spirito di estrema collaborazione, si sia assunta una responsabilità che spettava al medico presente. E’ presumibile, poi, la difficoltà della stessa di dover rifiutare l’esecuzione di una disposizione del medico, nei confronti del quale il personale non medico si trova ad assumere, a volte, un atteggiamento di subordinazione gerarchica o una sorta di timore reverenziale, che gli impedisce di opporre un rifiuto, anche se legittimo, come sarebbe stato nel caso di specie.
Premesso quanto sopra, il conseguente obbligo di pagamento a favore della ASL n. 11 di Empoli è posto a carico di ciascuno dei convenuti nella misura delle percentuali dianzi indicate. In pieno accoglimento, poi, della richiesta della Procura, sui predetti importi dovranno essere corrisposti, da ciascuno dei convenuti per la parte addebitata, gli interessi legali dalla data di effettivo depauperamento dell’erario dell’ente all’effettivo pagamento. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento delle spese di giudizio che, parimenti, dovranno essere ripartite tra i convenuti nelle stesse percentuali di addebito del danno.
P.Q.M.
la Corte dei conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, definitivamente pronunciando, CONDANNA
i sig.ri M. A., Z. M. e P. E., per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui all’atto di citazione in epigrafe, al pagamento, in favore della ASL n. 11 di Empoli, della somma complessiva di euro 616.212,53 (corrispondenti alle precedenti lire 1.212.516.527), nella misura del 30% del suddetto importo, il sig. M., del 55%, la sig.ra Z. e del 15%, la sig.ra P., con l’applicazione, per quest’ultima, del potere riduttivo nella misura della metà di quanto dovuto.
Ciascuno dei suddetti convenuti è, altresì, condannato al pagamento, su quanto rispettivamente dovuto, degli interessi legali dalla data di effettivo depauperamento dell’erario dell’ente all’effettivo pagamento e alle spese di giudizio, omissis