24.05.2010 free
Omicidio colposo - Falso in atto pubblico - Regolare compilazione della cartella clinica - Responsabilità del direttore unità operativa - Tempestività delle annotazioni.
Cassazione Penale - Sezione V, Sent. n. 13989 del 23.03.2004
omissis
Svolgimento del processo
Con sentenza 15 novembre 2000 il Tribunale di Roma dichiarava C.F. responsabile dei reati di cui agli artt. 43, 589 c.p. (per avere nella sua qualità di primario dell'ospedale G.B. G. di Ostia, per colpa determinata da negligenza imprudenza ed imperizia consistita specificatamente nel somministrare a M.L. quantità eccessiva di ossitocina (farmaco controindicato nelle pazienti già sottoposte a taglio cesareo come la predetta), cagionato la morte del feto di B.E.; capo A) e di cui agli artt. 81, 476, 489, 61 c.p., n. 2 (per avere nella citata qualifica, con più azioni ed al fine di conseguire l'impunità dal delitto di cui al capo precedente, distrutto alcune pagine della cartella clinica relativa al suddetto evento, redigendone in sostituzione una ideologicamente falsa nella quale ometteva di indicare le prescrizioni da lui date circa la somministrazione di ossitocina; capo B); fatti del 22 settembre 1994. Con le attenuanti generiche, condannava il medesimo alla pena della reclusione di mesi 6 per il reato di cui al capo A e di un anno per quello di cui al capo B nonché al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili, coniugi B. - M. e Movimento Democratico Federativo Tribunale Diritti del Malato. Con pronuncia 27 luglio 2002 la Corte di Appello dichiarava non doversi procedere per l'imputazione sub A per essere il reato estinto per prescrizione e, concesse le attenuanti generiche prevalenti per il falso, riduceva la pena inflitta per tale reato a mesi 9 di reclusione; confermava nel resto l'impugnata decisione. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il C. nei termini infradescritti.
1 - Violazione di legge in ordine alla pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato sub A.
2 - Violazione artt. 43, 589 c.p.
3 - Violazione degli artt. 476, 490 c.p.
4 - Violazione art. 521 c.p.p., art. 522 c.p.p.
5 - Mancanza di motivazione su rilievi difensivi in ordine ai punti precedenti.
6 - Nullità delle ordinanze ammissive della costituzione delle parti civili; incompetenza per materia del Tribunale in composizione collegiale.
7 - Vizio di motivazione in punto pena.
Motivi della decisione
Procedendo in ordine logico e precisato che il quinto motivo verrà esaminato unitamente a quelli precedenti ai quali si ricollega, la Corte osserva.
Innanzitutto si evidenzia l'infondatezza dell'eccezione di incompetenza perché, l'accertamento relativo alla costituzione delle parti di cui all'art. 484 c.p.p. ebbe luogo all'udienza del 15 dicembre 1999 tant'è che a detta udienza fu dichiarata la contumacia dell'imputato: in base al regime transitorio previsto dall'art. 219 D.Lgs. n. 51 del 1998 il giudizio doveva dunque proseguire con l'applicazione delle norme anteriormente vigenti. Precipuamente va segnalato che, secondo il dettato di tale disposizione transitoria, la condizione per "l'applicazione delle disposizioni anteriormente vigenti, comprese quelle relative alla competenza e alla composizione dei collegi" ai giudizi di primo grado in corso, è rappresentata dall'avvenuto "controllo sulla regolare costituzione delle parti a norma dell'art. 484 del codice di procedura penale": controllo che si distingue concettualmente e temporalmente dalla trattazione delle questioni preliminari di cui all'art. 491 c.p.p., le quali presuppongono lo stesso, come si evince chiaramente dal comma 1 di quest'ultimo articolo. A quanto esposto consegue l'irrilevanza del fatto che all'udienza sopra richiamata sia stato disposto un rinvio per trattare le questioni concernenti la costituzione delle parti civili, trattazione che appunto implicava l'esaurimento della fase relativa al primo accertamento.
Pregiudiziale è poi l'esame del quarto motivo con cui si assume, con riferimento all'imputazione sub A, che sarebbe stato violato il principio di correlazione tra sentenza ed accusa in quanto, a fronte di addebitata condotta attiva nella scelta della terapia, la responsabilità era stata affermata in relazione a condotta omissiva degli obblighi che competono al primario. La denuncia va disattesa.
La condotta ascritta al C. fu di avere cagionato la morte del feto per colpa "consistita specificatamente nel somministrare a M.L. una quantità eccessiva di ossitocina (farmaco controindicato nelle pazienti, come nel caso in esame, già in precedenza sottoposte a taglio cesareo per altre gravidanze)"; orbene, il Tribunale e poi la Corte di Appello hanno ravvisato la colpa nell'avere somministrato una dose di tale sostanza che, seppure non controindicata in modo assoluto, in effetti ebbe a rivelarsi eccessiva, senza seguire o disporre che fosse seguito l'evolversi della terapia prescritta e cioè senza adeguatamente controllare o fare controllare le contrazioni provocate alla partoriente dal farmaco, in modo da tempestivamente intervenire con altra terapia e se del caso con taglio cesareo.
Nella descritta situazione è evidente che il nucleo del fatto ascritto e ritenuto è rimasto identico: l'avere somministrato l'ossitocina, essendosi semplicemente specificato che la colpa era consistita altresì nell'omissione di cautele, essendo peraltro il richiamo a queste ultime ed alla necessità delle stesse implicito nel capo di imputazione là ove si evidenziava che la paziente era già stata sottoposta a taglio cesareo, circostanza che rendeva rischiosa la somministrazione de qua. L'imputato non è stato dunque condannato per un fatto diverso, né la responsabilità è stata affermata ex art. 40 c.p. per inosservanza di obblighi di sorveglianza e garanzia, che competono al primario sull'operato del personale medico ed infermieristico del reparto, ma per colpa consistente in imprudenza e difetto di diligenza, pure menzionate nell'imputazione e strettamente connesse alla condotta attiva da lui stesso prescelta ed oggetto della contestazione.
In base a quanto esposto non può dubitarsi che il C. abbia avuto modo di difendersi in relazione al fatto ritenuto, essendo egli, quale medico specializzato, certamente in condizione di comprendere le implicazioni di cui all'addebito formulato a suo carico.
Certamente il discrimine tra condotta attiva colposa e condotta omissiva è sottile in quanto nella colpa è sempre insito un momento omissivo; comunque, nel presente caso, anche la qualifica di primario era stata contestata ed essa ha rilevato solo nel senso che il C., siccome tale, ben avrebbe potuto dare ad altri soggetti qualificati, idonei al compito (medici come si vedrà), le specifiche disposizioni di cautela imposte dalla sua azione, qualora non avesse inteso o potuto svolgerle personalmente: pertanto, anche se si volesse riportare la di lui responsabilità alla violazione di un obbligo di garanzia, si tratterebbe sempre di un obbligo imperniato sulla sua pregressa condotta e si verterebbe in ipotesi di modifica della qualifica del fatto addebitato (modifica sempre consentita al giudice), ma non quest'ultimo.
Infine è indifferente che la Corte territoriale non abbia motivato sulla denuncia di cui al presente motivo. Basti osservare che in tema di questioni processuali e di principi di diritto ciò che rileva è esclusivamente la correttezza o meno della soluzione adottata, prescindendosi dalla motivazione ad essa relativa: il rigetto implicito della eccezione sollevata ex art. 521 c.p.p., in quanto legittimo non postulava alcuna giustificazione argomentativa.
Infondati sono pure il primo ed il secondo motivo, con cui si deduce che gli obblighi conseguenti alla somministrazione dell'ossitocina non spettavano al primario, ma al personale medico ed ostetrico di guardia e che il prevenuto non poteva prevedere la commissione di illeciti da parte di siffatto personale.
In realtà, come emerge dal provvedimento impugnato e dalla sentenza di primo grado (essendo le stesse destinate ad integrarsi), il C. scelse la terapia in questione in contrasto con quanto proposto dal medico che per primo visitò la M. (il quale aveva prospettato l'opportunità di procedere al cesareo) ed anzi in contrasto con la prassi precedentemente adottata nel reparto a fronte di casi del genere: gli incombeva pertanto il dovere di adottare le precauzioni rese indispensabili da tale scelta e cioè l'assidua sorveglianza - da parte di personale medico, per la delicatezza del caso - del tracciato del monitoraggio e comunque l'approntamento del cesareo. Poiché i giudici di merito hanno accertato che non furono date sul punto specifiche disposizioni, l'affermazione di responsabilità si palesa del tutto consequenziale all'individuato contesto e diviene inconferente il richiamo del ricorrente alla sua impossibilità di prevedere che la paziente sarebbe stata abbandonata e priva di assistenza medica.
Infine è infondato il rilievo di mancata verifica in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra l'omissione "de qua" e l'evento: la relazione del consulente del P.M, il cui contenuto sul punto è stato trascritto in sentenza, ha in realtà evidenziato come le contrazioni dell'utero della paziente giunsero al punto di non potere essere sopportate dal feto, proprio a causa di omissione di adeguato controllo e di tempestivo intervento; i giudicanti, avendo fatto proprio tale accertamento, non erano tenuti a svolgere al proposito ulteriori considerazioni.
Con il terzo motivo si è dedotto: che la cartella clinica è un documento che si perfeziona solo con la firma e la trasmissione al direttore sanitario e che pertanto le correzioni furono apportate su un documento non avente ancora natura di atto pubblico; che si era trattato di correzioni legittime e di aggiunte di carattere routinario; che era mancato il dolo di falsificazione.
Sotto il primo profilo la denuncia è infondata.
La cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti; attesa siffatta funzione i fatti devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi e pertanto tutte le modifiche, le aggiunte, le alterazioni e le cancellazioni integrano falsità in atto pubblico. In particolare detta cartella acquista carattere di definitività e quindi esce dalla sfera di disponibilità del suo autore in relazione ad ogni singola annotazione (Cass. 11 novembre 1983 n. 09423 RV. 161097, 161098; Cass. 27 gennaio 1998 n. 01098 RV. 209682).
Per il resto i rilievi si concretano in affermazioni di fatto e nel riproporre le identiche argomentazioni difensive a cui era stata data compiuta risposta dai giudici di primo grado per cui non si imponeva da parte della Corte territoriale onere di nuova motivazione.
Fondata è invece la doglianza in punto pena.
Invero la Corte di Appello è partita per il reato di falso, pur in assenza di appello del P.M. sul punto, da una pena base di 13 mesi di reclusione, superiore a quella inflitta in primo grado: ne deriva che si è verificata una non consentita "reformatio in peius", la quale peraltro può essere eliminata direttamente da questa Corte ristabilendo l'originaria pena base di 12 mesi, che per effetto della massima riduzione ex art. 62-bis c.p. , viene ridotta a mesi 8 di reclusione.
Infondato è il motivo con cui si contesta la legittimità della costituzione delle parti civili e precisamente dei coniugi B. in relazione al falso e del Movimento Federativo Democratico - Tribunale dei diritti del Malato per entrambi i reati.
All'uopo va puntualizzato che la legittimazione a costituirsi parte civile spetta ai sensi dell'art. 74 c.p.p. a chi subisca un danno per effetto del comportamento criminoso, indipendentemente dal fatto che tale soggetto sia la persona offesa dal reato: ne consegue che, pur essendo il bene tutelato dal falso in atto pubblico la fede pubblica, anche un soggetto privato può costituirsi parte civile in veste di danneggiato da questo delitto. In siffatta ottica è stato correttamente evidenziato dai giudici di merito come la falsità posta in essere dall'imputato potesse pregiudicare il diritto dei citati coniugi ad ottenere il risarcimento del danno per il delitto sub A.
Con riguardo al menzionato ente si richiama l'insegnamento di questa Corte secondo cui possono costituirsi parti civili gli enti e le associazioni qualora il reato venga a frustare proprio lo scopo da essi perseguito (Cass. 21 maggio 1993 n. 05230 RV. 195248; Cass. 26 settembre 1996 n. 08699 RV. 209096; Cass. 10 giugno 2002 n. 22539 RV. 221882). Nella fattispecie va considerato come il Movimento si proponga di limitare e rimuovere attentati all'integrità fisica e psichica delle persone negli ambienti dei servizi pubblici e sociali e pertanto come la sua finalità primaria sia quella di garantire un corretto rapporto tra il paziente e la struttura sanitaria (precipuamente art. 1 dello statuto del medesimo); al contempo occorre sottolineare come il diritto alla salute non sia un diritto strettamente individuale, ma altresì collettivo ai sensi dall'art. 32 della Costituzione: in questa situazione deve ritenersi che effettivamente con la condotta incriminata sia stato arrecato un danno anche all'associazione che si è assunta, assecondato i compiti dello Stato, la tutela di tale diritto e ciò vale anche per il falso che è idoneo a compromettere il suddetto rapporto.
In conclusione s'impone l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla misura della pena che viene rideterminata in mesi 8 di reclusione; per il resto il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al rimborso delle spese del grado sostenute dalle parti civili liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena che ridetermina in mesi 8 di reclusione; rigetta nel resto il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese delle parti civili (M.L., B.E., Movimento Federativo Democratico Tribunale dei diritti del malato) che liquida in euro 2.000, 00 per ciascuna parte.
Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2004.
Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2004